L’esperienza della consapevolezza nello Yoga
L’esperienza della consapevolezza, del soggettivo, dell’oggettivo nello
Yoga e nella meditazione orientale
di Amadio Bianchi
I partecipanti ad una semplice lezione di Hatha-Yoga, o Yoga comune,
considerato più propriamente fisico, vengono spesso invitati dal loro
docente a chiudere gli occhi anche durante il mantenimento delle posizioni.
Ciò permette loro di stare nel presente attraverso un procedimento di
esperienza diverso dall’usuale, incominciando ad abitare, concretamente, il
loro universo interiore.
Ed é così che, talvolta inconsapevolmente, gli allievi ricevono la prima
vera iniziazione, rinascendo a nuova vita, una vita fondata su una maggiore
consapevolezza.
Per questa ragione, lo Yoga, in nessun caso, neanche nell’Hatha-Yoga stesso,
deve essere considerato come una normale forma di ginnastica esteriore.
Ancor più per altri tipi di Yoga, soprattutto per la meditazione, dove
l’approccio “interiore” risulta ancora più evidente.
Sembrerebbe una cosa tanto semplice chiudere gli occhi ma in realtà non lo é
in quanto, ad occhi chiusi, l’allievo si ritrova a mettere in azione il suo
stato di attenzione su un terreno che non gli é abituale.
La sua usuale esperienza, e per conseguenza tutto ciò che sta nella sua
mente fino a quel momento, gli deriva dall’esperienza dei sensi e questa
nuova condizione, lo disorienterebbe se il docente con la sua presenza e le
sue parole non gli facesse da punto di riferimento.
Il Maestro, infatti, normalmente, continua invitando l’allievo a prendere
coscienza della posizione del suo corpo mantenendogli tuttavia l’attenzione,
in un certo senso, in periferia, affinché la pratica non risulti,
all’inizio, troppo scioccante per mancanza di conoscenza.
Solo quando una certa maturità consentirà allo studente di affrontarsi più
in profondità, gli verrà suggerito di far convergere la consapevolezza
sull’atto respiratorio, affacciandosi all’esperienza dell’io sono o senso
dell’io (il sanscrito aham), il principio di individuazione e, per
conseguenza, anche del soggettivo.
Il soggettivo, per la cultura Yoga, deriva dal principio centripeto e di
coesione che nel Samkhya Darsana, uno dei sei punti di vista ortodossi
dell’induismo, viene chiamato Ahamkara.
L’Ahamkara é lo stadio nel quale si trova la materia o Prakrti, quando,
attivata dall’impulso dell’evoluzione, procede dallo stato neutro di Mahat
(cioè di massa energetica) a quello di, come si legge sull’enciclopedia
dello Yoga, massa unitaria, apercettiva, ancora priva di esperienza
personale, ma già con l’oscura coscienza di essere un ego.
Da un punto di vista pratico-evolutivo tutti possono intuire che si tratta
di quel principio che permetterà, in seguito, ad ogni cosa di essere quella
che è, cioè un microcosmo con il suo nome e la sua forma.
L’Ahamkara rappresenta, essendo un fondamento di separazione, un vero e
proprio ostacolo che si avverte in meditazione, impedire l’esperienza
dell’unità, poiché il vero sè, imbrigliato in questa condizione, non riesce
a rendersi conto della propria autonomia a causa dell’ignoranza, per la
quale il sè scambia corpo, sensi e mente per il vero sè.
E questa mancanza di discriminazione tra sè e non sè, si dice sia la causa
di ogni afflizione, se non altro per l’aspetto di instabilità caratteristico
del non sè.
Con il sostegno della discriminazione avrà origine la libertà.
E questo, al ricercatore serio, appare chiaro da subito.
Sperimenterà varie fasi durante le quali percepirà la sua esistenza fisica
come un involucro o come un abito, all’interno del quale si sentirà
racchiuso, e nei momenti peggiori tale sensazione sarà accompagnata da senso
di oppressione.
Il “meditante” meno preparato, invece, resterà catturato da questo suo
microcosmo, soprattutto dal mentale, affascinato come un bambino al
luna-park, dalla grande varietà di situazioni presenti dentro di lui e lì
potrà perdersi per molto tempo, addirittura dimenticando
l’esperienza-obiettivo che si era proposto.
Dicevamo che è la mancanza di discriminazione tra sè e non sè a trarre in
inganno, facendo scambiare la visione soggettiva per la realtà.
Ciò è dovuto all’Avidya, parola sanscrita che sta per ignoranza.
Colui che percorre il sentiero della Yoga deve andare incontro ad una dura
purificazione mentale prima di vedere insorgere in lui una capacità
discriminativa oggettiva.
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