(di Corrado Pensa)
– Parte prima –
Il brano che pubblichiamo è la trascrizione di un discorso tenuto a
Milano il 10 febbraio 1999 in occasione della presentazione del libro
“Chi muore?” di Stephen Levine.
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Il tema di questa sera è una riflessione sull’insegnamento del Buddha
sulla morte, che è stata stimolata dalla pubblicazione del libro /Chi
muore?/ di Stephen Levine, autore che si è occupato a lungo di
meditazione e che, da un certo momento in poi, si è dedicato
all’assistenza ai malati terminali, con seminari molto apprezzati,
rivolti sia a persone che stanno vicino a malati terminali, sia ai
malati stessi. Dal materiale proveniente da questi seminari è nato
questo libro tradotto adesso anche in italiano.
Quindi, faremo questa chiacchierata facendo la spola tra il Buddha e
Stephen Levine, considerando entrambi i modi, quello antico e classico
del Buddha e quello contemporaneo di Stephen Levine.
Comincerei da una citazione di un autore più recente di Stephen Levine,
Rodney Smith, che è anche lui insegnante di meditazione e direttore di
una casa per malati terminali negli Stati Uniti. Il libro di Rodney si
chiama ‘Lezioni dai morenti’. In un capitolo di questo libro, leggiamo:
“In una delle aeree più violenta e degradata della città, viveva Roxane,
una donna simpaticissima. Anche lei si stava avvicinando alla morte.
Ricordo che nel bel mezzo del suo soggiorno, a casa sua, c’era
un’apertura nel pavimento, e da lì entravano e uscivano polli e galline
che stavano sotto la casa e Roxane, quando ancora ne aveva la forza, li
scacciava con una scopa. Io andavo molto volentieri a fare visita a
Roxane, perché Roxane irraggiava fiducia, umorismo e calore. La sua
accettazione della morte era straordinaria. Ogni volta che la salutavo,
mi sentivo più fresco, come se lei mi avesse dato qualcosa che andava al
di là della visita. Roxane sapeva qualcosa sul morire che io non sapevo,
perciò mi sorprendevo a voler imparare da lei, anche se ero io ad avere
il ruolo di assistente professionista. Dopo parecchie settimane, le
chiesi come avesse risolto la sua morte, e come potesse starsene così
tranquilla e in pace. Roxane mi guardò con un’espressione serena e senza
tempo e mi disse: “Mio caro, la morte non mi spaventa più. Due dei miei
figli sono morti tra le mie braccia. Ho potuto guardare la morte negli
occhi e i suoi occhi sono gentili”.
Dunque, siamo davanti a una dimensione di amicizia per la morte. È
quella stessa amicizia che sentiamo risuonare in grandi autori
spirituali, cito per esempio la maestra vivente Vimala Thakar: “Non c’è
miglior amico della morte. È il grande, il supremo Amico. Il grande
Amico ci aspetta alla porta. Ricorda questo e tutto il resto sarà
perfettamente semplice e facile”. Anche qui, allora, la morte vista in
una luce del tutto diversa da quella luce sinistra del cupo falciatore
con la clessidra, che per tanti secoli è stata la raffigurazione
standard della morte.
L’amicizia per la morte come garanzia definitiva di nutrire amicizia per
la vita tutta intera, dunque garanzia di quell’amore incondizionato che
è l’altra faccia della sapienza. L’esempio di Roxane è bello e
incoraggiante, perché ci mostra dal vivo, in un contesto molto domestico
e lontano da bagliori spirituali, come questo potenziale positivo
malgrado tutto, lo possiamo chiamare così, sia dentro di noi. In genere,
occorre un lungo lavoro interiore per farlo emergere, ma a volte ci sono
o delle predisposizioni personali particolarmente forti o degli
incidenti, la morte di una persona cara, la propria morte, che lo
portano in superficie, con sorpresa della stessa persona. Inutile dire
che ben più spesso la morte è vissuta non come amica, bensì come il
nemico più grande e assoluto.
Vediamo un paio di casi nelle scritture buddhiste. In questi due casi
che considereremo, il punto di partenza è proprio un’avversione
incondizionata nei confronti della morte. Sono due donne. La prima si
chiama Patachara e le scritture descrivono la sua storia
drammaticissima. In viaggio con il marito e due figli, il marito muore,
perché morso da un serpente. Lei rimane con i due figli, ma il più
grande viene travolto da un fiume in piena, il più piccolo viene portato
via da un rapace. Questo avviene durante un viaggio in cui Patachara va
a trovare i genitori e il fratello. Mentre, avendo perduto il marito e i
figli, si dirige verso la casa dei genitori, incontra delle persone che
provengono dal villaggio della sua famiglia, dal quale si leva un’enorme
colonna di fumo, che le spiegano che una terribile tempesta ha travolto
il villaggio e quel fumo è il fumo di una grande pira funeraria sulla
quale giacciono anche i genitori e il fratello. Patachara sta per
impazzire.
Le consigliano di rivolgersi al Buddha che si trova nelle
vicinanze. Il Buddha, in questa occasione, tocca un tema che per noi
occidentali o è lontano o è vicino in maniera superficiale, il tema del
karma, delle vite passate. Il Buddha dice a Patachara: “Pensi che sia la
prima volta che piangi per la morte di qualcuno? Ti è successo
moltissime volte, talmente tante che per accogliere le tue lacrime non
basterebbero i quattro oceani”. Un’immagine indubbiamente forte che c’è
spesso nelle scritture canoniche del buddhismo, quando si parla del
dolore che abbiamo accumulato in una serie infinita di esistenze
precedenti, le lacrime che vengono da questo dolore, si dice, non
basterebbero a colmare i quattro oceani della cosmologia dell’epoca.
In altri termini: qual è il succo di questo insegnamento? È
l’affermazione del carattere universale, comune e continuo della morte.
Ti è successo tante volte e succede a tutti tante volte, succede in
continuazione. Questo insegnamento così apparentemente semplice circa
l’universalità e il carattere comune e continuo della morte, veicolato
da un maestro della portata del Buddha, fa sì che qualcosa si sciolga
nella disperatissima Patachara e le scritture descrivono che proprio in
quel momento lei compie un salto, il primo stadio della liberazione.
Dall’abisso di dolore, attraverso questo insegnamento, impartito dalla
persona giusta, al momento giusto, lei ha questo ribaltamento e si trova
in uno stato di prima liberazione, quello che si chiama l’entrata nella
corrente.
L’altro caso è quello di Kisagotami. Kisagotami ha perso il suo bambino,
ma non lo accetta assolutamente, per cui si aggira con il corpo del
bambino morto e chiede a tutti un rimedio per riportarlo in vita. Anche
lei viene indirizzata al Buddha. E il Buddha le dice: “Sì, io ho questo
rimedio, ma perché possa funzionare, tu mi devi portare un grano di
senape bianca e questo grano di senape bianca deve venire da una casa in
cui non c’è stata nessuna morte”.
E si trattava di case di una cultura
tradizionale in cui si vive per generazioni. Kisagotami comincia ad
andare in giro e naturalmente si sente rispondere regolarmente: “In
questa casa contiamo un numero di morti maggiore che il numero di vivi”.
Quindi, a poco a poco, sentendosi rispondere in questo modo, Kisagotami
è come se ritornasse in sé, si dà pace e seppellisce il suo bambino. Di
nuovo, parla col Buddha che le sottolinea il carattere universale,
naturale della morte. E anche qui le scritture dicono: “Kisagotami,
ascoltando il Buddha, compie un salto”. Di nuovo dalla disperazione al
primo grado della liberazione. La realizzazione dell’universalità, della
naturalezza, dell’impersonalità della morte.
Perché impersonalità? È diverso il vederla in questa prospettiva
piuttosto che viverla, come comprensibilmente succede, ossessivamente,
come un fatto unico. È il contrario, l’insegnamento dice: “Tutto è
fuorché un fatto unico”. Ma l’insegnamento riesce a penetrare, non
rimane a livello teorico, che non sortirebbe alcun effetto. C’è, cioè,
una realizzazione, in questi due casi, del carattere assolutamente
universale e naturale della morte. Cosa significa? Una radicale
accettazione della morte.
Ora, conviene rivolgerci ad alcuni insegnamenti del Buddha sulla
meditazione in relazione alla morte. La pratica in questione si chiama
in lingua pali: /”Marana sati”/, marana significa morte, ha la stessa
radice di morte e sati, oltre al significato di consapevolezza, in
questo caso conserva il significato di ricordo e riflessione. Proprio
come il /Memento mori/ della tradizione occidentale. Ricordarsi della
morte. Tant’è vero che la pratica più semplice della /marana sat’/,
consiste nel riportarsi alla mente la frase: /”Marana vavissati”/, che
vuol dire “Ci sarà la morte”, “Arriverà la morte”. Solo questa frase:
/”Marana vavissati”, ‘vavissati’/, il futuro del verbo essere.
Ricordarsi della morte, riflettere sulla morte, essere consapevoli delle
proprie reazioni di fronte alla morte. Ci viene detto in diversi luoghi
delle scritture, con una certa enfasi, che, se la /marana sati/, la
meditazione sulla morte è ben sviluppata, è ben addestrata, ciò porterà
molto frutto e molto beneficio. E si va nei particolari di questi frutti
e benefici, dicendo che questa potente meditazione aiuta l’accesso al
senza morte. Alla dimensione che non nasce e che non muore, l’assoluto,
l’incondizionato.
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