Lo Spirito vitale, come testimonianza di Dio

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Tratto da:

Thich Nhat Hanh
IL BUDDHA VIVENTE – IL CRISTO VIVENTE

NERI POZZA EDIZIONE
TITOLO ORIGINALE
LIVING BUDDHA, LIVING CRISTO
TRADUZIONE DI FRANCESCO BRUNELLI

[…]

PREFAZIONE

Per due volte in questo libro Thich Nhat Hanh ci pone dinanzi una possente
immagine della leggenda cristiana: nel cuore dell’inverno, san Francesco
invoca un mandorlo: “Parlami di Dio!”, e il mandorlo fiorisce. Viene alla
vita. Non esiste altro modo di testimoniare Dio se non con lo spirito
vitale. Con sottile intuito Thich Nhat Hanh fa risalire il genuino spirito
vitale alle sue fonti. Riconosce che si tratta di ciò che la tradizione
biblica chiama Spirito Santo. Dopo tutto, l’intimo significato della parola
“spirito” è “respiro” e respirare significa vivere. Lo Spirito Santo è il
respiro della vita divina.

Con ciò si evoca la storia biblica della creazione: in principio lo spirito
di Dio è sempre femminile nella Bibbia – si libra simile a un uccello
materno sul caos primordiale, covando e generando la vita in tutti i suoi
gradi e forme. “Poiché lo spirito del Signore riempie il mondo, abbraccia
ogni cosa…” (Sapienza, 1, 7).

Al termine di questo mito della creazione, in una toccante rappresentazione
vediamo Dio alitare la vita nelle narici della figura umana ancora
inanimata, tratta dalla terra a Sua stessa immagine. E così veniamo alla
vita. Secondo la prospettiva biblica non è mai esistito essere umano che sia
venuto alla vita se non tramite l’alito vitale di Dio.

Noi cristiani non deteniamo il monopolio dello Spirito Santo:

“Infatti, tutti coloro che sono condotti dallo Spirito di Dio, quelli sono i
figli di Dio” (Rm 8, 14). Non desta dunque meraviglia che un buddhista
impavido dinanzi al dolore procurato dall’essere veramente vivi – il dolore
della nascita, il dolore della crescita – riconosca lo Spirito Santo come la
sorgente suprema di ogni forma vitale. “Lo Spirito soffia dove vuole” (Gv 3,
8). E nessuna meraviglia che i cristiani veramente vivi riconoscano ovunque
le loro sorelle e i loro fratelli nello Spirito Santo.

“Nhat Hanh è mio fratello”, ha scritto Thomas Merton. “Siamo entrambi
monaci, e abbiamo vissuto gli stessi anni di vita monastica. Siamo entrambi
poeti, esistenzialisti entrambi. Con Nhat Hanh ho in comune molto più di
quanto non abbia con molti americani”. Questo brano venne scritto quando i
due operatori di pace fronteggiarono insieme la catastrofe della guerra del
Vietnam. Fu in quel periodo che ebbi io stesso il privilegio di incontrare
Thich Nhat Hanh, Thay (maestro) per amici e studenti, e in lui riconobbi un
fratello nello Spirito.

Grande è stata la mia gioia di scoprire, nella primissima pagina di questo
libro, un riferimento alla partecipazione di Thay alla celebrazione
dell’eucaristia con Dan Berrigan che una volta ebbe luogo nella cameretta
che da studente occupavo alla Columbia University. Fra le letture sacre
quella sera Thay recitò il Sutra del cuore, la più importante scrittura zen,
in vietnamita. Era il 4 aprile 1968. Come dimenticare quella data! In
seguito ci recammo a una conferenza di Hans Kung, ma l’evento fu interrotto
dalla sconvolgente notizia dell’assassinio del dottor Martin Luther King Jr.

[…]

Comunicazione reale

Sull’altare del mio eremo in Francia ci sono le immagini del Buddha e di
Gesù, e ogni volta che brucio l’incenso, mi accosto a entrambi quali miei
progenitori spirituali. Riesco a farlo grazie al contatto con questi
autentici cristiani. Quando vi accostate a qualche vero rappresentante di
una tradizione religiosa, non solo venite a contatto con la sua tradizione,
ma entrate in comunione anche con la vostra.

Questa qualità è essenziale per il dialogo.

Quando gli interlocutori desiderano imparare gli uni dagli altri, perché il
dialogo si svolga basta soltanto che siano insieme. Quando coloro che
rappresentano una tradizione spirituale ne incarnano l’essenza, il modo in
cui camminano, siedono e sorridono basta a dire tutto su quella tradizione.

A volte, in realtà, è molto più difficile avere un dialogo con persone della
nostra stessa tradizione che non con chi appartiene a un’altra. Quasi tutti
noi abbiamo sofferto per il fatto di sentirci incompresi, o persino traditi
dai nostri stessi correligionari. Ma se fratelli e sorelle appartenenti alla
medesima confessione non riescono a capirsi e a comunicare fra loro, come
potranno comunicare con chi è estraneo alla loro tradizione religiosa?

Perché il dialogo sia fruttuoso, abbiamo bisogno di vivere profondamente la
tradizione che ci è propria e, al tempo stesso, di porci profondamente
all’ascolto degli altri. Con la pratica della profonda indagine e del
profondo ascolto diveniamo liberi, capaci di cogliere la bellezza e i valori
nella nostra stessa tradizione e in quella degli altri.

Molti anni or sono mi resi conto del fatto che, comprendendo meglio la
propria tradizione, si sviluppa in maggior misura il rispetto, la
considerazione e la comprensione nei confronti degli altri.

M’ero formato un’idea ingenua, una sorta di pregiudizio ereditato dai miei
antenati: poiché il Buddha aveva insegnato per quarantacinque anni e Gesù
solamente per trentatré pensavo che il Buddha dovesse essere stato un
maestro più abile. M’ero formato quell’idea perché non conoscevo abbastanza
bene gli insegnamenti del Buddha.

Un giorno, all’età di trentotto anni, il Buddha incontrò il re Prasenajit di
Kosala. Il re disse: “Venerabile, voi siete giovane eppure il popolo vi
chiama “l’Illuminato Supremo”. Nel nostro paese ci sono degli uomini santi
di ottanta e novant’anni, venerati da molte persone, eppure nessuno di loro
pretende di essere il supremo illuminato. Come può un giovane par vostro
avanzare una simile pretesa?”.

Il Buddha replicò: “Vostra maestà, l’illuminazione non è una questione di
età. Una minuscola scintilla può dar fuoco a un’intera città. Un serpentello
velenoso può uccidervi in un istante Un principe fanciullo ha la
potenzialità di un re. E un giovane monaco ha la capacità di divenire un
illuminato e cambiare il mondo”.

Noi possiamo conoscere gli altri studiando noi stessi.

Perché qualsiasi dialogo fra le tradizioni religiose sia profondo, dobbiamo
aver coscienza sia degli aspetti positivi sia di quelli negativi della
nostra stessa tradizione.

Nel buddhismo, per esempio, ci sono stati molti scismi.

Un centinaio d’anni dopo la morte del Buddha, la comunità dei suoi discepoli
si divise in due; dopo altri quattrocento anni c’erano venti scuole; e da
allora ne sono sorte molte di più.

Fortunatamente, queste separazioni non sono state troppo dolorose e oggi il
giardino del buddhismo trabocca di splendidi fiori, in quanto ciascuna
scuola rappresenta un tentativo di tenere vivi gli insegnamenti del Buddha
in situazioni nuove.

Gli organismi viventi hanno bisogno di mutare e crescere. Se rispettiamo le
differenze all’interno della nostra stessa chiesa e comprendiamo come queste
differenze ci arricchiscono vicendevolmente, siamo più aperti ad apprezzare
la ricchezza e la diversità delle altre tradizioni.

In un dialogo autentico gli interlocutori sono disposti a cambiare. Dobbiamo
riconoscere che la verità può provenire dall’esterno – non solo
dall’interno – del nostro gruppo d’appartenenza.

Se non abbiamo fede in questo, intrattenere un dialogo sarebbe una perdita
di tempo e se pensiamo di avere il monopolio della verità e tuttavia diamo
vita a un dialogo, questo non sarà autentico. Dobbiamo credere che,
impegnandoci in un dialogo con le altre persone, abbiamo la possibilità di
operare una trasformazione dentro noi stessi, che possiamo divenire più
profondi.

Il dialogo non è un mezzo di assimilazione nel senso che una parte si
espande e incorpora l’altra nel suo “sé”, ma deve essere praticato sulla
base del “non-sé”. Dobbiamo accogliere ciò che è buono, bello e
significativo nella tradizione altrui per trasformarci.

Ma, secondo il principio fondamentale che ne sta alla base, il dialogo
interconfessionale deve cominciare innanzi tutto dentro noi stessi. La
nostra capacità di far la pace con un’altra persona e con il mondo dipende
in gran parte dalla nostra capacità di far la pace con noi stessi.

Se siamo in guerra con i nostri genitori, la nostra famiglia, la nostra
società, o la nostra chiesa, probabilmente si tratta di una guerra che si
svolge anche dentro di noi, sicché fondamentale per la pace è ritornare a
noi stessi e creare l’armonia tra gli elementi nel nostro intimo:
sensazioni, percezioni e stati mentali.

È questa la ragione per la quale la pratica della meditazione, della
profonda visione, è così importante. Dobbiamo riconoscere e accettare gli
elementi conflittuali che sono dentro di noi e le cause sottostanti. Ci vuol
tempo, ma lo sforzo porta sempre dei frutti.

Quando la pace è in noi, allora è possibile un dialogo autentico con gli
altri.

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