(di Corrado Pensa)
– Parte terza –
Il brano che pubblichiamo è la trascrizione di un discorso tenuto a
Milano il 10 febbraio 1999 in occasione della presentazione del libro
“Chi muore?” di Stephen Levine.
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Vediamo ancora un esempio di esortazione alla pratica del Dharma in
punto di morte. C’è un laico molto famoso e molto generoso,
Anatapindika, che è gravemente malato. Allora, Sariputta – uno dei
discepoli più importanti del Buddha, considerato il più saggio, insieme
con Ananda, che è il fedele assistente del Buddha – gli chiede: “Come
stai, Anatapindika?”. “Male”. risponde Anatapindika. “Ma i dolori
diventano più forti o meno forti?” “Più forti” risponde Anatapindika. E
ogni volta che gli rifanno la domanda, risponde: “Ancora più forti”.
“Allora, – gli dicono Sariputta e Ananda – devi praticare il
non-attaccamento riguardo ai sensi, riguardo alla mente, riguardo alla
percezione che i sensi e la mente generano, riguardo alla sensazione,
piacevole o spiacevole, che viene dalla percezione, riguardo a emozioni,
stati d’animo, che vengono in presenza della percezione e della
sensazione. Tu devi esercitare il non-attaccamento nei confronti di
tutto questo”.
Siamo di nuovo di fronte a un’ingiunzione di pratica esattamente uguale
all’ingiunzione di pratica di base, solo che viene data in punto di
morte: pervenire al non-attaccamento, cioé all’equanimità, che è la
fonte della saggezza e della compassione, ossia le due ali della
liberazione.
Lavorare minutamente, dunque, sull’attaccamento che si
genera attraverso i sensi e la mente. Poco dopo, Anatapindika morirà e,
come ci viene detto, ottiene la rinascita in un paradiso. È interessante
osservare che Anatapindika piange quando riceve questa istruzione e
dice: ” Io questa istruzione non l’avevo mai sentita”. E Sariputta gli
risponde: “Non l’hai mai sentita perché questa istruzione noi, finora,
l’abbiamo data soltanto a monaci”. Al che, Anatapindika dice: “La
dovreste dare anche ai laici, tra i quali ci sono persone con poca
polvere sugli occhi”: cioé ricettive. Probabilmente, siamo davanti a una
svolta della comunità originaria buddhista, quando si decide di aprire
anche la parte più profonda della pratica al mondo dei laici praticanti.
Un’altra occasione: siamo sempre davanti a un insegnamento di tipo
aspecifico. C’è il laico Nakulapita, malato gravemente, e si teme che
sia arrivata la sua ora. La moglie gli ricorda che il Buddha giudica
molto negativo coltivare preoccupazioni in punto di morte e infatti
Nakulapita è molto preoccupato. È preoccupato di cosa succederà alla
moglie, di cosa succederà al figlio, di questo, di quell’altro. La
moglie viene presentata come una donna molto calma e molto forte, che
gli scioglie le preoccupazioni ad una ad una. Questo produce nel marito
un tale rilassamento che guarisce.
L’insegnamento è, anche qui, a tutto campo: la preoccupazione, ossia la
proliferazione mentale da paura è un inquinante mentale in qualsiasi
momento, non soltanto quando si muore. In generale, viene sottolineato
nei testi come la paura e il terrore di morire abitano là dove sono
ancora forti gli attaccamenti, mentre la paura di morire recede a mano a
mano che avanza l’equanimità.
In questo tipo di letteratura, di cui Levine è un esempio, ci sono molte
storie di morti avvenute in grande pace. Possiamo scegliere un esempio
forte riportato dallo stesso Levine: la morte del grande santo indù
Ramana Maharshi. “Quando Ramana stava morendo di cancro, i suoi devoti
gli chiesero di operare una guarigione su se stesso”. “Perché, fratelli?
Questo corpo è sfatto, perché aggrapparcisi? Perché costringerlo a
durare?” risponde Ramana. Al che, loro implorarono: “Maestro, ti
preghiamo, non lasciarci”. Guardandoli come si guardano dei figli,
Ramana rispose: “Lasciarvi? E dove sarebbe il luogo dove vado?”. Giovedì
13 aprile, un medico portò a Ramana un sedativo, per alleviargli la
congestione ai polmoni, ma lui lo rifiutò. “Non è necessario, tutto
accadrà come deve entro due giorni”. Al tramonto del giorno successivo,
Ramana chiese a quelli che lo assistevano di aiutarlo a mettersi seduto.
Sapevano che ogni movimento, anche solo toccarlo, era per lui doloroso,
ma egli disse loro di non preoccuparsi e rimase seduto con uno degli
assistenti che gli reggeva la testa. Un dottore fece per somministrargli
l’ossigeno, ma Ramana con un gesto lo allontanò. D’un tratto, un gruppo
di devoti seduti fuori nella veranda cominciò a cantare ‘Arunachala
Shiva’. All’udire il suo canto preferito, Ramana aprì gli occhi che
brillarono, sorrise con indescrivibile dolcezza, lacrime di benedizione
gli scesero lungo le guance. Ancora un respiro profondo e poi niente
più. Non ci fu lotta, non ci fu spasimo, nessun altro segno di morte,
solo, il respiro successivo non venne.”
Ora, addentriamoci più in particolare nel libro di Levine, poi
ritorniamo al buddhismo. Anche nel libro di Levine troviamo tanta
pratica generale, non specifica, (secondo me è un buon libro di Dharma),
e pratica specificatamente rivolta alla morte. Allora, dall’insegnamento
di Levine, riassumendo, possiamo estrarre un assioma fondamentale, che
suona così: “Tutto ciò che ci prepara alla morte accresce la vita. E,
d’altra parte, tutto ciò che rende difficile morire, accettare la morte,
aprirsi alla morte, è esattamente ciò che rende difficile vivere e
aprirsi alla vita. Allora, in questa pratica di preparazione alla morte,
che è anche dare vita alla vita, sarà fondamentale entrare in contatto
consapevole con ciò che è spiacevole, invece di ignorarlo, o agirlo, o
alimentarlo ciecamente. La pratica più utile è coltivare l’apertura
verso ciò che è spiacevole, riconoscere in noi la resistenza e la paura
nei confronti dello spiacevole. E invece fare in modo di rilassarci e di
aprirci davanti allo spiacevole. Lasciarlo fluttuare libero, lasciarlo
andare.
Tenete presente che se scrivete un elenco delle vostre
resistenze e delle vostre opinioni, questa sarebbe una descrizione quasi
completa della vostra personalità. Se vi identificate con questa
personalità, voi non fate altro che amplificare la paura della morte,
vale a dire la perdita immaginaria di una individualità immaginaria.”
Levine non sta dicendo che non esiste nulla, sta dicendo che c’è una
fabbricazione, un attaccamento a questa fabbricazione, che, se noi ne
facciamo a meno, è molto meglio per tutti, a cominciare da noi. “Allora,
l’apertura a ciò che è spiacevole, in luogo dell’assidua resistenza a
ciò che è spiacevole. Questo è facile da enunciare, ma, di nuovo, come
molti sanno, è meno facile da capire, applicare e realizzare. Che
preparativi avete fatto per aprirvi a una vita interiore talmente piena
che qualsiasi cosa accade può essere usata come mezzo per arricchire la
vostra attenzione?”
Se qualsiasi cosa accade diventa mezzo per
arricchire la consapevlezza e i suoi frutti, in noi e fuori di noi,
allora tutto è grazia, o, con Madre Teresa di Calcutta, possiamo dire:
“Ogni cosa è migliore”. Perché tutto sollecita questo valore di fondo
che è la pratica interiore e tra l’altro ciò che è spiacevole, se si
impara a farlo, è più potente nel creare questa apertura di ciò che è
piacevole. Questa è una rivoluzione copernicana, perché noi seguiamo il
piacevole e cerchiamo di evitare lo spiacevole. Non si parla di cercare
lo spiacevole, ma si tratta di cambiare la nostra relazione con lo
spiacevole.
Preferiremo sempre il piacevole, ma cambiare la relazione
con lo spiacevole cambia la vita e cambia anche la relazione col
piacevole, non più in chiave di attaccamento, ma di apprezzamento.
Dice ancora Stephen Levine: “Tanto più vi aprite alla vita, tanto meno
la morte vi diventa nemica”. E la vita è fatta di parecchie cose
spiacevoli, ma siamo chiusi davanti ad esse. “Quando cominciate ad usare
la morte come mezzo per focalizzarvi sulla vita, tutto diventa
semplicemente così com’è, un’occasione straordinaria per essere davvero
vivi.
Perché aspettare che il dolore sia troppo intenso, per lavorare a
unificare e raccogliere la mente? Perché non usare ogni momento di
malattia, ogni influenza, ogni raffreddore, ogni lieve ferita, come
momento per lasciare andare, per aprirsi all’intensità che si manifesta?
In ogni dolore o malattia vedo che c’è la libertà, se pratico, per
aprirsi ad essa. Allorché mi apro a questi eventi, così come ci si apre
a un Maestro, allora essi non contribuiscono più a rafforzare in me
l’identificazione con il ruolo di colui, colei che soffre, con la
vittima delle circostanze, ma, se faccio questo, io sono semplicemente
ciò che sono e l’evento è semplicemente ciò che è”. Sono parole
semplici, per descrivere qualcosa di molto grosso, cioè l’essere andati
al di là dell’autocommiserazione.
Torniamo al buddhismo e soffermiamoci brevemente sulla legge del karma.
Perché, se parliamo dell’insegnamento del Buddha sulla morte, fare come
se non ci fosse l’insegnamento relativo al karma, sarebbe strano. Io
personalmente mi sentirei in imbarazzo se andassi in giro assicurando le
persone dell’esistenza del karma di vite passate o future. Però, non mi
viene nemmeno in mente di assicurare le persone che la faccenda del
karma è una credenza folcloristica. A me la questione sembra
profondamente interessante, ma mi sento più a mio agio se parlo di
ipotesi del karma. Allora, se l’ipotesi del karma, così come è formulata
negli insegnamenti buddhisti, è vera, questo implica che i miei nodi
interiori, per esempio la mia rabbia, non si estinguono con
l’estinguersi del mio corpo, alla morte, ma in qualche modo restano in
circolo e ricompaiono da qualche altra parte. Ci sarà un essere vivente
che ne sarà il portatore.
Un esempio usato è quello di un ramo che
brucia. Il fuoco, a un certo punto, lascia il ramo bruciato e si appicca
a un altro ramo, così il karma passerebbe da un individuo che muore a un
individuo che nasce. Questa è la concezione buddhista della scuola
antica, che si esprime sinteticamente, come avviene nel Visuddhimagga,
affermando che il nuovo individuo nato è lo stesso e non è lo stesso.
C’è la trasmissione di forza karmica dall’uno all’altro e questo è un
elemento di continuità, ma c’è anche discontinuità, di qui
l’affermazione: ‘È lo stesso e non è lo stesso’.
Naturalmente, la cosa che colpisce è la continuità, perché da un’ottica
non di questo genere nessuno si sogna di dire che è lo stesso anche al
venti per cento. Allora, se l’ipotesi del karma è vera, noi ci troviamo
davanti a una prospettiva vertiginosa, perché si dilata enormemente il
nostro concetto di responsabilità, la nostra responsabilità diventa
cosmica. Se è vero che noi trasmettiamo i nodi che ci affliggono, allora
ci sarà un essere che prenderà in carico questi nodi, questa
riverberazione tossica e dolorosa. Quindi, dobbiamo immaginare una
successione di individui, che sono lo stesso inividuo, e non sono lo
stesso inividuo, che si portano appresso questi nodi, magari
complicandoli ulteriormente.
Inoltre, ciascun individuo di questa serie,
entra in contatto con altre persone e perciò alla riverberazione
verticale, di vita in vita, si aggiunge, in qualche misura, anche una
riverberazione orizzontale, cioé la mia avversione sarà causa di
sofferenza per me, ma anche per altre persone che incontro nella mia
vita.
Insomma, indubbiamente, una responsabilità molto vasta. D’altra
parte, la fecondità karmica funziona anche nella direzione opposta,
positiva.
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