L’insegnamento del buddhismo sulla morte 2

pubblicato in: AltroBlog 0
L’insegnamento del buddhismo sulla morte 2

(di Corrado Pensa)

– Parte seconda-

Il brano che pubblichiamo è la trascrizione di un discorso tenuto a
Milano il 10 febbraio 1999 in occasione della presentazione del libro
“Chi muore?” di Stephen Levine.

——–

Sentiamo su questo argomento Stephen Levine. Vorrei aggiungere che uno
dei pregi di Levine è che aiuta a tradurre in un linguaggio e in una
sensibilità contemporanea antichi insegnamenti. Si rifà infatti a
maestri di varie tradizioni, non tanto nello scrivere il libro, quanto
nello svolgere il suo lavoro di assistente ai processi di morte.

“Il corpo muore, – dice Levine – la mente cambia di continuo, ma in qualche
modo, dietro tutto ciò vi è una presenza che qualcuno chiama il ‘senza
morte’, che è immutabile, che è semplicemente ciò che è. Nascere
pienamente significa entrare in contatto con esso, sperimentare anche
per un solo istante la vastità che esiste al di là della nascita e della
morte, emergere in un mondo di paradosso e di mistero senza altri
strumenti se non la consapevolezza e l’amore”.

Vorrei ricordare il contributo di Krishnamurti. Riassumendo una serie di
osservazioni che Krishnamurti fa sulla morte, ecco che cosa emerge: “Noi
non accettiamo la morte, perché la mente è abituata e compulsivamente
dedita ad accumulare, sia sul versante esterno sia sul versante interno,
per esempio accumulare esperienze spirituali. Questa accumulazione porta
a pensare sempre in termini di tempo, a essere schiavi del tempo.

Solo la mente che è libera da questo perseguire avidamente tutte le possibili
forme di sicurezza o pseudosicurezza, la mente che è libera dal
desiderio di immortalità personale, è la mente capace di conoscere che
cos’è l’immortalità”. O il senza morte, /lamata dhamma/, per usare il
linguaggio buddhista.

Sono parole profonde che vanno al cuore, sia della pratica spirituale in
generale, sia della pratica spirituale relativa alla morte. Perché in
Krishnamurti, come nel Buddha, dire pratica spirituale significa
automaticamente dire pratica sulla morte e, al contrario, dire pratica
sulla morte significa dire pratica spirituale. Prima di considerare più
da vicino la meditazione sulla morte nel Buddha, vorrei osservare che a
volte il ricordo della morte la /marana sati/ è deliberatamente evocato
per suscitare un senso di urgenza spirituale. Andiamo alle scritture e
nel Samyutta Nykaia, adesso tradotto anche in italiano, leggiamo che un
giorno un re dell’epoca, il re Pasenadi, va a rendere visita al Buddha.

E il Buddha gli chiede: “Vostra Maestà, che cosa vi ha portato qui a
metà del pomeriggio e che cosa stavate facendo?”. Pasenadi risponde:
“Oh, mi occupavo di quelle cose di cui si occupano i guerrieri e i re,
ossia l’intossicazione per il potere e l’avida ricerca di tutti i
possibili piaceri sensoriali”.

Evidentemente, a Pasenadi non mancava la
sincerità. Il Buddha gli dice: “Immagina, o re, che una persona molto
affidabile arrivi di corsa, annunciando che da est una montagna alta
fino a toccare le nubi sta avanzando, travolgendo e distruggendo tutto
ciò che incontra sul suo cammino. E immagina che questa persona ti
dicesse: ‘La situazione è questa, fai tutto quello che pensi di dover
fare'”.

E questo medesimo esempio è ripetuto con altre tre persone, una
che proviene da ovest, una che proviene da nord, una che proviene da
sud. Quindi, lo scenario è di quattro montagne alte fino alle nubi che
avanzano chiudendo. “Allora, Vostra Maestà, – domanda il Buddha – che
cosa risponderesti?” E Pasenadi risponde: “Se questa è la situazione, se
questo è il pericolo, allora la cosa da fare è vivere una vita secondo
il Dharma, è perseguire subito il bene”. E il Buddha dice: “Bene,
Maestà, ti assicuro che la morte sta avanzando verso di te. Che cosa
pensi che sia giusto fare?”. Pasenadi non può che rispondere:

“Perseguire il Dharma, cercare subito il bene”.

A volte, mi è sembrato che questa potente immagine delle quattro
montagne che ci chiudono, a meno che non sia ansiogena, possa suscitarci
un desiderio di urgenza spirituale, di prendere rifugio nel lavoro
interiore, cioé di vedere l’importanza relativa di questo e quello e di
vedere invece quello che conta, perché le quattro montagne si stanno
effettivamente avvicinando.

Allora, modalità della /marana sati/, della meditazione sulla morte: a
me sembra che possiamo parlare di pratiche specifiche e pratiche non
specifiche, vale a dire che ci sono delle pratiche che hanno la morte
come oggetto, mentre in altre situazioni ci troviamo davanti
all’esortazione di praticare secondo i modi comuni della pratica, in
punto di morte, cioè non viene data una pratica specifica, semplicemente
si ricorda l’importanza di praticare, perché moriamo, senza un
riferimento specifico, affrontando la morte con i soliti strumenti della
pratica insegnata dal Buddha, dunque la consapevolezza, la comprenione,
la compassione.

Quella più semplice e molto profonda tra le pratiche
specifiche è quella di ripetersi “ci sarà la morte”, /marana vavissati/.
Un testo importante, successivo ai discorsi del Buddha, il
‘Visuddhimagga’, un commentario del V secolo dopo Cristo, aggiunge che
questa frase che siamo invitati a ripeterci mentalmente, è una frase che
va detta con attenzione, con comprensione e con un senso di urgenza, non
è una frase alla quale va imputato qualche magico valore per la semplice
ripetizione.

A questo proposito, c’è un avvertimento da fare, se noi
siamo depressi, queste pratiche sono controindicate. Vale a dire, invece
di suscitare un sostanziale rasserenamento e accettazione, hanno un
effetto contrario, cioé quello di suscitare ulteriore depressione. Se
siamo depressi, faremo pratiche, per esempio, nel segno della
benevolenza, dell’amore universale, di quella che in lingua pali si
chiama /metta/, ad alte dosi, e questo ci farà molto bene, a meno che la
depressione non ci impedisca, con tipica modalità autodistruttiva, di
fare quello che ci fa bene.

E quando siamo, in grossa misura, usciti
dalla depressione, allora potremo avvicinarci al tema della morte.
Un’ altra pratica specifica importante è la pratica dei cinque ricordi o
cinque fatti: io sono soggetto all’invecchiamento, non sono al di là
dell’invecchiamento; io sono soggetto alla malattia, non sono al di là
della malattia; io sono soggetto alla morte, non sono al di là della
morte; io sarò inevitabilmente separato da tutto ciò che mi è caro; io
raccolgo gli effetti delle mie azioni. Questi sono i cinque fatti o i
cinque ricordi.

Da notare che l’ultimo ricordo, io raccolgo gli effetti
delle mie azioni, non ha bisogno di essere pensato in un contesto di
vite passate o vite future, basta pensare alle azioni e agli effetti
delle azioni compiute in questi giorni, in questi mesi, in questi anni,
in questa vita, azioni mentali, azioni vocali, azioni fisiche. A cosa
servono i cinque ricordi? A familiarizzarci con la verità, mettendo
l’accento sul familiarizzarci, più che sulla verità. Perché siamo tutti
d’accordo che questa sia la verità, quanto a volercisi familiarizzare, è
un altro discorso. Questo è il contrario quindi dell’ignorare, negare,
rimuovere questi cinque fatti. La psicologia contemporanea ci insegna
che, se noi neghiamo e rimuoviamo, questo non diminuirà la sofferenza,
ma la accrescerà. Ci ritroveremo per esempio, con un’ansia diffusa di
cui non sappiamo l’origine, ci troveremo a rispondere in maniera
ansiosissima davanti a cose di piccola rilevanza, perché abbiamo messo
sotto. Il ‘familiarizzarci con’ è il contrario del mettere sotto. Sono
pratiche da fare in maniera periodica, ripetuta, cosciente, vigile.

Allora, come si lavora, una volta fatto il riconoscimento dei cinque
fatti fondamentali? Prendiamo il ricordo, o il fatto, ‘io sono soggetto
all’invecchiamento’. Il testo ci dice che è facile essere ubriachi di
giovinezza, anzi dice che la tipica ubriacatura della giovinezza è
quella di essere ubriachi di giovinezza, e quindi essere completamente
ciechi a questo fatto.

Il testo continua dicendo che io, riscontrando in
me questa ubriacatura che mi porta ad agire ciecamente, facendo come se
non esistessero i cinque fatti, porto spesso la consapevolezza e la
comprensione su questo squilibrio, su questa ubriacatura, su questo non
voler vedere. Notate: porto spesso consapevolezza e comprensione, cioé
la punta di diamante della pratica insegnata dal Buddha: /sati-panna/,
consapevolezza e comprensione. Cioé sento questo movimento di squilibrio
e non accantono la consapevolezza, al contrario la risveglio
ulteriormente e ce la porto sopra, spesso. Molti abbandoni di queste
pratiche vengono dalla mancanza di quello ‘spesso’, cioé le persone
provano qualche volta e dopo di che dicono: “Non funziona, non è come me
l’aspettavo”: la chiave è nello ‘spesso’.

Succede, ci dice la tradizione, che questa ubriacatura di giovinezza,
che accieca, o scompare o diminuisce. Un grosso inquinante viene
seriamente intaccato dalla pratica spirituale, dal fatto di
riconoscerlo, di non ignorarlo, negarlo, e quindi riconoscerlo e
riconoscerlo ancora con tersa consapevolezza. Osserviamo che è un misto
di pratica specifica e non, infatti i temi sono relativi alla morte, ma
la pratica usata non è quella del ripetersi: ‘la morte ci sarà’, ma è la
pratica standard di consapevolezza e di comprensione.

Questa medesima procedura che abbiamo nominato a proposito del primo fatto viene
ripetuta per ognuno degli altri. In ognuno, ci mettiamo davanti al
nostro atteggiamento corrente e ci portiamo sopra, dopo aver fatto quel
riconoscimento, la consapevolezza. Allora, rendiamoci conto che là dove
si dice che questo atteggiamento diminuisce o scompare, si parla di un
risultato enorme.

Perché è una modificazione in profondità di qualcosa
di profondamente abituale. Stiamo parlando di un crescendo di libertà
dalla paura e dall’attaccamento di tutti i tipi. Come è stato detto da
qualcuno: “Stiamo facendo risplendere la luce della morte sulla vita”.
Ma questi testi che ci parlano dei cinque fatti non si fermano qui, c’è
un sigillo e questo sigillo è la realizzazione della universalità della
morte. Infatti, la parte finale di questa meditazione sui cinque fatti è
che si ripassano i cinque fatti, dicendo su ognuno: “Io non sono il solo
a essere soggetto a vecchiaia, malattia e morte. Non capita solo a me di
essere soggetto a vecchiaia, malattia e morte”. Qualcuno forse sarà
perplesso, pensa:”Lo sapevamo”. Il fatto è che lo sappiamo e non lo
sappiamo.

Lo sappiamo, ma non è in circolo questa incredibile
interconnessione, comunanza, universalità della morte. Quindi, di nuovo,
il disincapsulamento dall’io-mio e l’accesso a questa universalità,
naturalezza, impersonalità della morte. È liberante, non è un fatto
personale, personalistico, unico; è un fatto universale, naturale,
impersonale. Certo questa prospettiva completamente diversa dalla
prospettiva nella quale ci troviamo in genere richiede un tirocinio, un
lavoro; a meno che non si abbiano quelle predisposizioni speciali che
hanno persone come Roxane.

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *