LO SVILUPPO DEL POTENZIALE UMANO – 6
da “Enciclopedia olistica”
di Nitamo Federico Montecucco ed Enrico Cheli
PARTE TERZA – PSICOLOGIA E PSICOPATOLOGIA DEGLI STATI DI COSCIENZA
Prospettiva fenomenologica e approccio transpersonale alle psicosi
Di Mario Betti
I disturbi mentali rappresentano altrettanti modi di essere, di esperire la vita, di rapportarsi al
mondo, che si discostano dall’esistenza ordinaria del cittadino comune. Di fronte all’esperienza,
spesso misteriosa ed inquietante, della malattia mentale, può sorgere legittima una domanda.
E se questi modi di essere, queste forme di esistenza, questi stati di coscienza non fossero le
espressioni pure e semplici di una malattia, di un disadattamento sociale o di una disfunzione
ambientale?
Se si trattasse del tentativo, spontaneo ed inconsapevole, con cui certe persone, dotate di una
particolare sensibilità e predisposizione, ricercano una dimensione più ampia e completa o,
comunque, più confacente alla loro natura?
Sulla scia di questi interrogativi abbiamo preso in esame le affinità fra i disturbi psicopatologici
e le esperienze interiori di tipo mistico ed ascetico. Abbiamo fatto riferimento agli studi
psichiatrici ad orientamento fenomenologico, in particolare alla Gestalt-analityk di Klaus Conrad e
al modello organodinamico di Henri Ey.
Klaus Conrad, inserendosi nel solco della fenomenologia, intende la coscienza come globalità
psichica, come il campo dellesperienza vissuta. Egli distingue un modo di esperire “critico” ed un
modo di esperire “patico”. L’esperire critico è caratterizzato da una presenza attiva e libera della
coscienza; l’Io mantiene costantemente la possibilità di modificare volontariamente il campo e di
imprimere un corso diverso al fluire dell’esperienza. L’esperire patico è invece caratterizzato da
una posizione passiva della coscienza, per cui le immagini del campo si impongono coattivamente ed
il soggetto si trova a subire inerme il succedersi delle configurazioni campali. Un esempio del modo
di esperire critico è rappresentato dallo stato di veglia lucida, nel quale è mantenuta (almeno
entro certi limiti) la capacità di imporre una direzione alla propria attività mentale e di guidare
il corso dei pensieri. Il modo di esperire patico è tipico, invece, dei sogni ordinari, soprattutto
di quelli con carattere di incubo, in cui il soggetti subisce passivamente e con angoscia il flusso
delle immagini.
I disturbi mentali, così come gli stati mistici e meditativi, sono modificazioni dello stato di
coscienza. La differenza fondamentale è che i primi sono caratterizzati da un modo di esperire
patico ed i secondi da un modo di esperire critico.
Veniamo ora a considerare il modello organodinamico della scuola francese. I disturbi mentali
vengono concepiti come stadi di destrutturazione della coscienza e non già come entità nosologiche
definite e standardizzate. Sulla base di questi criteri, Henry Ey e Julien Rouart, in una monografia
del ’38, propongono un inquadramento di tutta la patologia psichiatrica secondo il seguente schema:
Strutture nevrotiche;
strutture paranoicali;
strutture oniroidi;
strutture disestesiche;
strutture maniaco-melanconiche;
strutture confuso-stuporose;
strutture schizofreniche;
strutture demenziali.
Non è importante esaminare questa classificazione nel dettaglio. L’importante è che le “strutture
patologiche” sono considerate stadi di alterazione della coscienza e possono essere viste come gradi
diversi di organizzazione della mente.
Lo stesso Ey si accorse presto che questa classificazione era lacunosa e lasciava diversi punti
oscuri. In una elaborazione successiva egli suddivise i disturbi in due grandi categorie: i disturbi
da destrutturazione dell’ordine diacronico e i disturbi da destrutturazione dell’ordine sincronico.
I primi sono caratterizzati da alterazioni prevalenti del vissuto di spazialità, ossia un diverso
modo di vivere lo spazio. I secondi presentano invece alterazioni del vissuto di temporalità, ossia
un diverso modo di vivere il tempo.
Abbiamo così una duplice classificazione.
1) Lo scompaginamento della dimensione spaziale dà luogo a malattie mentali con decorso
tendenzialmente cronico, le quali possono essere raggruppate sotto la comune etichetta di “patologia
della personalità”. Troviamo, nell’ordine, i seguenti quadri clinici:
Personalità psicopatiche.
Stati nevrotici.
Psicosi deliranti croniche.
Stati demenziali.
2) La destrutturazione della dimensione temporale investe una modificazione del divenire e dei ritmi
interiori. Essa dà origine ad una serie di disturbi mentali caratterizzati da un decorso
tendenzialmente acuto o fasico:
Crisi emotive e reazioni nevrotiche acute.
Sindromi maniaco-depressive.
Sindromi deliranti-allucinatorie acute.
Stati confuso-onirici.
In effetti, l’esperienza umana si dispiega secondo due principali dimensioni, quella spaziale e
quella temporale. Perciò una modificazione radicale dello spazio o del tempo vissuto provoca una
corrispettiva modificazione dello stato di coscienza. Questo accade per i disturbi psichici ma anche
per tutte le forme di meditazione o di alterazione consapevole della coscienza. Abbiamo potuto
constatare che esiste una correlazione precisa fra vissuti psicopatologici ed esperienze di
alterazione della coscienza secondo vie religiose ed iniziatiche. Ad ogni categoria di disturbi
psichici corrisponde, in via analogica, un particolare tipo di meditazione o di estasi.
La modificazione del campo di coscienza secondo la dimensione della spazialità può procedere lungo
due direttive, quella della concentrazione e quella del distacco.
Nelle tecniche di concentrazione il soggetto focalizza in modo persistente la propria attenzione su
un dato oggetto. Ricordiamo la concentrazione su un mandala nello Yoga, linduzione di ipnosi
attraverso la fissazione di un punto luminoso, la contemplazione del proprio volto riflesso nello
specchio. Queste metodiche producono stati di coscienza transpersonale che corrispondono a quelli
che negli Yogasûtra di Patanjali vengono detti dharana, dhyana e samadhi. Se questi stati si
manifestano secondo lesperire patico, possiamo avere una serie di disturbi che vanno dalle idee
prevalenti ed ossessive, ai deliri di riferimento, agli stati confuso-onirici. Il percorso
interiore, nel modello della concentrazione, propone vissuti che rimandano al simbolismo della
terra: sentimento di ancoraggio, delimitazione dei contorni della figura, penetrazione nelloggetto.
Nelle tecniche di distacco il soggetto mantiene una consapevolezza diffusa, aperta, verso tutto ciò
che avviene nel campo esperienziale. I contenuti mentali (percezioni, immagini mentali, pensieri,
emozioni, desideri) attraversano il campo senza esserne trattenuti. Queste tecniche si ritrovano
presso molte discipline orientali, ad esempio nella meditazione Vipassana, nel Pratyahara dello
Yoga, negli esercizi del vuoto mentale dello Zen. Ma le ritroviamo anche in molte pratiche
occidentali moderne, quali l’induzione di stato sonnambolico attraverso i passi magnetici, il
training autogeno, il rebirthing. Rientrano in questo ambito molte delle tecniche di meditazione
raccomandate da Osho, quali la Nadhabrama e la Kundalini. Il modello del distacco, nella sua
controparte patica, è caratterizzato dai quadri di depersonalizzazione e di dissociazione, fino agli
stati confusionali. Lesperienza vissuta rimanda al simbolismo dellaria, con sentimenti di
evanescenza, di volatilità e di vacuità, di frammentarietà.
Passiamo alla dimensione della temporalità. Il tempo oggettivo, quello scandito dalle lancette
dellorologio, è una convenzione che non ha nulla a che vedere con la nostra interiorità. Il tempo
vissuto, di cui ciascuno ha esperienza, è intimamente connesso al nostro stato danimo. Per esempio,
quando siamo tristi o annoiati, il tempo è lento e non passa mai, mentre il corpo diventa pesante ed
inerte. Quando invece siamo allegri ed euforici, il tempo scorre veloce, rapido, ci sentiamo
leggeri, tutto è alla nostra portata di mano. Ecco che quindi il tempo può essere accelerato o
rallentato.
Esistono tecniche di attivazione e di alterazione della coscienza che si basano sull’accelerazione
del tempo interiore, ad esempio i culti orgiastici, le danze estatiche e le forme di meditazione
dinamica. E il modello del crescendo ritmico. Nella sua controparte patica esso dà luogo
allirrequietezza psicomotoria e all’eccitamento maniacale. Il simbolismo di riferimento è quello
del fuoco, caratterizzato da un senso di esaltazione, di frammentarietà caotica e di energizzazione.
Le tecniche di rallentamento del tempo si basano sulla diminuzione e sullinibizione del movimento
corporeo. Vengono effettuati movimenti fluidi molto lenti, come nel Chi Kung e nel Tai Chi, oppure
vengono assunte posture di totale immobilità, come le asana dello Toga ed altre posizioni di
meditazione statica. E il modello del diminuendo ritmico, cui corrispondono i vari quadri di
abbassamento dellumore, dalla semplice tristezza alla neurastenia fino alle forme conclamate di
depressione melancolica, in cui tutto si ferma, il tempo ristagna e la persona rimane immobile e
coartata. Questo vissuto di stagnazione rimanda al simbolismo dellacqua.
Attraverso losservazione dei quadri clinici e la comprensione dei vissuti sottostanti, siamo giunti
a riscoprire la dottrina dei quattro elementi, che è il fondamento di molte forme di medicina
tradizionale, da quella cinese, a quella tibetana, a quella ippocratica.
Il riscontro di precise affinità fra eventi psicopatologici e stati mentali meditativi o mistici, ci
permette di effettuare importanti considerazioni sul piano etico e su quello dei trattamenti. Il
disturbo psichico può essere visto come il tentativo abortivo di realizzare un modo si essere
diverso, più soddisfacente ed illuminato. Allora la prospettiva di intervento muta radicalmente,
addirittura si capovolge.
Anziché agire per reprimere il sintomo, perché non fare il contrario? Perché non cercare di portare
l’individuo a essere consapevole del proprio sintomo, in quanto traccia di unevoluzione interiore
che deve percorrere?
Il discorso in apparenza è abbastanza semplice. Se un individuo si trova sospinto in uno stato di
eccitamento, lo possiamo aiutare, per esempio, con una meditazione dinamica o con delle tecniche di
bioenergetica. In questo modo può diventare consapevole del proprio stato di eccitamento; il sintomo
si trasmuta e diventa uno stato di coscienza conseguito consapevolmente. E una sorta di
prescrizione paradossale mediata da messaggi non verbali. Si modifica radicalmente la prospettiva
con cui il soggetto si rapporta alla propria sintomatologia. Si può anche parlare di una sorta di
“psico-omeopatia”.
E in questa ottica che stiamo realizzando i nostri trattamenti sulle malattie mentali. Si tratta di
un approccio transpersonale, ossia basato sulla modificazione degli stati di coscienza, applicato
alla Psichiatria. I primi risultati sono stati incoraggianti, in qualche caso sorprendenti. Noi
speriamo che questo tipo di sperimentazione consenta di mettere a punto forme di cura più rispettose
della dignità di una persona e del suo potenziale evolutivo.
Il mondo delle psicosi: lagonia e lestasi
Di Alfredo Ancora
Non è stato facile tradurre le proprie esperienze cliniche in momenti che potessero generare anche
altrui riflessioni. Infatti riguardando il mio lavoro ho provato spesso un senso di smarrimento, in
quanto era complesso rivedere tutti i posti e le fasi dove ordine e disordine, organizzazione e
disorganizzazione regnavano sovrani. Ma l’angoscia, lo scoraggiamento, la confusione, la
frammentarietà mi hanno fatto riflettere sulle sensazioni del tutto simili a quelle che pervadono lo
schizofrenico quando sente la mancanza di principi organizzativi sicuri con cui dare un senso alle
percezioni caotiche che lo assediano.
E’ questo il racconto di un viaggio difficile in compagnia di tre parole, agonia, estasi e psicosi,
che si rimandano vicendevolmente, all’interno di quel particolare processo che è la terapia.
Agonia come crogiuolo di sentimenti e sensazioni di sofferenza che pullulano nel rapporto
operatore/paziente sempre in bilico ed attaccato spesso ad un filo molto sottile, come timone di una
fine imminente di abbassamento di ogni energia. Estasi come processo di abbandono, di dedizione, “di
culmine”, di innalzamento dalla soglia, di uscita e di ritorno. Psicosi come territorio
dellinvalicabilità e della irraggiungibilità e del rischio. Bateson, antropologo e cibernetico,
nonché fra i fondatori della terapia familiare, sosteneva, a questo proposito che, per il terapeuta
come per il ricercatore, il problema è soprattutto quello della tenuta, che nel rapporto con i
pazienti psicotici viene messa a dura prova, come dimostra la nostra pratica quotidiana. Il lavoro
con le famiglie sembra rispondere spesso non solo a ben precisi modelli epistemologici ma anche,
forse, a quello più o meno taciuto (ed espresso talvolta solo internamente) di poter chiedere aiuto
a tutti per affrontare un problema così grosso come la psicosi, che tiene in smacco l’intero
sistema. Contare le risorse (capacità e tenuta del terapeuta comprese) è un po come misurare la
disponibilità degli eventuali compagni di viaggio a misurarsi con gli innumerevoli livelli di
angoscia (propria ed altrui). Ecco che l’agonia torna sovrana nel mondo del paziente che tanto ci
attanaglia, e che forse un po ci attira, perchè ci permette di cimentarci con il mondo della
sofferenza psichica, rappresentata qui al massimo dei suoi livelli, senza dichiararci già sconfitti.
Il turbillon di sensazioni, che questo processo mobilita è dei più vari e dei più contraddittori:
agonia/estasi, attrazione/repulsione, umiltà/onnipotenza. Ed ecco quindi che questo processo che
talvolta sembra sfiorare il territorio del sacro, dove coabitano dolori ed entusiasmo, sacrificio e
trasformazione, si tinge di tinte allo stesso tempo forti e sbiadite. Quante volte ci siamo
immedesimati (presuntuosamente) in “novelli Icaro” in possesso finalmente della “spiegazione” di
quell’evento drammatico e grave che ha determinato tale sofferenza psichica, salvo poi atterrare
rovinosamente sul duro terreno della realtà psicotica, fra insuccessi e frustrazioni. Abbiamo
pensato di possedere, attraverso gli ultimi ritrovati farmacologici o attraverso le più affinate
tecniche psicoterapeutiche, la soluzione (terapeutica) ed invece larrivo di una crisi ci ha
riproposto la fragilità e modestia dei nostri mezzi. Il rapporto con il paziente psicotico ci
insegna quanto ogni elemento “spiegato” con il decodificatore di turno, si è poi rivelato spesso
solo un momento di un processo lungo e difficile. Per poter cercare di entrare infatti nel suo
mondo, per poterne annusare almeno l’aria, bisogna scommettersi, nel senso di non scommettere su
qualcosa o qualcuno, mettersi cioè in discussione, “disordinarsi” sia in senso letterale che
metaforico- terapeutico, per potersi ricomporre su nuove basi di conoscenza.
E’ il viaggio proposto da R. Searles che per tanto tempo è stato insieme a questo tipo di malati
“infettandosi” forse un po, a furia di rimanere in contatto con e con tutte le loro parti. E solo
considerando ogni esperienza schizofrenica nella sua funzione di difesa utile a reprimere nel
paziente ogni genere di sentimento, non solo il dolore ma anche l’odio, l’amore, l’invidia ed altri
sentimenti “negativi”, che noi terapeuti possiamo entrare in contatto con l’ostinato aggrapparsi del
paziente alla malattia. Ma il mondo dello schizofrenico, che noi spesso biasimiamo perchè non
riusciamo talvolta neanche a scalfire, è un mondo di percezioni che il paziente si è costruito nel
corso degli anni, è frutto delle sue migliori capacità di discernimento, merita dignità e rispetto,
non si può chiedergli in un eccesso di ansia e di angoscia, di abbandonarlo, per abbracciare la
“nostra” visione della realtà. Ed ecco quindi che nuovamente si ripropone quale è il senso del
viaggio con lui. E’ la solidarietà da parte di chi, come compagno di viaggio, oltre a spartire cibo
e privazioni, è disponibile anche alla condivisione delle sue sensazioni sul mondo, così come lui lo
percepisce, piuttosto che, da una posizione esterna accettandone solo gli aspetti più superficiali.
Affiancare, partecipare, (co)-creare nuove e differenti realtà può rappresentare una maniglia a cui
afferrarsi per un eventuale viaggio di ritorno.
E chi più dello sciamano ne è stato un precursore anche se all’interno di un preciso contesto
culturale, sociale e religioso, di questi viaggi? Per viaggiare, si dice che lo sciamano “abbandona
il suo corpo”. Questo tipo di esperienza, descritta come un’estasi, è un processo al culmine del
quale lo sciamano esce alla lettera “fuori di sè”, proprio secondo la traduzione letterale della
parola greca “ec-satsis” (= porsi fuori). Questo mediatore di mondi in realtà collega, ricompone
parti smembrate, disordinate di uno stesso mondo. Durante le diverse fasi della seduta sciamanica o
Kamlania (Kam è una parola con cui i Turchi della Siberia meridionale indicavano lo sciamano) si
arriva allo stato di trance, che viene denominato appunto estasi sciamanica e che, come ho potuto
appurare durante i miei viaggi in Siberia meridionale, avviene senza l’uso di sostanze, tranne
ovviamente la vodka che cementa lì ogni rito. Ma il viaggio che mette lo sciamano in contatto con un
mondo parallelo in realtà rappresenta un modo di ri-collegarsi, da parte di chi gli chiede aiuto,
con quella parte del suo stesso mondo che egli in quelle condizioni di sofferenza percepisce come
lontano, distaccato da esso. Solo grazie a questo uomo-traghettatore può riprendere i ponti
faticosamente, prima con agonia e poi con estasi, come dice K. Whitaker.
Noi sappiamo dalla nostra esperienza clinica quanto i pericolosi territori del disordine e della
disorganizzazione richiedano una messa in discussione delle proprie griglie conoscitive con la
possibilità appunto di “uscire da sè”, attraccando così a nuovi lidi (di conoscenza), dove anche
parti di noi nascoste o timidamente tenute nascoste, possono finalmente rivelarsi. Mi riferisco
soprattutto ad elementi come la “capacità creativa”, l’elaborazione di qualche segnale che ci possa
fare accedere nella inestricabile foresta di simboli, “smembrando” così quelle parti talvolta un po
rigide, nel nostro atteggiamento mentale, che tanto ci condiziona e che ci fa parlare spesso più di
malattie che di malati. Raimon Prince, in una recente conferenza in Italia, riferiva proprio come
“l’esperienza psicotica” sia assimilabile ad una esperienza di morte e rinascita, per certi versi
simile a quella della chiamata sciamanica, che conduce poi ad una ricostruzione di un Io più forte
ed elastico dopo la frantumazione di un “Io rigido”.
E noto come trasposizioni da un contesto all’altro, in questo caso l’esperienza degli sciamani
siberiani, possono rivelarsi assai difficili oltre che pericolosi ma in questo caso è utile una
“sdoganamento interno” per poter guardare a loro anche come a fonti antiche, a tradizioni e uomini
che esistevano già mille anni prima di Cristo.
Ritornando all’estasi ci siamo mai chiesti se essa, fra tutti i vari significati a cui si presta,
non ci rimandi anche a quella “sacralità nell’atto terapeutico” che l’officiante, spesso a sua
insaputa, recitava, ma che ormai sembra non appartenerci più? Eppure ha sempre fatto parte, anzi
essa è stata un elemento fondante su cui era impastata la therapeia. Ci chiediamo, a questo punto,
che cosa questo viaggio ci può offrire. Estasi come raggiungimento della gioia della consapevolezza,
dopo le intemperie e gli scogli perigliosi che il processo terapeutico ha prodotto: ecco forse che
parti scomposte e disordinate, pezzi in ribalta e sparsi, sembrano ricomporsi e, almeno per un
momento, finalmente possono ritrovare una speranza di riunificazione, di armonia e di pacificazione.
Atto “sacro” che sembra oggi veramente fare a pugni con molecole e preparati chimici; eppure quante
volte nel mare agitato e confuso, ad alto rischio di affondamento, essi sono stati invocati, a volte
con desiderio, a volte con rassegnazione, come vere e proprie ciambelle di salvataggio! Estasi, come
contemplazione e riflessione anche per chi, come il terapeuta è abituato a navigare da solo nel
mondo degli altri. Estasi, come tappa, o come meta raggiunta, come sospensione temporale e spaziale,
per poter accedere ad altre dimensioni che il mondo della psicotico richiede. Estasi come respiro,
come momento di pausa e rinfrancamento, come godimento di un “vino da meditazione”, come contentezza
nello sguardo di chi è riuscito a riutilizzare i suoi muscoli facciali che riprendono la loro mimica
e che accennano un sorriso, che sembra far capolino, timido e precario. Estasi come ritorno ad una
nuova grinta che sembrava dimenticata e che invece, rotte le titubanze, ci permette di riscoprire
territori che ci sembravano preclusi. Estasi come relazione con tutti quei punti nuovi e rischiosi
di noi che, a mo di fragile ponte di barche, possono farci raggiungere l’altra riva. Estasi infine
come amore, quella antica medicina che ancora non è entrata nella farmacologia ufficiale, che può
talvolta riuscire ad illuminare quelle parti oscure e senza luce che l’hanno sempre coperta e
nascosta.
Note bibliografiche
Ancora A., Cultura e psicosi in un ambito territoriale romano, in: “Metropoli ed oltre” (a cura di
Aguglia E., Pascolo E.), Tencati, Milano, 1995.
Ancora A., L’anticamera della conoscenza, Attualità in Psicologia, vol. XI, n. 3, pp.371-379.
Ancora A., La dimensione transculturale della psicopatologia, Edizioni Universitarie romane – Roma
1997.
Ancora A., La malattia e la costruzione della realtà, in: Crotti N., “Cancro: percorsi di cura”,
Meltelmi Editore, Roma, 1998.
Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano,1976.
Bateson G., Mente e natura, Adelphi, Milano,1984.
Callieri B., Introduzione, in: Ballerini A., Callieri B., (a cura di), Breviario di Psicopatologia,
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Leff J., Psichiatria e culture, a cura di A. Ancora, Sonda editore, Torino, 1992.
Searles H., Scritti sulla schizofrenia, Bollati Boringhieri, Torino, 1974.
Selvini Palazzoli M. et al., I giochi psicotici nella famiglia, Cortina, Milano, 1988.
Watzlawick P. (a cura di), La realtà inventata, edizione italiana a cura di Ancora A., Rischetti A.,
Feltrinelli, Milano,1988.
Whitaker C.A., Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, Astrolabio editore, Roma,
1990.
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