– IL PENSIERO ORIENTALE –
(di Francesco Ioppolo)
(Non uscendo dalla porta si conosce il mondo. Non guardando dalla finestra si scorge la via del
cielo. LAO-TZU)
Nel corso della storia si è constatato che la mente dell’uomo è capace di due tipi di conoscenza, la
prima modalità è quella razionale tenuta in grande considerazione dall’occidente, la seconda è
quell’intuitiva che in genere è esattamente l’opposto, ed è confacente all’atteggiamento orientale.
La conoscenza razionale appartiene al campo della scienza e dell’intelletto, la cui funzione è
quella di analizzare, discriminare, dividere, confrontare, misurare e ordinare in categorie.
La conoscenza razionale è un sistema di concetti astratti e di simboli, in questo modo si considera
l’ambiente naturale come se fosse costituito da parti separate, e si costruisce una mappa
intellettuale della realtà, nella quale le cose sono ridotte ai loro contorni. Il pensiero orientale
e più generalmente il pensiero mistico, forniscono alle teorie della scienza contemporanea un
importante e coerente riferimento filosofico: una concezione del mondo nella quale i due temi
fondamentali sono l’unità e l’interdipendenza di tutti i fenomeni, e considera l’uomo come parte
integrante di questo sistema. Ciò che interessa ai mistici orientali è la ricerca di una esperienza
diretta della realtà, che trascenda non solo il pensiero intellettuale, ma anche la percezione
sensoriale. La conoscenza che deriva da un’esperienza di questo tipo viene chiamata dai buddisti
“conoscenza assoluta” perché non si basa su discriminazioni, astrazioni, e classificazioni
dell’intelletto, le quali sono sempre relative e approssimate. Essa è come dicono i Buddisti,
l’esperienza diretta dell’essenza assoluta, indifferenziata, indivisa, indeterminata.
La conoscenza assoluta è quindi un’esperienza della realtà totalmente non intellettuale,
un’esperienza che nasce da uno stato di coscienza non ordinario, che può essere chiamato uno stato
meditativo o mistico. E’ la realtà della vita del Sé che vive solo così com’è, la nuda esperienza
della vita (quel soltanto essere vivo ora). Il Sé non è superficiale è la pienezza della gioia.
Essere consapevoli del Sé significa essere gioiosi. “Cosa fa un Buddha sotto l’albero del Bodhi? Non
fa nulla. Si limita ad essere”. Egli è colmo di un’insondabile gioia, perché ora non rimane nulla da
raggiungere. Nel proprio essere si scopre che qualsiasi cosa degna di essere raggiunta esiste già.
Il semplice accadere della vita, l’espirare e l’inspirare, il semplice pulsare della vita, è
beatitudine. Non ha nulla a cui pensare, non pensa alla famiglia, né pensa al futuro, è
semplicemente immerso nella beatitudine, il giusto modo di essere, non vi è passato né futuro.
Non sta andando da nessuna parte, il cuore batte, il respiro entra ed esce il sangue circola
semplicemente esiste, tutto è vivo e pulsante. Un’energia priva di scopo che fluisce senza meta, che
fluisce ovunque ma che non va da nessuna parte. Fluisce verso il nulla. L’estasi non è una meta. E’
qui e ora, proprio nel movimento, è felice di per sé, proprio nella pulsazione dell’essere vivo. Lo
zen che ebbe origine in seno al Buddhismo ma fu fortemente influenzato dal Taoismo, si vanta di
essere senza parole, senza spiegazioni, senza istruzioni, senza conoscenza. Esso si concentra quasi
interamente sull’esperienza di illuminazione (satori), ed essa non consiste nel fare qualcosa o
nell’ottenere qualcosa, ma consiste semplicemente nel riconoscere quello che è sempre esistito di
fatto, e si interessa solo marginalmente di interpretare questa esperienza.
A causa dell’educazione e del condizionamento ambientale il funzionamento delle nostre menti è
legato a un sistema particolare di logica formato da concetti, e ogni cosa viene considerata
attraverso un sistema di opposti: buono cattivo, bianco o nero, giusto o errato. A causa di questo
modo di giudicare non possiamo raggiungere le unità attraverso la molteplicità. Lo scopo dello Zen è
quello di andare al di là dei legami della dualità, rinunciare a tutti i concetti creati
dall’intelletto e vedere le cose come realmente sono, per mezzo della introspezione intuitiva.
Poiché il flusso della mente non può essere fermato mediante uno sforzo egocentrico di volontà,
quello che si richiede momento per momento è la osservazione continua delle dualità, della tendenza
continua del nostro io, delle tendenze che costituiscono i nostri pensieri, i nostri sentimenti, il
nostro corpo.
In tutto il misticismo orientale, l’intelletto è visto soltanto come un mezzo per aprire la strada
all’esperienza mistica diretta, che i Buddhisti chiamano “risveglio”. Lo zen insegna che il
risveglio (satori) attraverso la meditazione è al termine della attesa-attenzione, che deve essere
una vigilanza senza oggetto. Non c’è nulla da attendere infatti, ciò che succede succede. Non
esistono leggi regole e scopi, né in natura né nei pensieri. Riacquistare la spontaneità della
nostra natura originaria, la natura di Budda di tutte le cose, richiede un lungo percorso e
costituisce una grande conquista spirituale. Attraverso la meditazione si può fare l’esperienza di
sentire la nostra natura originaria.
Il programma basico dello Zen è quello di calmare la mente e il corpo, in un primo tempo, mediante
la pratica della meditazione, con lo scopo di arrivare ad una visione interiore. Zazen (meditazione
seduta) seduti con le gambe incrociate, la schiena dritta, la respirazione calma, il corpo e lo
spirito unificati, senza spirito avido. Girando il proprio sguardo verso l’interno, ciascuno depone
naturalmente i limiti dell’egoismo e fa direttamente l’esperienza del risveglio alla sua vera
natura. La base della filosofia Zen è il silenzio, è il Ku (il silenzio totale) che è la condizione
originaria della natura umana. Praticare aldilà di ogni oggetto è lo zazen più elevato; soltanto
sedersi senza scopo. Durante zazen non si pensa anche se il subconscio si manifesta, si lascia
passare, non si ferma il pensiero, non si trattiene. In questo modo la coscienza diventa illimitata,
infinita.
E’ la coscienza cosmica (la cosmicità è la natura intrinseca della mente). Il metodo Zen, questo
tipo di approccio alla realtà, è un metodo prescentifico, o metascentifico, o perfino
antiscentifico. In questo modo lo Zen si immerge nella fonte della creatività e beve ad essa tutta
la vita che contiene. Tale fonte è l’inconscio dello Zen. L’inconscio è fuori dall’ambito della
ricerca scientifica, l’inconscio si può solo sentire, e non nel senso comune del termine, pertanto
bisogna imparare a padroneggiare le vie dell’inconscio e la saggezza sconosciuta del Sé. Ciò che
esiste nel centro interiore è aldilà di ogni spiegazione. