Le Upanishad – Che cosa sono?

pubblicato in: AltroBlog 0
– LE UPANISHAD, che cosa sono? –

(di Anonimo)

Che vuol dire Upanisad? Rimandando a trattazioni piu’ complete per una compiuta discussione del
termine bastera’ qui ricordare che si tratta di un ammaestramento spirituale conferito per
trasmissione iniziatica, che mira sostanzialmente non tanto a fornire una dottrina colma
d’erudizione, quanto ad offrire una semplice ed immediata chiave d’interpretazione delle categorie
del reale, che permetta di trascendere la sfera del quotidiano per attingere quella della realta’
ontologica. Gli insegnamenti cosi’ tramandati erano di necessita’ segreti, non comunicabili nel
consesso urbano, adatti invece ai romitori silvestri.

Quale che sia il significato ultimo del loro nome le upanisad si presentano in origine come trattati
che completano l’edificio dottrinale della quadruplice raccolta della scienza sacra rivelata, il
Veda. Sono dunque il punto d’arrivo di una speculazione che si articola su quattro livelli
principali:

1) quello delle raccolte (di inni, di formule sacrificali, di melodie cantate, di norme atte a
sanare gli errori compiuti nell’esecuzione del rituale);

2) quello della riflessione sulla forza fondante dell’universo (brahman);

3) quello dell’interpretazione esoterica del dettato sacrificale, ed infine

4) quello del valore salvifico attribuito all’interpretazione simbolica del sacrificio stesso.

Ma ben poche (13 o 14) sono le upanisad propriamente vediche, ossia intese a glossare in senso
come s’e’ detto allegorico-simbolico temi ed argomenti delle diverse raccolte che costituiscono il
Veda. La data di composizione oscilla grosso modo tra il sesto e il terzo secolo a. C. Parecchie
upanisad furono composte piu’ tardi, in epoche diverse ed assumendo via via una coloritura sempre
piu’ settaria, a mano a mano che l’antica religione vedica cedeva il passo a quello che si suole
chiamare brahmanesimo, intendendo con questo termine la fase antica dell’induismo. Tra le piu’ di
200 upanisad attestate, molte sono relativamente recenti.

Tradizionalmente il numero canonico di questo genere letterario e’ fissato in 108, cifra che
viene interpretata come il valore numerico risultante dalla somma delle lettere della parola jaya
“vittoria”, e quindi scelta eminentemente per il suo significato augurale.

La lista di 108 Upanisad “maggiori” e’ contenuta nell’ultima della serie, la Muktikopanisad. Per
motivi di opportunita’ si e’ ritenuto di classificarle in gruppi affini, tranne le prime 12,
considerate “upanisad principali” e che comprendono i numeri 1-10, 14 e 25 della lista della
Muktikopanisad.

Seguono 23 upanisad comuni a tutto l’orientamento della esegesi speculativa vedica, 20 upanisad
dello yoga, 17 upanisad della rinuncia al mondo, 14 upanisad dedicate a Visnu, 14 a Siva e 8 alla
Dea.

Le upanisad piu’ antiche vengono dette impropriamente “vediche”, poiche’ tutte le upanisad si
richiamano in linea di principio al Veda, e dunque anche composizioni tardive rivendicano
un’affiliazione a questa o quella raccolta. Esse proseguono in parte la tradizione dei testi
d’istruzione silvestre (Aranyaka) e sono considerate parte integrante della sruti, l'”audizione” del
messaggio divino ricevuta in tempi immemorabile dai veggenti cui e’ attribuita la stesura materiale
del Veda (non l’invenzione, che’ il Veda e’ in linea di principio eterno). Sono in prosa, seguite da
altre composte, parte in versi, parte in prosa.

