Limiti delle religioni. Verità e senso

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Limiti delle religioni. Verità e senso

(di Carlo Baroncelli)

Le “religioni” non hanno il monopolio della religione. (R. Panikkar)

Il dialogo tra religioni è oggi inevitabile e necessario.
L’incontro/scontro globale tra popoli e culture comporta ovviamente
l’incontro/scontro delle rispettive religioni. Questo evento epocale
scuote un Occidente, da una parte secolarizzato e disincantato,
ammaliato – e al contempo spaventato – dal potere della propria
“tecnoscienza”.

Dall’altra, lo attraversano fermenti e bisogni che si
esprimono in una sorta di rinascita del senso religioso: una religiosità
diffusa, spesso stemperata e fortemente sincretica. Completano il quadro
l’emergere sempre più prepotente dei fondamentalismi religiosi. La
situazione e tale da rendere impossibile immaginarne gli sviluppi ma,
accanto ad aspetti negativi, si presenta ricca di aspetti potenzialmente
positivi e fecondi.

Oggi più che mai, come ci ricorda Panikkar, sarebbe un grave errore
pensare di essere – quand’anche come collettività – autosufficienti.

Atteggiamenti di fronte al dialogo

Può forse essere utile riportare una breve descrizione di quelli che
Raimundo Panikkar considera quattro atteggiamenti che è possibile
assumere di fronte al problema del dialogo religioso indicandone, nel
contempo, alcuni tratti problematici (1).

a) L’esclusivismo (la mia e basta): questo atteggiamento è
caratterizzato dal fatto che, poiché un credente che appartiene ad una
religione considera la propria religione come unica espressione della
verità universale, allora ogni altra affermazione o tradizione religiosa
che si ponga in contrasto con la propria viene dichiarata falsa.
Difendere la propria religione come assoluta è come difendere i diritti
di Dio. Secondo Panikkar, questa posizione porta con sé, oltre all’ovvio
pericolo dell’intolleranza e del disprezzo degli altri, anche
“l’intrinseca debolezza di assumere una concezione della verità
puramente logica” e ingenuamente acritica.

b) L’inclusivismo (la mia abbraccia tutto): constatando l’impossibilità
di fatto di rinchiudersi in uno “splendido isolamento” che rifugga un
confronto inevitabile, è possibile sostenere la posizione per cui la
propria tradizione religiosa include, a livelli differenti, tutto ciò
che c’è di vero, ovunque esista. Ovviamente questa forma di
universalismo deve evitare di scendere troppo su contenuti specifici per
evitare continue contraddizioni. Inoltre, in questa posizione, sono
insiti un atteggiamento di superiorità e di paternalismo (nell’avere il
privilegio di questo punto di osservazione talmente elevato da poter
abbracciare tutto), nonché il rischio di cadere continuamente in
contraddizioni logiche nel momento in cui ci dobbiamo confrontare con i
“dettagli” delle varie tradizioni.

c) Il parallelismo (tutte verso una stesso fine): in quest’ottica, tutte
le religioni, qualunque siano i loro itinerari specifici, corrono
parallele tra loro per incontrarsi (con metafora geometrica) soltanto
alla fine dei tempi (nell’eschaton). Questa posizione è tollerante, non
giudicante, evita il sincretismo, ma (sempre secondo Panikkar) “sembra
andare contro l’esperienza storica, la quale mostra che le tradizioni
umane e religiose del mondo sono in generale emerse da reciproche
interferenze, influenze e fecondazioni”. Inoltre ammette la fondamentale
autosufficienza delle diverse tradizioni religiose e “divide la comunità
umana in compartimenti stagni”.

d) L’interpenetrazione (la mia tra le altre): assumendo questa
posizione, ci avviciniamo con interesse alle tradizioni “del nostro
vicino” e cominciamo a scoprire “quanto l’altro sia implicato in
ciascuno di noi e viceversa”. Emerge la possibilità che l’altra
religione possa essere complementare alla nostra. Le diverse religioni,
allora, sono impensabili isolatamente, non esistendo che in relazione le
une con le altre. La difficoltà alla quale è esposta questa posizione
viene così espressa da Panikkar: “Siamo noi così sicuri di questa
interprenetrazione? Tra il Karma e la Provvidenza c’è interpenetrazione
o esclusione reciproca? Su quali basi si può stabilirlo?” Malgrado
questi aspetti problematici, Panikkar ritiene che quest’ultimo sia
l’atteggiamento che più di altri apra prospettive e si presti ad una
possibile crescita spirituale dei soggetti in dialogo, in un processo di
reciproco arricchimento, considerato che “il fatto religioso ultimo non
risiede in una dottrina e neanche in una coscienza di sé individuale”.

Una distinzione opportuna

Spesso sentir parlare di dialogo religioso ci rimanda all’idea di un
incontro ufficiale tra rappresentanti di diverse religioni oppure alla
necessità di studiare le dottrine di altre tradizioni religiose. Questo
è ciò che Panikkar chiama dialogo inter-religioso. In questa
prospettiva, l’altro è solamente un mio interlocutore dialettico e “il
dialogo non oltrepassa i limiti della sociologia”.

Il dialogo intra-religioso si colloca ad un livello più profondo del
precedente configurandosi come un “dialogo dialogale”, caratterizzato
dal riconoscimento dell’altro in quanto soggetto, in quanto tu, e non
soltanto come non-io. Questa scelta è sicuramente più difficile
dolorosa. Implica, infatti, un doppio, inevitabile, riconoscimento:
dell’altro in quanto non-io e dei nostri limiti individuali. Questa
forma di dialogo ci chiama direttamente in causa, è un dialogo che si
svolge dentro la nostra stessa persona e che “le toglie la maschera di
personaggio religioso all’interno della sua tradizione”. È un dialogo
che diventa esso stesso itinerario religioso, con tutto il travaglio e
lo smarrimento che ciò comporta. Un dialogo nel quale la ricerca della
salvezza personale passa attraverso l’accettazione dell’insegnamento che
l’altro può darci. “Si partecipa a questo dialogo non soltanto guardando
verso l’alto, o indietro, ma anche orizzontalmente, verso il mondo degli
altri uomini”. Le due forme di dialogo non si escludono, ovviamente, ma
un dialogo interreligioso che voglia dirsi reale non può non
accompagnarsi a quello intrareligioso.

Un dialogo autenticamente religioso non è una “conversazione da
salotto”, mette in conto il “rischio” di una modifica dei nostri
orizzonti più profondi e personali. Ed è proprio al livello di queste
“profondità” che sarà possibile incontrare effettivamente l’altro: non,
quindi, mettendo da parte la mia fede ma proprio a partire da questa
potrò incontrare e comprendere il mio interlocutore, la sua altrettanto
profonda esperienza religiosa.

Una volta intrapreso questo radicale
cammino non sarà più possibile mantenere posizioni di superiorità,
opinioni precostituite, non sarà possibile prevedere l’esito, il fine
del cammino stesso. L’altro potrà realmente essere incontrato solo
“all’incrocio delle strade, fuori dalle mura”, né la mia casa, né quella
del mio vicino possono divenire luogo d’incontro effettivo. Sarà
necessario abbandonare la riva sicura per inoltrarsi in mare aperto:
solamente quando ogni traccia di terra scomparirà alla vista, quando
sotto di me non vedrò altro che un nero abisso, solo allora potrà
avvenire l’incontro, il mutuo riconoscimento, l’arricchimento reciproco.

Solo allora si avrà una vera crescita, (crescita che significa sì
continuità e sviluppo, ma anche “trasformazione e rivoluzione”), una
nuova spirale andrà ad aggiungersi alle precedenti provocando un
ulteriore sviluppo dell’esperienza e della coscienza religiosa.

Un’occasione per l’Occidente

In quest’ottica, pensiamo che oggi i tempi possano essere maturi per
avviare un dialogo profondo con le grandi religioni orientali. Questo
incontro tra occidente e oriente potrebbe rappresentare un occasione
unica di crescita, di rigenerazione e di mutua fecondazione. Oggi che,
come ricorda Panikkar, “la tradizione cristiana occidentale sembra
essersi svuotata, esaurita, quando tenta di dare al messaggio cristiano
una espressione significativa per il nostro tempo” (2), accostarsi a
religioni dove “l’illusione è chiamata per nome, senza falsi pudori, e
viene estesa a ogni realtà” (3), potrebbe essere un forte stimolo
affinché un nuovo cammino venga intrapreso: “il vuoto metafisico
dell’occidente potrà incominciare ad articolare nuove domande”.

Nelle tradizioni orientali grande importanza è assegnata all’esperienza
religiosa personale: ciò potrebbe far riscoprire all’occidente il
significato, la forza e la profondità degli insegnamenti dimenticati dei
grandi mistici (e penso soprattutto a Meister Eckhart (4)). Potrebbe
anche rappresentare un invito ad abbandonare le dinamiche di dominio e
di potenza veicolate dalla tecnoscenza per, finalmente, ri-trovarsi,
riappacificarsi con la nostra esperienza, con il nostro essere
qui-e-ora, parte di un pianeta sofferente. Il filosofo zen giapponese
Daisetz T. Suzuki, commentando il contrasto fra l’interpretazione
occidentale e quella orientale del mistero del rapporto tra Dio, uomo e
natura, ha osservato come nella visione biblica “l’uomo è contro Dio, la
natura è contro Dio, e l’uomo e la natura sono l’uno contro l’altra”
(5). Nella concezione orientale l’uomo non esiste fuori dalla natura:
“la natura è il cuore da cui noi proveniamo e verso il quale tendiamo”.

Non si tratta certo di riesumare orientalismi di facciata o cedere al
richiamo superficiale delle mode correnti, ma riconoscere che “i grandi
problemi religiosi passano e attraversano tutte le grandi religioni e
hanno ripercussioni analoghe in tutti gli ambiti religiosi” (6). Per
questo Terrin propone l’idea di “dialogo nascosto”, un dialogo lontano
dai clamori dottrinali, attento invece alle risonanze e agli echi.

Note

1. L’analisi di questi quattro atteggiamenti, così come i concetti di
dialogo inter- e intrareligio, sono tratti da Panikkar R., Il dialogo
intrareligioso, Cittadella Editrice, Assisi 1988. (Per ragioni di spazio
abbiamo omesso i riferimenti delle numerose citazioni, n.d.r).
2. Panikkar R., op. cit., p.145.
3. Terrin A.N., Il respiro religioso dell’oriente. Luoghi d’incontro con
il cristianesimo, Dheoniane, Bologna 1997, p.7).
4. Sulla riscoperta della “via mistica” del cristianesimo leggi Watts
A., Il Dio invisibile. Cristianesimo e misticismo, Bompiani, Milano 1995
5. Citato in Campbell J., Tra oriente e occidente, Mondadori, Milano
1996, p.80.
6. Terrin A.N., op. cit., p.10

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