L’insegnamento del buddhismo sulla morte 4

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L’insegnamento del buddhismo sulla morte 4

(di Corrado Pensa)

– Parte quarta e fine –

Il brano che pubblichiamo è la trascrizione di un discorso tenuto a
Milano il 10 febbraio 1999 in occasione della presentazione del libro
“Chi muore?” di Stephen Levine.

———

E dunque, se noi lavoriamo a sciogliere questi nodi, in virtù
di un cammino interiore, la riverberazione attraverso serie di
individui, da tossica, diventa sempre più salutare. E questo sia a
livello verticale che orizzontale: una prospettiva grandiosa di
interconnessione e responsabilità comune. A me sembra che riflettere su
questa ipotesi di grandiosa responsabilità possa essere un aiuto
efficace per disincapsularci dalla visione di fissità egoica, alienata,
separata, non interconnessa, nella quale è facile che noi viviamo.

Levine presenta una concezione evolutivo provvidenziale del karma, dice:
“Il karma non è una punizione, bensì un aspetto della natura
misericordiosa dell’universo che ci offre gli insegnamenti che in
passato abbiamo frainteso, per permetterci di apprendere dalle
esperienze alle quali, in precedenza, non abbiamo prestato sufficiente
attenzione.”

Ossia, tutto quello che non è risolto ritorna affinché noi,
prima o poi, lo risolviamo. Allora, non so se possiamo leggere in questa
chiave, che è evidente in altri sistemi soteriologici, la dottrina del
buddhismo antico. Quello che mi sembra comunque rilevante è che questa
modalità, del prendere tutto quello che ci viene come un invito a
risolvere e a lavorare, è inevitabile per chi pratica. Ossia, prendere
tutto quello che ci capita, tutto il nostro karma, come sfida, stimolo,
insegnamento, tutto quello che ci arriva come invito a crescere. Tutto,
bene e male, come fermento di bene. Mi viene in mente San Paolo quando
dice: “Tutto concorre al bene per coloro che amano Dio”.

Se abbiamo una pratica interiore, meditazione, preghiera, tutto quello
che ci succede diventa un richiamo all’esercizio della consapevolezza,
della comprensione, della compassione. Allora, quando questo comincia a
succedere, comincia a finire quella scissione, quella separazione
dolorosa tra il piacevole, a cui siamo avidamente attaccati, di tutti i
tipi, mentale, sensoriale, e la fuga senza fine dallo spiacevole, perché
tutto quello che accade è fermento di pratica. E, piano piano, il
baricentro dei valori si sposta, dai contenuti, dagli oggetti, dalle
esperienze, dall’esterno, all’interno. Cioè il valore per eccellenza
diventa questa capacità di aprirsi che significa consapevolezza,
comprensione, compassione.

Tutto quello che accade è combustibile per questo fuoco, e allora siamo
sempre meno interessati al combustibile e siamo sempre più interessati
al fuoco, che è alimentabile da tutto ciò che ci succede. Se la
compassione, la comprensione, ci unifica dentro, ci unifica altrettanto
con l’esterno, inducendoci a vedere sempre meno la differenza fra la
sofferenza nostra e la sofferenza altrui. Questo progressivo diminuire
della differenza tra la sofferenza propria e quella altrui significa il
fiorire della compassione.

Oggi, in Occidente, chi segue un cammino spirituale, che provenga da
vicino o che sia venuto da lontano, sempre meno tende ad appoggiarsi a
credenze, a dottrine, concetti, per cui, nel caso per esempio della
morte, si ricorre non tanto a dottrine quanto alla categoria del
mistero.

A me sembra che ci siano due modi di metterci davanti al
mistero: uno è un onesto non so; ma, se consideriamo quello che mi
sembra più specifico dell’approccio spirituale allora, oltre al non so,
c’è qualche altra cosa, e questa altra cosa io lo chiamerei il fattore
F, cioé fede-fiducia, distinto da fede-credenza. Perché questa fiducia?
Se io perseguo un cammino di purificazione mentale buddhista o
non-buddhista, a un certo momento comincio a vedere, con sorpresa e con
interesse, che la mia capacità di fiducia diventa più calda e più
spaziosa.

Questo ha a che vedere con la scoperta e l’applicazione
feconda dell’attenzione, della consapevolezza, che non è un contenuto
mentale, ma qualcosa che è capace di vedere i contenuti mentali come uno
specchio terso. In pratica, col tempo e col lavoro interiore, noi sempre
di più ci troviamo davanti “qualcosa”, la consapevolezza, che da un lato
ora c’è ora non c’è come qualsiasi altro contenuto mentale, ma,
dall’altro, in radicale diversità dagli altri contenuti mentali, la
consapevolezza si rivela come qualcosa di assolutamente uguale,
assolutamente terso, assolutamente aperto. Sono proprio queste
caratteristiche a darci un senso di sconfinatezza che genera fiducia.

Una pratica di consapevolezza, prima o poi, deve far sorgere nella
persona la fiducia nella consapevolezza. Ma la fiducia nella
consapevoezza non è la fiducia in questo, o in quello, è una fiducia più
vasta, come più vasta è la consapevolezza. Non i contenuti della
consapevolezza, il contenente. Naturalmente, nel momento in cui
riprendono il sopravvento i nostri modi, noi avremo soltanto paura della
morte, laddove, nell’attimo in cui è presente la consapevolezza, con
questo suo sentore di sconfinatezza, noi avremo meno paura della morte,
anzi potremo perfino avere fiducia nella morte. Perché no? Che ne
sappiamo?

E ci accorgeremo che l’idea di amicizia per la morte è una
vera possibilità. Vorrei finire con le parole di Marie de Hennezel, che
si occupa di assistenza ai malati terminali: “Questa impotenza, ossia la
situazione di una casa per l’assistenza ai malati terminali, accettata
ancora una volta, è la nostra forza, lo sappiamo. Cioé continure a fare
il possibile in un contesto di impotenza generale ha paradossalmente un
impatto dirompente”.

E le persone che vanno in questa casa lo sentono e
sono enormemente aiutate nel trapasso. E questo impatto dirompente si
chiama fiducia, si chiama amore. La stessa de Hennezel racconta di una
persona che le dice: “Ho paura di morire, non so come si muore, ti prego
aiutami”. “Sul momento rimango interdetta, neanch’io so come si muore,
però rispondo: “Credo che sia più facile di quello che ci si immagina.
Sembra in realtà che sia molto semplice, forse c’è qualcosa in noi che sa”.

————

(Corrado Pensa è insegnante di meditazione vipassana, presso
l’Associazione per la meditazione di consapevolezza (A.ME.CO) di Roma e
presso l’Insight Meditation Society di Barre negli Stati Uniti, e
ordinario di Religioni e Filosofie dell’India e dell’Estremo Oriente
presso l’Università ‘La Sapienza’ di Roma.
Il libro di Stephen Levine “Chi muore?”, edizione ‘Sensibili alle foglie’,
può essere richiesto a ‘La Rete di Indra’ che ne ha curato l’edizione
italiana)

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