Comune a tutte e’ l’impiego costante del dialogo, nonche’ l’utilizzo di parabole e di
espressioni figurali (in specie la metafora) al fine di far meglio comprendere passi poco chiari.
Un’altra esigenza che viene soddisfatta mediante l’accumulo di sempre nuove immagini e’ l’iterazione
continua degli stessi temi e concetti, che sa da un lato puo’ essere spiegata con la lunga
diffusione di questi testi per tradizione orale (di qui lo sviluppo di una mnemotecnica assai
raffinata), d’altro canto risponde a un’esigenza per cosi’ dire transtetuale, il tentativo di
sfondare la superficie del messaggio verbale per attingere a una realta’ piu’ profonda,
inesprimibile a parole.

La ripetizione sino ad un certo punto chiarisce, approfondisce, mette in luce aspetti prima oscuri
di una stessa realta’. Ma da un certo punto in poi genera sazieta’, causando nel lettore (per i
tempi antichi: nell’ascoltatore) una specie di effetto ipnotico, che puo’ condurre tanto
all’incoscienza quanto, per i discepoli piu’ dotati, ad uno stato di ricettivita’ spirituale per cui
quel che non puo’ essere veicolato dalle parole riesce a insinuarsi, prima inavvertitamente, poi con
prepotenza, per sfociare in passi lirici piu’ o meno riusciti, che cercano di esprimere l’ineffabile
beatitudine che sgorga dalla comprensione dell’incomprensibile.

Le upanisad seriori, che non si possono datare con certezza ma che si situano almeno sino al
nono secolo della nostra era, rivendicano per lo piu’ l’affiliazione alla raccolta piu’ tarda,
quella dedicata allo specialista di terapeutica sacrificale (Atharvaveda), e hanno marcati tratti
settari, essendo dedicate al culto di Siva, di Visnu, di Ganesa, di Skanda, di Surya e della Dea.

Descrivono i riti relativi a queste divinita’, il piu’ significato delle formule meditative loro
proprie e simili. Vi sono infine (ma esulano dal campo della presente raccolta) composizioni
moderne, che si fregiano del titolo di Upanisad assai piu’ per cercare un alone di nobilita’, che
per un reale richiamo alla tradizione: tant’e’ che esiste una Allah-upanisad (XVI Secolo?).

Tutte le upanisad, ma particolarmente le “Vediche”, sono state glossate in un’imponente serie
di commentari, antichi e moderni. Tra i primi spiccano quelli di Sankaracarya, sistematizzatore
della corrente non-dualista delle scuole che si autodefiniscono” fine del Veda” (vedanta) (tra VII e
VIII secolo). Ma non si possono dimenticare almeno anche quelli del dualista Madhva (XIII o XIV
secolo). Tra i moderni si ricorda quello del filosofo conntemporaneo Aurobindo Ghose (1872-1950).

In Occidente le upanisad hanno goduto di grande prestigio, a partire dalla versione latina di
una traduzione parziale persiana pubblicata nel 1801-2 da Abraham Hyacinthe Anquetil Duperron
(1731-1805), sino a quella tedesca di Paul Deussen del 1897. Da allora non sono mancate traduzione
nelle principali lingue europee, ne’ si e’ disdegnato di por mano anche ad alcuni commentari.

E tuttavia il pensiero upanisadico e’ rimasto vittima di un grosso equivoco. Sull’onda delle
suggestioni provate dai primi romantici tedeschi ci si e’ accaniti a vedere in questi testi il primo
sorgere dell’alba spirituale dell’umanita’, che dalle sublimi contemplazioni liriche degli inni
vedici inizia a librarsi sulle ali di una speculazione sempre piu’ rarefatta. Questo e’ in certo
senso vero, dacche’ le upanisad fanno certamente parte dell’eredita’ vedica, e i voli dottrinali cui
hanno dato origine nel corso dei secoli sono certamente quanto di piu’ etereo possa costruire
l’afflato speculativo indiano. Ma non bisogna dimenticare che le upanisad costituiscono per cosi’
dire il cardine stesso del pensiero dell’India. Cordone ombelicale tra il passato irrecuperabile del
Veda e le piu’ ardite teorizzazioni posteriori, rappresentano al tempo stesso il punto d’arrivo
dell’elaborazione concettuale del Veda e il punto di partenza di costruzioni dottrinali posteriori,
financo contemporanee. Il loro enorme lascito, ben lungi dall’essersi esaurito, spesso e volentieri
si traveste assumendo sembianze irriconoscibili, ma ad un attento esame e’ il principale
responsabile della vitalita’ del pensiero indiano tradizionale, che nonostante debba combattere gli
opposti pericoli dell’Occidentalizzazione forzata e della ripetizione banalizzante, riesce tuttavia
a sopravvivere dimostrando ancora una volta la sua insopprimibile validita’.

L’aspetto dottrinale della materia trattata acquista inusitata freschezza per l’uso di immagini,
similitudini, metafore ed altri strumenti presi in prestito dalla retorica, che spesso danno al
dettato un ritmo incalzante ed ossessivo, purtroppo destinato a perdersi in parte nell’inanita’ di
ogni traduzione. E proprio l’uso (e l’abuso?) di immagini figurali, in misura tale da sconcertare il
lettore avvezzo allo stile filosofico astratto e formale di certi pensatori nati sotto i nostri
cieli, dovrebbe dare origine a salutari riflessioni sulla fondatezza dei reiterati tentativi di
imporre categorie eurocentriche all’interpretazione del pensiero indiano.

Un’altra dimensione importante che l’interesse speculativo, ben lungi dal limitare, riesce
invece a fornire di sempre nuova vitalita’, e’ l’aspetto devozionale, che si esprime in inni di lode
alle varie divinita’ ed e’ spesso sorretto da uno spirito irenistico che non pare di maniera.

Di conserva, alla via via maggiore importanza assunta dalle tecniche psicofisiche dello yoga,
la sovrabbondanza di citazioni e pseudocitazioni contribuisce a creare una situazione che e’ di per
se’ ben nota, ma che si desidera qui evidenziare: la coabitazione, piu’ che convivenza, nei nostri
testi di orientamenti speculativi e soteriologici assai diversi se non contrastanti.

Piu’ che a risolversi in armonia tali spinte tendono, se non proprio ad annullarsi reciprocamente,
quanto meno a generare una serie di tensioni che vengono lasciate irrisolte, e che contribuiscono ad
additare al destinatario dell’insegnamento la definitiva inanita’ di ogni riduzione concettuale
dell’esperienza. Non va infatti dimenticato che l’equivoco di fondo cui soggiace il pensiero indiano
in Occidente, e che si spera questo libretto contribuira’ non certo a dissipare, ma almeno a non
avallare, e’ quello per cui si da’ per scontata in esso l’esistenza di una attitudine filosofica di
fondo.

Questo non risponde a verita’, perche’ anche le scuole che a nostra giudizio parrebbero maggiormente
dedite ad orientamenti speculativi si basano invece anch’esse sulla soteriologia, come fondamento
del proprio operare. La speculazione filosofica fine a se stessa, la ricerca del sapere come fine
ultimo, e’ considerata sul suolo indiano alla stregua della piu’ sterile e miope erudizione: il fine
ultimo e’ la liberazione, comunque (a, e da qualunque legame) la si voglia intendere. Cosi’ anche le
scuole che affinano lo studio della logica non si pongono come fine questo risultato, bensi’ solo lo
scopo strumentale di riuscire a sconfiggere platealmente, in pubblico agone dialettico, gli
avversari.

E questo risultato e’ a sua volta subordinato unicamente al fatto che, di regola, lo sconfitto in un
torneo dialettico deve adottare il punto di vista dell’avversario: cio’ che gli consentira’
finalmente (secondo le pie intenzioni del vincitore) di adire alla retta via verso la liberazione.

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *