L’isola oltre la quale non si può andare

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L’isola oltre la quale non si può andare

(del venerabile Ajahn Sumedho)

© Ass. Santacittarama, 2006. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Silvana Ziviana.

Estratto dall’introduzione del libro di prossima uscita The Island: An
Anthology of the Buddha’s Teachings on Nibbana, di Ajahn Pasanno e Ajahn
Amaro, che sarà pubblicato nell’autunno del 2006 (www.abhayagiri.org).

° ° ° ° °

Una difficoltà che si incontra con la parola Nibbana è che il suo
significato va oltre la capacità di descrizione delle parole. E’
essenzialmente indefinibile.

Un’altra difficoltà è che molti buddhisti considerano il Nibbana come
qualcosa di irraggiungibile, talmente sublime e remoto che non vale neanche
la pena di tentare di arrivarci. Oppure vediamo il Nibbana come una meta,
come un qualcosa di sconosciuto e indefinito che dobbiamo cercare di
ottenere in qualche modo.

Molti di noi hanno questo tipo di condizionamento. Vogliamo ottenere o
raggiungere ciò che in questo momento non abbiamo. Perciò si considera il
Nibbana come un premio che si può ottenere impegnandosi a lavorare
duramente, a mantenere sila (i precetti), a meditare con diligenza, a
diventare un monaco, a dedicare la propria vita alla pratica; allora si
otterrà il Nibbana, pur non sapendo che cosa esso sia realmente.

Ajahn Chah usava definire il Nibbana come la “realtà del non-attaccamento.
Questo aiuta a inserirlo in un contesto, perché l’accento va posto sul fatto
di risvegliarsi al nostro attaccamento, al nostro aggrapparsi perfino alle
parole Nibbana o Buddhismo o pratica o sila o qualsiasi altra cosa.

Spesso si dice che la via buddhista è quella del non attaccamento. Ma questa
definizione può diventare una prospettiva a cui ci attacchiamo, a cui ci
aggrappiamo. E’ un circolo vizioso. Più tentate di dargli un senso, più la
confusione si fa totale, a causa delle limitazioni del linguaggio e della
percezione. Bisogna andare oltre il linguaggio e la percezione. E l’unico
modo per andare oltre il pensiero e le solite emozioni è quello di esserne
consapevoli, consapevoli dei pensieri, consapevoli delle emozioni. “L’isola
oltre la quale non si può andare” è una metafora per definire questo stato
in cui si è svegli e consapevoli, totalmente opposto al concetto di
diventare svegli e consapevoli.

Nei corsi di meditazione, spesso la gente comincia con un atteggiamento
sbagliato, che dà per scontate alcune esperienze mentali. Infatti può
esservi l’idea che c’è un “io che si attacca e che ha un sacco di desideri.
Perciò bisogna praticare per liberarsi da questi desideri, per smetterla di
attaccarsi e aggrapparsi alle cose. Non bisogna attaccarsi a nulla”. Spesso
è da qui che si comincia. Cominciamo a praticare partendo da questa base e
molte volte si finisce con l’essere disillusi e frustrati, perché basiamo la
pratica stessa sull’attaccamento a un’idea.

Infine comprendiamo che, per quanto cerchiamo di liberarci dai desideri, per
quanto cerchiamo di non attaccarci a nulla, qualsiasi cosa facciamo –
diventare monaci, asceti, sedere ora dopo ora, fare ritiri uno dietro
l’altro,
fare tutto il possibile per liberarci da questa tendenza ad attaccarci –
finiamo con l’essere frustrati, perché non abbiamo mai riconosciuto
l’illusione
che sta alla base di tutto ciò.

Per questo la metafora “L’isola oltre la quale non si può andare” è così
potente, perché indica il principio di una consapevolezza oltre la quale non
si può andare. E’ semplicissimo, è diretto, e non lo si può concepire.
Dovete solo fidarvi, fidarvi di questa semplice capacità, che tutti abbiamo,
di essere completamente presenti e completamente svegli, e cominciare a
prendere atto dell’attaccamento e delle idee che abbiamo su noi stessi, sul
mondo che ci circonda, sui pensieri, le percezioni e le sensazioni.

La via della consapevolezza passa per il luogo in cui si riconoscono le
condizioni così come sono. Semplicemente le riconosciamo e prendiamo atto
della loro presenza, senza biasimarle o giudicarle, senza criticarle o
approvarle. Sia positive che negative, lasciamo che siano come sono. E man
mano che proseguiamo fiduciosi su questa via di consapevolezza, cominceremo
a capire la realtà dell’ “Isola oltre la quale non si può andare”.

Quando cominciai a praticare la meditazione sentii che avevo molta
confusione, e volevo uscire da questa confusione, liberarmi dei miei
problemi, e diventare uno senza confusione, uno che sapeva pensare
chiaramente, uno che forse un giorno sarebbe diventato un illuminato. Questo
fu l’impulso che mi portò verso la meditazione buddhista e la vita
monastica.

Ma poi, riflettendo su questo punto, comprendendo che “io sono qualcuno che
ha bisogno di fare qualcosa”, cominciai a vedere che era una condizione
creata da me. Era un presupposto, una teoria che io avevo creato. E se
avessi agito da questa prospettiva, avrei senz’altro potuto sviluppare molte
capacità e avrei senz’altro potuto vivere una vita meritevole, buona e
benefica per me e per gli altri, ma, alla fine, sarei rimasto frustrato di
non aver raggiunto il Nibbana.

Per fortuna l’intera vita monastica è basata sul fatto che tutto è diretto
verso il presente. Impariamo continuamente a riconoscere e a confrontarci
con le teorie che abbiamo su noi stessi. L’assunto che “io sono uno che deve
fare qualcosa per diventare illuminato nel futuro” è la sfida più importante
con cui confrontarci. Solo riconoscendolo come un pregiudizio creato da noi,
la consapevolezza sa che è creato dall’ignoranza, dalla mancanza di
comprensione. Quando vediamo e riconosciamo ciò totalmente, smetteremo di
creare tali assunti.

Consapevolezza non vuol dire giudicare i pensieri o le emozioni, le azioni o
le parole. Consapevolezza vuol dire conoscere queste cose completamente, che
sono cioè ciò che sono, in questo preciso momento. Per questo ho trovato
molto utile imparare ad essere consapevole delle condizioni senza
giudicarle. In questo modo, viene riconosciuto pienamente il karma
risultante dalle passate azioni e parole, così come si manifesta nel
presente, senza aggiungerci nulla, senza farne un problema. Ciò che sorge,
cessa. Nel momento in cui riconosciamo ciò e lasciamo che le esperienze
cessino secondo la loro natura, la realizzazione della cessazione aumenta la
fede nella pratica del non-attaccamento e del lasciare andare.
L’attaccamento che abbiamo, anche verso le scelte positive come il
buddhismo, può essere considerato anch’esso un attaccamento che ci acceca.
Ciò non significa che dobbiamo liberarci del buddhismo. Semplicemente
riconosciamo l’attaccamento come attaccamento e vediamo che lo stiamo
creando a causa dell’ignoranza. Man mano che si continua a riflettere su
ciò, la tendenza verso l’attaccamento svanisce e la realtà del
non-attaccamento, del non aggrapparsi, si rivela in ciò che possiamo
considerare il Nibbana.

Se lo vediamo in questo modo, il Nibbana è qui e ora. Non è qualcosa da
raggiungere in futuro. La realtà è qui e ora. E’ molto semplice, ma va oltre
qualsiasi descrizione. Non può essere dato né trasmesso, può solo essere
conosciuto da ogni persona individualmente.

Quando uno comincia a realizzare o a conoscere che il non-attaccamento è la
Via, può capitare che uno senta un forte senso di paura. Sembra quasi che ci
sia una specie di annullamento: tutto ciò che penso di essere nel mondo,
tutto ciò che considero stabile e reale, comincia a cadere in pezzi; può
essere veramente spaventoso. Ma se abbiamo abbastanza fede da sopportare
queste reazioni emotive e se lasciamo che le cose sorte svaniscano secondo
la loro natura, allora troveremo stabilità non nell’ottenere o nel
raggiungere, ma nell’essere – essere svegli, essere consapevoli.

Anni fa, in un libro di William James, The Varieties of Religious
Experience, ho trovato una poesia di Charles A. Swinburne. Pur avendo – come
alcuni hanno detto – una mente turbata, Swinburne ci ha lasciato riflessioni
molto pregnanti.

“Qui comincia il mare che finisce solo con la fine del mondo.
Da dove stiamo,
Se potessimo conoscere il segno della prossima alta marea posta oltre a
queste onde che luccicano
potremmo conoscere ciò che nessun uomo ha conosciuto,
ciò che nessun occhio umano ha scrutato…
Ah, ma qui il cuore umano fa un balzo, struggendosi per quell’oscurità con
temeraria baldanza
dalla riva che non ha altra riva più oltre, posta in tutto il mare.
(da On the Verge in A Midsummer Vacation)”

Ho trovato in questa poesia un eco della risposta che il Buddha dette alla
domanda di Kappa nel Sutta-Nipata:
Poi ci fu lo studente bramino Kappa:

“Signore, disse, c’è gente che sta in mezzo alla corrente terrorizzata e
piena di paura per lo scorrere del fiume dell’esistenza, mentre la morte e
il decadimento incombono su di essa. Per il suo bene, Signore, ditemi dove
posso trovare un’isola, ditemi se c’è una terraferma, su cui non possa
giungere tutto questo dolore”.

“Kappa, disse il Maestro, per il bene di quelli che stanno in mezzo alla
corrente dell’esistenza, sopraffatti dalla morte e dal decadimento, ti dirò
dove puoi trovare terraferma.

C’è un’isola, un’isola oltre la quale non puoi andare. E’ un luogo di
non-esistenza, un luogo di non-possesso e di non-attaccamento. E’ la fine
assoluta della morte e del decadimento, e per questo lo chiamo Nibbana
[estinto, fresco o calmo].

C’è gente che, in piena consapevolezza, lo ha realizzato e si è estinta
completamente qui e ora. Queste persone non diventano schiave che lavorano
per Mara, per la Morte; non possono più cadere in suo potere.
(da Sn 1092-95, traduzione inglese del Ven. Saddhatissa)”

La parola non-esistenza può suonare come annichilimento, annullamento. Ma
sottolineando “esistenza” diventa solo “non-esistenza”, per cui il Nibbana
non è una esistenza da trovare. E’ il posto della non-esistenza, del
non-possesso, un luogo di non-attaccamento. E’ un luogo in cui, come diceva
Ajahn Chah, si sperimenta “la realtà del non-attaccamento”.

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