L’importanza della meditazione, secondo il metodo Mindfulness

pubblicato in: AltroBlog 0
L’importanza della meditazione, secondo il metodo Mindfulness

di J.K.Zinn

Tratto da: “Riprendere i sensi”
Edizioni Corbaccio
di J.Kabat Zinn”

Ne vale la pena?

L’importanza della Meditazione

Se dal punto di vista della meditazione tutto quel che cerchi c’è già,
anche se è difficile che la mente razionale si adatti a quest’idea, se
davvero non c’è nessun bisogno di acquisire nulla o di migliorare se
stessi, se sei già integro e completo e hai le stesse virtù di tutto il
mondo, allora perché mai prendersi la briga di meditare? Perché dovremmo
voler coltivare la consapevolezza, prima di tutto? E perché usare metodi e
tecniche particolari, se servono tutti per non arrivare da nessuna parte e
soprattutto visto che abbiamo appena finito di dire che la meditazione, in
ogni caso, non si limita a metodi e tecniche?

La risposta è questa: finché il significato della frase « tutto ciò che
cerchi c’è già » è solo un concetto, rimane solo un concetto, solo un altro
bel pensiero. Essendo solo un pensiero, ha capacità estremamente limitate
di trasformare la persona, di manifestare la verità dell’affermazione a cui
si riferisce, alla fin fine di cambiare il tuo comportamento e il tuo modo
di agire nel mondo.

Sono arrivato a considerare la meditazione formale soprattutto un atto
d’amore, un gesto interiore di benevolenza e di gentilezza verso noi stessi
e gli altri, un gesto del cuore che riconosce la nostra perfezione anche
nella nostra evidente imperfezione, con tutti i nostri difetti, le nostre
ferite, i nostri attaccamenti, le nostre contrarietà e la nostra
persistente abitudine all’inconsapevolezza. E un gesto molto coraggioso
sedersi per un po’ e installarsi nel momento presente, senza fronzoli. Nel
momento in cui ci fermiamo a osservare e ascoltare e ci consegniamo attimo
per attimo a tutti i nostri sensi, compresa la mente, noi incarniamo ciò
che di più sacro abbiamo nella vita. Il gesto di sederci – che può
comprendere l’assunzione di una determinata posizione per la meditazione
formale, ma potrebbe anche consistere nel prendere maggiore consapevolezza
o maggiore capacità di perdono – ci riporta nella nostra mente e nel nostro
corpo; potremmo dire in un certo senso che ci rinnova, che rende nuovo e
fresco questo momento, lo libera, lo rende senza tempo, aperto e
spalancato. In quei momenti noi trascendiamo ciò che crediamo di essere,
andiamo al di là della nostra storia e di tutta la nostra incessante
attività di pensiero, per quanto profonda e importante sia a volte, e
dimoriamo nella visione di ciò che c’è da vedere, nella conoscenza diretta
e non concettuale di ciò che c’è da conoscere, che non occorre cercare
perché è già presente, sempre. Ci fermiamo nella consapevolezza, nella
conoscenza in sé. Diventiamo la conoscenza. E dato che siamo completamente
avvolti nella trama e nell’ordito dell’universo non c’è davvero nessun
limite a questa conoscenza e non c’è limite a questo gesto benevolo di
consapevolezza, nessuna separazione dagli altri esseri, nessun limite al
nostro essere o alla nostra presenza disponibile e aperta. Detto a parole
può sembrare un’idealizzazione; a farne esperienza, invece, è semplicemente
quello che è, è la vita che esprime se stessa, è la coscienza che vibra
nell’infinito insieme alle cose così come sono.

Fermarsi nella consapevolezza in ogni attimo significa anche consegnarci a
tutti i nostri sensi, entrare o restare in contatto con il panorama
interiore ed esterno come un’unica incomparabile unità, e quindi in
contatto con tutta la vita che si dispiega nella sua pienezza in ogni
momento e in ogni luogo in ctii mai ci possiamo trovare, nello spazio
interiore come in quello esterno.

Thich Nhat Hanh, maestro Zen vietnamita, insegnante di pratica di
consapevolezza, poeta e attivo pacifista, sottolinea giustamente che una
delle ragioni per cui potremmo aver voglia di praticare la consapevolezza è
che involontariamente pratichiamo l’opposto, quasi sempre. Ogni volta che
ci arrabbiamo impariamo ad arrabbiarci sempre meglio e rinforziamo
l’abitudine di arrabbiarci. Quando si mette proprio male diciamo di «
vedere rosso », il che significa che non vediamo con chiarezza quel che
succede e così, in quel momento, possiamo dire di avere « perso » la mente.
Ogni volta che siamo assorti in noi stessi impariamo sempre di più a
lasciarci assorbire e a perdere consapevolezza; ogni volta che siamo
ansiosi impariamo meglio a essere ansiosi: la pratica perfeziona. Se siamo
inconsapevoli della rabbia o dell’assorbimento in se stessi o di ogni altro
stato mentale che ci può travolgere, rinforziamo nel sistema nervoso quelle
reti neuronali su cui si basano i nostri comportamenti condizionati e le
nostre abitudini inconsapevoli, il che poi ci rende sempre più difficile
sgrovigliarcene fuori, anche ammesso che ci rendiamo conto di quello che
sta succedendo. Ogni volta che un desiderio, un’emozione, un impulso cieco,
un’idea o un’opinione data per certa ci catturano, noi finiamo realmente
imprigionati nella stretta del nostro modo abituale di reagire, che sia
l’abitudine di battere in ritirata e prendere le distanze o di cadere
nell’ansia o nella rabbia. Queste abitudini si accompagnano sempre a una
stretta, a una contrattura della mente e del corpo.

Allo stesso tempo, però, abbiamo a disposizione anche una potenziale
apertura, una possibilità di non cadere in quella stretta o di uscirne più
in fretta: se riusciamo a portarvi sopra la consapevolezza. Perché è solo
la nostra cecità, in quel momento, che ci rinchiude nei nostri automatismi
di reazione, che ci fa prigionieri delle sue conseguenze a cascata (cioè di
tutto ciò che accade nel momento immediatamente successivo, nel mondo e in
noi stessi). Risolta la cecità, vediamo che la gabbia in cui pensavamo di
essere rinchiusi è già aperta.

Ogni volta che riusciamo a riconoscere un desiderio come desiderio, la
rabbia come rabbia, un’abitudine come abitudine, un’opinione come opinione,
un pensiero come pensiero, uno spasmo della mente come spasmo della mente,
una sensazione fisica intensa come sensazione intensa, ne siamo liberati.
Basta già questo; non occorre neanche che rinunciamo al desiderio: vederlo
e riconoscerlo come desiderio è già sufficiente. In ogni dato momento o
stiamo praticando la consapevolezza o de facto stiamo praticando
l’inconsapevolezza. Vista in questo modo, forse, ci verrà la voglia di
assumerci maggiormente la responsabilità del nostro modo di interagire con
il mondo, a livello interiore come esteriore, in ogni singolo momento,
dato che non esistono momenti di « intervallo », nel corso della vita.

La meditazione, quindi, è allo stesso tempo niente del tutto (perché non
c’è nulla da fare e nessun luogo dove andare) e anche il lavoro più
difficile al mondo (perché la nostra abitudine all’inconsapevolezza è
sviluppatissima e oppone tanta resistenza a lasciarsi vedere e smontare
dalla consapevolezza). E ci vogliono metodo e tecnica e sforzo per
sviluppare * rifinire la nostra capacità di consapevolezza in modo che
nesca a domare la sregolatezza della mente, che alle volte la rende così
ottusa e insensata.

* * *

Questi due aspetti della meditazione, essere assolutamente niente e il
compito più duro al mondo, fanno sì che sia necessario un alto grado di
motivazione perché si possa praticare l’essere estremamente presenti senza
attaccamento né identificazione. Ma chi mai ha voglia di dedicarsi al «
lavoro più duro al mondo » quando siamo già travolti dalle cose da fare,
più di quante non si riesca a portare a termine, cose importanti,
necessarie, cose a cui magari teniamo molto, che ci permettono di costruire
ciò che vogliamo costruire, qualunque sia, o di raggiungere quel che
vogliamo raggiungere, dovunque sia, o a volte cose che compiamo anche solo
per togliercele di torno e poterle spuntare dall’elenco delle cose da fare?
E perché mai meditare, visto che significa « non fare niente » e visto che
ogni inazione non porta mai da nessuna parte ma ti lascia al punto in cui
ti trovi? Perché mai dovrei dispiegare tutti i miei non-sforzi, i quali
richiedono comunque così tanto tempo ed energia e attenzione?

Posso rispondere solo questo: tutte le persone che ho incontrato che
praticano la meditazione di consapevolezza e che sono riuscite, in un modo
o nell’altro, a mantenerla costante nella vita per un periodo di tempo una
volta o l’altra mi hanno detto (in genere quando le cose per loro andavano
nel peggiore dei modi) di non riuscire neanche a immaginarsi come se la
sarebbero cavata senza la pratica. Una volta che pratichi, sai che cosa
vuol dire. Se non pratichi non c’è modo di saperlo.

Naturalmente è probabile che la maggioranza delle perso**ne si accosti per
la prima volta alla meditazione di consapevolezza spinta da tino stress o
da un dolore di qualche genere e dall’insoddisfazione che prova per alcuni
aspetti della propria vita; a farli muovere è la sensazione che quei
problemi possano trovare soluzione somministrando a se stessi una piccola
dose di osservazione diretta, di indagine e di comprensione per se stessi.
In quel modo lo stress e il dolore diventano valide spinte motivanti, porte
atuaverso le quali si entra nella pratica.

* * *

Un’altra cosa: dire che la meditazione è il lavoro più duro al mondo non è
proprio corretto finché non si capisce che non intendo solo parlare di «
lavoro » nel senso usuale, ma anche di gioco. La meditazione è anche gioco.
Tanto per cominciare, è esilarante osservare come funziona la nostra mente.
Essa è di gran lunga troppo seriosa per prenderla sul serio. Per una vera,
giusta pratica di consapevolezza sono essenziali senso dell’umorismo,
giocosità, e sventare fin dall’inizio ogni sfumatura di atteggiamenti da
santarellini. E poi il lavoro più duro al mondo forse è essere
genitori,non meditare: ma, se siete genitori, trovate che siano due
cose diverse?

Di recente mi ha telefonato un collega medico vicino alla cinquantina che
aveva subito un intervento di protesi d’anca (piuttosto precoce, a
quell’età), prima del quale era stata necessaria una risonanza magnetica.
Mi ha raccontato quanto gli fosse stato utile avvolgersi nel respiro mentre
il macchinario lo inghiottiva; ha detto che non riusciva neanche a
immaginare che effetto facesse su pazienti che non sapevano niente di
meditazione e dell’uso del respiro in consapevolezza per restare centrati
in una situazione così difficile e di risonanze magnetiche se ne fanno
tante, tutù i giorni.

Ha detto anche che era stupefatto dal grado di inconsapevolezza che aveva
caratterizzato mold aspetti della sua degenza ospedaliera. Si era sendto
spogliato prima del suo status di medico (piuttosto eminente, fra l’altro)
e poi della sua identità personale. Era stato « oggetto di cure mediche »,
ma nell’insieme quelle cure gli erano state propinate con ben poca cura.
la cura richiede empatia e consapevolezza, una presenza cordiale e
aperta, e spesso è sorprendente quanto manchi proprio quando si pensa che
dovrebbe essere più evidente. Dopotutto, le chiamiamo cure mediche!
Sconcerta, turba e rattrista sapere che queste osservazioni sono ancora
frequentissime e che vengono perfino dai medici stessi quando assumono il
ruolo di pazienti.

Al di là della presenza dello stress e del dolore in ogni parte della mia
vita, la motivazione che mi spinge a praticare la consapevolezza è
piuttosto semplice: ogni momento che mi perdo è un momento che non vivo.
Ogni momento che non vivo rende più probabile il fatto che manchi di vivere
anche il momento successivo, che lo passi intabarrato nell’abitudine
inconsapevole a pensare, sentire e agire in automatico, invece che a vivere
immerso, motivato e guidato dalla consapevolezza. Succede di continuo, a
quanto vedo. Il pensiero al servizio della consapevolezza è il paradiso; il
pensiero in assenza di consapevolezza può essere l’inferno. Perché
l’assenza di consapevolezza non è semplicemente innocente, insensibile,
pittoresca o sprovveduta: il più delle volte è attivamente nociva per se
stessi come per gli altri con cui entriamo in contatto o condividiamo la
vita, che ne siamo coscienti o no. Fra l’altro, quando ci esponiamo di
tutto cuore alla vita e prestiamo attenzione ai particolari, la vita stessa
è di un interesse travolgente, è rivelatoria, suscita uno stupore
reverenziale.

Se sommiamo tutti i momenti persi vediamo che la disattenzione può davvero
consumarci tutta l’esistenza e può caratterizzare praticamente ogni nostra
azione e ogni scelta che facciamo o non facciamo. E per questo che viviamo,
per mancare la nostra vita, per fraintenderla? Io preferisco entrare
nell’avventura tutti i giorni con gli occhi aperti e prestare attenzione
alle cose più importanti, anche se di tanto in tanto mi ritrovo davanti
alla debolezza dei miei sforzi (quando penso che siano « miei »), alla
tenacia delle mie abitudini e dei miei automatismi più radicati (quando
penso che siano « miei »). Trovo utile andare incontro a ogni momento con
freschezza, come a un nuovo inizio; trovo utile tornare di continuo alla
consapevolezza del momento presente e lasciare che la disciplina della
pratica generi una perseveranza delicata ma ferma che mi mantenga aperto,
almeno un po’, a tutto quel che si presenta, che me lo faccia contemplare,
imparare, osservare a fondo, e che mi insegni tutto ciò che posso imparare
quando la natura della situazione mi si svela perché le ho prestato
attenzione.

Quando si fa così, che altro resta da fare? Se non siamo radicati nel
nostro essere, se non siamo radicati nella presenza vigile non ci sdamo
perdendo, in realtà, il dono della nostra stessa vita e l’opportunità di
essere realmente di beneficio agli altri?

Mi è utile ricordare a me stesso di chiedere al mio cuore, ogni tanto, che
cosa sia davvero importante, in questo preciso istante, e ascoltare molto
attentamente la risposta.

Per dirla con le parole di Thoreau alla fine di Walden: « Albeggia e
nasce soltanto il giorno che accogliamo da svegli ».

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *