Linee guida per la vita interiore 2
(parte secondae fine)
“LINEE GUIDA PER LA VITA INTERIORE”
Di Swami Gokulananda. Estratto da Tattvaloka, Febbraio 2007.
(Tratto dal Bollettino ‘VIDYA’- di FEBBRAIO
– Sadhana e japa –
Spesso, quando ci sediamo per meditare, ci si presenta tutta una serie di pensieri vari. C’è modo di
venirne fuori? C’è un metodo grazie al quale potremo riuscire a infrangere questo muro di ostacoli?
C’è un metodo grazie al quale un aspirante può superare tutte le difficoltà che sorgono sul sentiero
verso la Meta suprema?
La risposta è affermativa: c’è una tecnica sperimentata che si basa sul japa e consiste nella
ripetizione metodica di una formula sacra, un nome – un siddha-japa-mantra – che si riceve dal
proprio guru o Maestro spirituale. Tramite il mantra il potere viene trasmesso dal Maestro al
discepolo.
Per procedere verso la meta divina dobbiamo avere una divinità propria, o ishtadevata, e un seme di
meditazione o siddha-bija-mantra. Il japa diviene efficace quando, insieme alla ripetizione del
mantra, ci soffermiamo sul suo significato secondo l’istruzione del Maestro.
La disciplina (sadhana) che si basa sul japa pone l’enfasi sull’aiuto proveniente dai simboli
sonori, poiché pensiero e suono sono interrelati. Tale sadhana ha duplice valore, uno esoterico,
l’altro essoterico. Grazie alla semplice vibrazione di un dato suono (mantra) si verifica un senso
di risveglio spirituale, si apre per noi un nuovo campo di consapevolezza; esso genera una facoltà
(shakti) che unifica tutte le energie presenti in noi in un unico fascio di energia. Le nostre
energie vengono dissipate in molteplici direzioni: la sadhana-japa assorbe tutte queste energie e le
unifica. In tal modo un aspirante riuscirà a svegliare il potere della kundalini che giace in noi
allo stato latente.
Si deve essere in questo stato di preghiera sempre e ovunque. Ma è praticabile essere sempre in tale
disposizione? Trascorrere tutto il tempo nella sola orazione sembra alquanto impraticabile, ma se si
vuole conseguire l’illuminazione spirituale si deve pregare ininterrottamente. Non c’è dubbio che
altri pensieri occuperanno la nostra mente distraendoci e impedendoci quindi di essere sempre
raccolti in preghiera; il rimedio consiste nell’esercitare la nostra forza di volontà e riportarci
alla condizione di orazione malgrado possano esserci altri pensieri.
Orazione incessante non significa che dobbiamo continuamente ripetere il nome del Signore a voce
alta, ma vuol dire che dobbiamo essere consapevoli di vivere costantemente alla sua presenza.
Dobbiamo anche assicurarci di non fare o dire o pensare qualunque cosa che possa allontanarci da
lui. La cosa importante da notare, mentre impariamo l’arte della preghiera incessante, è che
possiamo riuscirci solo se amiamo il Signore, e forse non lo amiamo veramente. Noi siamo in
preghiera solo per un’ora o giù di lì, la mattina o il pomeriggio. Swami Yatisvaranandaji, un
venerato monaco del nostro Ordine, soleva dire che siamo dei religiosi solo per mezz’ora la mattina
e mezz’ora il pomeriggio, ma ciò non costituisce una vera vita spirituale. Pertanto, dobbiamo
rivolgerci in preghiera al Signore onnipresente senza soluzione di continuità. Ciò implica una
vigilanza e una presenza a se stessi che non conosce soste; l’azione stessa verrà così compiuta alla
vivente presenza dell’ àtman.
– Controllare le tendenze-vasana –
La società in cui viviamo e il nostro ambiente sono pieni di svariati tipi di influenze nocive e
mondane a cui non possiamo sfuggire. Se non le neutralizziamo, se non ci diamo da fare per
sbarazzarci delle influenze che ostacolano il nostro progresso spirituale, non riusciremo a
realizzare in questa vita la sublime meta dell’esistenza. Shankaracarya fa notare che il modo per
neutralizzare le influenze mondane consiste nel considerare ogni cosa, in ogni circostanza, ovunque,
sempre, e in ogni modo, come il Brahman e solo Brahman(7).
I desideri rappresentano ostacoli formidabili sul nostro cammino verso la Meta suprema; i desideri,
o vasana, vengono stimolati da due fattori: pensieri interni e azioni esterne. Inizialmente c’è un
desiderio mentale: voglio possedere questo, voglio usufruire di questo o di quell’altro oggetto. Il
pensiero si presenta alla mente, e ciò che inizia come pensiero gradatamente precipita in azione;
pertanto il desiderio è nella mente, l’azione all’esterno.
A causa di questi due movimenti – il continuo dimorare sugli oggetti dei sensi e poi l’agire, spinti
da questi ultimi, siamo invasi da un numero sempre crescente di vasana. A volte è stato osservato
che, anche se per un qualche motivo teniamo a freno alcune gratificazioni dei sensi, continuiamo
tuttavia a soffermarci su tali oggetti sensibili. Facendo così, le nostre imposizioni non sono altro
che semplici finzioni e invece di risolvere il problema lo aggravano.
Allora che cosa dovremo fare? Dovremo sviluppare la consapevolezza, l’attenzione, la vigilanza. Nel
nostro viaggio verso la grande meta, se accordiamo spazio all’estroversione incontrollata rischiamo
di cadere, perché interviene subito l’ ego e di nuovo gli oggetti dei sensi ci si affollano intorno
per reclamare attenzione. Così, altre terribili vasana si imprimono nella sostanza mentale e saremo
soggetti a nuove e reiterate cadute. La nostra sadhana allora diviene pura perdita di tempo ed
energia per cui è imperativo coltivare l’attenzione e la vigilanza.
Viviamo una vita identificati a ciò che è mera apparenza; fondamentalmente e intrinsecamente siamo
l’Atman, siamo sat-cit-ananda, ma abbiamo dimenticato il nostro divino lignaggio. Siamo consapevoli
solo della nostra eredità biologica e viviamo un’esistenza psicofisica, sul piano della non-realtà.
Continuiamo a indulgere in diversi tipi di tendenze egoiche (vasana-asat) che dominano la nostra
mente. Tali tendenze devono essere rimosse tramite i desideri puri (vasana-sat). Dobbiamo
assicurarci di non indulgere o lasciarci attrarre da alcun tipo di pensiero erroneo ed egoico e non
demordere mai. La perseveranza si impone: dobbiamo continuare ad estirpare le erbacce e allo stesso
tempo fare in modo che venga ridotta l’eredità del passato con tutte le sue cattive impressioni.
Insieme allo sforzo di ridurre le impressioni negative del passato dovremo anche coltivare degli
atteggiamenti positivi. Una volta che il prato è sgombro dalle erbacce dovremo piantare al loro
posto dei fiori e alberi da frutto. Allo stesso modo, mentre eliminiamo tutti i pensieri di natura
egoica dobbiamo, contemporaneamente, coltivare delle virtù positive.
– Come annientare il senso dell’io (ahamkàra)? –
Tutte le grandi anime che hanno realizzato Dio ci fanno ripetutamente notare che bisogna rinunciare
al “senso dell’io” (ahamkàra), che nasce dalla mente proiettante e immaginativa (manas) in cui si
riflette la luce del nostro intelletto (buddhi). In realtà, tutti i nostri problemi possono esser
fatti risalire all’ahamkàra. Finché continueremo a pensarci in termini di “io”, non sarà minimamente
possibile neppure parlare di liberazione. Continuando a vivere sul piano egoico, saremo soggetti a
un’innumerevole varietà di agitazioni mentali circa noi stessi, la nostra famiglia, ricchezza,
erudizione, ecc. Una volta superato il “senso dell’io”, la molteplicità – la quale non è altro che
la somma delle sovrapposizioni (upàdhi) proiettate sulla Realtà dalla mente immaginativa –
scomparirà e così realizzeremo il Sé supremo.
L’ahamkàra viene qui definito duràtma, il malvagio. Qual è di solito il nostro atteggiamento?
Pensiamo di essere colui che agisce (karta) o colui che fa esperienza (bhokta). Questi atteggiamenti
devono essere superati perché non sono altro che modalità espressive dell’io o ahamkàra. Che cosa
succede quando siamo identificati all’ahamkàra? Ci pensiamo in termini di intelletto, mente e corpo,
con tutti i relativi organi sensoriali. Di conseguenza, ci autolimitiamo e tramite
l’ignoranza-avidyà, sovrapponiamo a noi stessi, in quanto àtman, piaceri e dolori che sono causa di
sofferenza. Superate tali limitazioni possiamo realizzare in questa stessa vita la nostra vera
natura eternamente pura, intelligente, illimitata e di assoluta beatitudine.
Se siamo intenzionati a realizzare la meta finale dobbiamo ricorrere ai vari mezzi e supporti,
alcuni dei quali sono già stati esaminati. Ciò di cui ci stiamo occupando ora riguarda il
superamento del senso dell’io. È stato affermato che l’assenza di ego conduce alla realizzazione, ma
dovremmo sempre ricordare che questo ‘senso-dell’io’ (l’ahamkàra) è un nemico formidabile. Se non
riusciamo a neutralizzalo, in quanto «simile a una spina nella gola di un commensale»(8), non
potremo conseguire la meta a cui aspiriamo.
Come possiamo superare il senso dell’io e poter così godere della beatitudine del Sé? Come la spina
viene estratta tramite delle pinzette affinché si possa godere del cibo, allo stesso modo, con
l’aiuto della conoscenza-jnana e con la spada della discriminazione-viveka, dobbiamo eliminare il
senso dell’ io e svelare la felicità del regno dell’ àtman.
E ora eccoci ad un punto importante. Supponiamo che, tramite la disciplina spirituale e la grazia di
Dio, si riesca ad attenuare il “senso dell’io”, causa delle modificaazioni mentali come: io sono
l’agente, questo è mio, io sono fatto così e così, ecc. Qui occorre la massima attenzione perché
l’io può in qualche modo riprendere vitalità. È quanto afferma Shankara: «[Sappi comunque che] questo terribile io, per quanto tu lo creda sradicato, può riapparire anche per un istante nella tua
mente, provocando centinaia di calamità, pari alle nuvole minacciose che si agitano nella stagione
delle piogge» (Vivekacudamani, 309).
Che cosa succede quando si continua a pensare agli oggetti dei sensi? Si crea un attaccamento,
dall’attaccamento sorge il desiderio che, se non viene soddisfatto, dà luogo all’ira, dall’ira ha
origine la credenza erronea e questa porta alla perdita di memoria che va a incidere sulla capacità
discriminante e quindi si soccombe(9). In uno dei versi del Vivekacudamani si sostiene che solo
armati con la spada della discriminazione (viveka) possiamo attraversare l’oceano che rapppresenta
la condizione terrena: pertanto, se perdiamo la discriminazione, non c’è speranza alcuna di salvezza
(10).
Un altro punto importante: gli oggetti dei sensi producono delle impressioni nella nostra mente.
Dobbiamo comunque muoverci in questo mondo, non possiamo tenere gli occhi chiusi, né menomare gli
altri organi, per cui è inevitabile che ci colpiranno impressioni sensoriali relative a oggetti di
vario tipo. Tutto ciò rientra nella normalità; il problema sorge solo quando iniziamo a stabilire un
rapporto e intrattenere desideri su tali oggetti (attaccamento). Pertanto, se queste impressioni
affolleranno la nostra mente, non dovremo permetter loro di sopraffarci. Allora qual è il rimedio?
Per non sbagliare dovremo respingere la tendenza della mente a soffermarsi sugli oggetti piacevoli,
radice di ogni calamità.
Vorrei ora proporvi una grande ricetta. Riprendiamo la domanda: perché inseguiamo i piaceri
sensoriali? A tale domanda possiamo rispondere: a causa dell’identificazione con il corpo. Colui che
si identifica con il corpo naturalmente è avido di piaceri sensoriali di ogni tipo, ma colui che è
privo di tale identificazione non si curerà di inseguire tali piaceri.
Quanto segue è una sottile verità filosofica. ‘Kàma’ signiifica desiderio. Chi è un kam? Qualcuno
che ha desideri, una persona che vive costantemente immerso nella convinzione di essere il corpo.
Fintanto che perdura il senso “io-sono-il-corpo” ci sarà anche la richiesta di gratificazioni
sensoriali e, è bene essere franchi, si sarà disinvoltamente gaudenti. Tale persona penserà a se
stessa solo come corpo, e a proposito di ciò Swamiji ha detto che occorre finirla con questa erronea
identificazione, e che lo spirito, attualmente percepito come corpo, deve essere compreso in quanto
spirito.
Nel momento in cui ci si comprende come spirito si è liberati, certamente una grande consolazione
per tutti noi. Per la realizzazione della Verità suprema non abbiamo necessariamente bisogno di
aspettare anni ed anni o addirittura un’altra nascita. Alcuni filosofi parlano di ciò che può esser
definito “la realizzazione post-mortem”(11) . Non è questo il problema; a noi interessa sapere se la
liberazione è possibile in questa stessa vita e proprio in questo corpo. Sri Ramakrishna, della cui
illuminazione spirituale tutto il genere umano ha beneficiato, Swami Vivekananda, e altre grandi
anime, ci assicurano che è possibile, purché vengano ricercati e impiegati gli idonei giusti mezzi.
NOTE:
1) Cfr. Brihadaranyaka Upanishad, con il Commento di Shankara, 1.4.10. Traduzione dal sanscrito e
note a cura del gruppo Kevala. Edizioni Ashram Vidya, Roma.
2) Cfr. ShanIkara, ‘Il canto della conoscenza del Brahman’ (Brahmajnanavali), 18, in “Opere Minori”
vol.III. Edizioni Ashram Vidya.
3) Lett. riflessione sul “gioco” divino. In India sono famosi i lila di Krishna con le pastorelle a
Vrindàvan, la sacra foresta dove Egli nacque; la loro simbologia richiama il gioco divino dell’anima
con il suo Signore. Cfr. Glossario Sanscrito. Edizioni Ashram Vidya.
4 Cfr. Katha Upanishad con il commento di Shankara 2:1.1. Traduzione dal sanscrito e note a cura del
gruppo Kevala. Edizioni Ashram Vidyà.
5 Cfr. Shankara, Vivekacudamani. 18-30. Traduzione dal sanscrito e commento di Raphael. Edizioni
Ashram Vidya.
6) Sono sinonimi di sat, cit, ananda.
7) Cfr. Shankara. Vivekacudamani, 315-16. Anche 236. Op. citata.
8) Cfr. Shankara. Vivekacudamani, 307. Op. cit.
9) Cfr. Bhagavadgita, II, 62-63. Traduzione dal sanscrito e commento di Raphael. Edizioni Ashram
Vidyà.
10) Cfr. Shankara, Vivekacudamani , 80. Anche 147, 307. Op. cit.
11) In altri termini, videhamukti (liberazione al momento della morte), o kramamukti (liberazione
differita o per gradi).
Lascia un commento