L’ESSENZA SUBLIME DELLA DRAMMATURGIA INDIANA

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L’ESSENZA SUBLIME DELLA DRAMMATURGIA INDIANA

UNA RIFLESSIONE SUL DRAMMA DI KALIDASA ‘RICONOSCIMENTO DI SHAKUNTALA’

di Tania Zakharova

‘Wouldst thou the young year’s blossoms and the fruits of its decline And all by which the soul is
charmed, enraptured, feasted, fed, Wouldst thou the earth and heaven itself in one sole name
combine? I name thee, O Sakuntala! and all at once is said’. (Goethe)

“Ciò che affascina e incanta, ciò che appaga, fa estasiare e alimenta l’anima, ciò che armonizza la
terra e il cielo” – così esprime Goethe il suo entusiasmo dopo aver letto il famoso dramma teatrale
di Kalidasa, Abhijnanasakuntala (Riconoscimento di Shakuntala). Le opere di Kalidasa, che visse
intorno al IV-V secolo d.C., sono riconosciute come l’espressione suprema dell’arte letteraria
indiana, arte squisita, che richiede una conoscenza approfondita delle sue regole e dei suoi
fondamenti teorici per essere apprezzata nei suoi molteplici sapori. Nel 1792 il famoso storico e
scrittore russo N.M.Karamzin, pubblicando nella “Rivista Moscovita” alcuni episodi da
“Riconoscimento di Shakuntala”, scriveva nell’introduzione: ” …Quasi in ogni pagina del dramma
trovavo altissime bellezze poetiche, la raffinatezza dei sentimenti, una tenerezza mite,
eccezionale, inspiegabile, simile a una serata silenziosa di maggio, un’opera di una natura
purissima e impareggiabile e d’arte elevatissima”. Abhijnanasakuntala rielabora un noto episodio del
Mahabharata dove il re Dushyanta, della dinastia lunare, incontrando l’affascinante Shakuntala,
cresciuta nell’eremo del padre adottivo Kanva, si innamora della timida fanciulla e i due si
uniscono con il matrimonio chiamato gandharva(1); prima di rientrare alla sua capitale il re
promette a Shakuntala che ella diventerà la sua regina principale e le lascia in pegno un anello(2).

La fanciulla rimane in fiduciosa attesa ma un giorno incorre inconsapevolmente nelle ire di un
vecchio asceta di passaggio che la maledice predicendo che sarà dimenticata dal suo sposo e potrà
essere riconosciuta solo alla vista di un monile. Nel giorno dell’atteso incontro fra i due,
Shakuntala, che nel frattempo ha perso il segno di riconoscimento, viene ripudiata e abbandonata.
Dopo l’amara ripartita della sposa, Dushyanta ritrova l’anello che cancella la maledizione del
momentaneo oblio. Afflitto dal rimorso postumo il nobile sovrano cercherà Shakuntala in cielo e in
terra, finché non la rincontrerà insieme con il bambino speciale che le è nato da lui: Bharata,
destinato all’impero universale. Nella drammaturgia indiana ogni spettacolo teatrale aveva inizio
con una cerimonia religiosa di consacrazione dello spazio, detta purvaranga, consistente
nell’invocazione di una Divinità. Lo spettacolo era suddiviso in anka, letteralmente “curve”,
“parti” o anche “grembi” di numero variabile: la fine di ogni anka era segnalata dall’uscita di
scena di tutti i personaggi. La vicenda narrata poteva coprire un arco di tempo anche molto ampio;
per ragguagliare il pubblico sugli eventi intercorsi fra l’azione di un atto e quella di un atto
successivo si poteva inserire una scena introduttiva o “di transizione” denominata viskambhaka. A
conclusione del dramma, uno dei personaggi recitava, a nome degli attori, una stanza augurale
conclusiva (bharatavakya) in cui chiedeva alla Divinità il benessere per il pubblico e per se
stesso. Infatti, nella parte finale del dramma di Kalidasa il protagonista chiede la liberazione dal
ciclo samsarico:

Si adoperino per il bene dei sudditi e sovrani,
la Musa dei dotti venerabili sia venerata; e anche per me
Dio…la cui potenza si diffonde ogni dove cancelli ogni rinascita.
(VII anka).

Diversi critici letterari hanno cercato di scoprire il segreto dell’eterna freschezza e
irresistibile fascino del dramma di Kalidasa dietro le suggestive metafore e incantevoli stanze
liriche. La traduttrice e studiosa della poesia indiana V. Mazzarino propone una interpretazione
“metateatrale” dell’esperienza scenica: nel dramma Abhijnanasakuntala i confini tra i vari gradi di
rappresentazione sembrano sfumare l’uno nell’altro, a lasciarsi varcare ripetutamente; l’accento è
posto sull’esperienza rappresentata, quale sia il piano che la genera. Così in una delle scene lo
spettatore si trova in un boschetto, coinvolto nel dialogo fra il re innamorato che indirizza gli
epigrammi al personaggio-ape e l’affascinante fanciulla spaventata dall’ape… per scoprire poi che la
fanciulla, boschetto e ape sono ritratti su una tavoletta dipinta. Il sovrano che regge in mano la
tavoletta, immedesimandosi completamente con la sua rappresentazione mentale, scaturita dal ricordo,
era “entrato” nel dipinto per rivedere la sua amata perduta a causa dell’oblio. Con lui, per quei
brevi istanti, erano entrati nella dimensione mentale anche gli altri personaggi che poi tornano
alla “realtà” del palcoscenico. In questo modo la moltiplicazione dei livelli d’esperienza coinvolge
altre arti. Entro la “realtà” della rappresentazione scenica può emergere la “realtà” pittorica (la
quale è anche la forma concreta che hanno assunto il ricordo e il desiderio). Canto, pittura,
poesia; azione, ricordo, desiderio, stato contemplativo: lo spettacolo scorre liberamente da un
piano all’altro, e ogni nuova rappresentazione svela una nuova realtà. La tradizione letteraria
indiana ha sviluppato mirabilmente l’arte di raffigurare più dimensioni contemporaneamente,
privilegiando la presentazione dell’esperienza “rimandata” o comunque in qualche modo “velata”
piuttosto che quella in atto. Scrive V. Mazzarino nel suo articolo “La poetica del non-evento(3)”:

”Le emozioni suscitate da una poesia indiana sembrano fatte di allusioni, ricordi, desideri; il
fatto concreto rimane come dietro un velo. Nulla di più lontano, si dirà, dal “realismo” così a
lungo caro all’Occidente: eppure, la potenza di quelle allusioni e di quei desideri può superare
l’efficacia di qualsiasi descrizione realistica. Poiché, se non c’è l’evento concretamente
ricostruito come dinanzi ai nostri occhi, c’è la particolareggiata, concretissima descrizione del
“non-evento”.

La poetica dell’esperienza “velata” trova, la sua esplicita formulazione in uno dei più grandi
trattati di critica letteraria dell’India classica: lo Dhvanyaloka di Anandavardhana (IX sec.d.C.).
Secondo l’autore l’essenza del sentimento (rasa) è significato dell’espressione poetica in quanto
non è direttamente espresso, in altre parole, non è necessario che il personaggio esprima sentimenti
amorosi perché lo spettatore di un dramma “senta” l’amore rappresentato dal poeta. Una delle più
famose scene di Kalidasa ruota attorno al ricordo del re del suo incontro con Shakuntala:

Di quando in quando le dita
coprivano il suo labbro;
bello era, con i suoi impercettibili “no”,
il volto di lei dalle lunghe ciglia,
piegato sulla sua spalla;
io lo sollevai appena, ma non lo baciai.

Per un osservatore occidentale i drammi indiani appaiono come poveri d’azione: gli eventi principali
dell’intreccio spesso hanno luogo fuori scena. Sulla scena i personaggi rappresentano immagini,
situazioni che anticipano l’azione o la commentano. L’azione drammatica è data dal dispiegarsi e dal
confrontarsi di azioni mentali: evocazioni, visualizzazioni, ricordi, riflessioni. Nel dramma di
Kalidasa troviamo una interessante riflessione sull’“errore della mente” (manaso vikarah) che in
quest’opera motiva il comportamento del re con Shakuntala. Cercando di scoprire l’enigma dell’oblio
davanti all’evidenza dei fatti, Dushyanta riflette:

E’ come se, avendolo dinanzi agli occhi,
uno dicesse: “Non è un elefante”; mentre poi quello si allontana,
sorgesse il dubbio; nel vedere infine solo le orme,
si radicasse il convincimento: tale è stato l’errore della mia mente!

L’autore rivela una profonda conoscenza della natura della mente sottolineando l’importanza della
sua purificazione per percepire direttamente la Realtà:

L’immagine non prende forma su uno specchio
la cui limpidezza sia appannata da polvere:
ma quando quello è pulito, essa trova luogo facilmente.

Nella sua analisi della drammaturgia indiana V. Mazzarino osserva che “la poesia dell’India
classica, dotta, cortese e raffinata, non produce fughe surreali in regni di favola, o mistici
rapimenti in sfere estranee alle esperienze dei sensi”. Mentre la prima parte dell’osservazione
risulta molto perspicace, non si può dire altrettanto per quanto riguarda la seconda. L’artista
nella tradizione, sia che si tratti di teatro, scrittura, danza, musica, pittura o scultura, in
virtù dell’aderenza alle leggi dell’ordine universale attraverso le proprie opere cercava di
armonizzare tutti i piani antropologici dell’essere umano. In questa visione l’autentica opera
d’arte è considerata quella che attraverso il linguaggio simbolico educa la mente a percepire
concetti di alta psicologia, invitando nel mondo della trascendenza oltre che nella mera
rappresentazione sensoriale. In diverse scene dell’opera di Kalidasa viene enfatizzata la rigorosa e
spontanea aderenza dei personaggi alle leggi divine universali (dharma), che sostanzia il loro
comportamento etico.

Abhijnanasakuntala sembra un racconto a cornice: ogni dimensione presentata nell’opera appare
racchiuso dentro un altro, superiore, livello metatemporale che rimane nella mente, come traccia,
dove dietro epigrammi di una incomparabile fragranza poetica che dolcemente attirano nel mondo di
sentimenti, pensieri, visioni e spazi metafisici si intravedono i barlumi di una realtà ultima,
splendente nella sua rivelazione archetipica. Uno dei concetti più importanti del Natyashastra, il
Trattato Vedico di Teatro, Musica e Danza, è l’esperienza dei rasa. “Natya” è essenzialmente rasa,
presentato tramite situazioni, mimesi, stati emotivi transitori; è un sentimento che non può essere
sperimentato per via di nessun mezzo della conoscenza empirica, ma solo grazie alla sensibilità
estetica. Rasa, l’oggetto estetico di natura trascendente, rappresenta l’essenza dell’arte
drammatica. Secondo la filosofia dell’India classica l’arte è un modo di vivere, arte è rito, arte è
esperienza estetica elevata e soprattutto è la via per accedere alla natura spirituale. Lo scopo
dell’arte autentica è elevare l’essere umano al livello del Trascendente, far emergere le qualità
intrinseche dell’anima e sperimentare i sentimenti che la ricollegano alla Fonte suprema, Dio.
Anelando nelle sue poesie alla ricerca della Verità ultima, P.B. Shelley propone questa suggestiva
metafora:

“La vita, come una cupola di vetro multicolore,
Tinge il candido fulgore dell’Eternità.”

Colui che scopre il segreto dell’arte autentica potrà vedere oltre i frammenti colorati della vita
umana e gustare l’essenza sublime della drammaturgia indiana.

(1) Tipo di matrimonio valido a ogni effetto, che consiste nell’unione dei due sposi senza il previo
accordo delle famiglie.
(2) La versione di Kalidasa presenta alcune importanti variazioni rispetto al racconto del
Mahabharata, dove non viene menzionata la maledizione che nel dramma motiva l’oblio del re, e il
motivo dell’anello come segno di riconoscimento.
(3) Il Riconoscimento di Shakuntala, introduzione; Adelphi edizioni, 1993.

da arteespiritualita.blogspot.com/

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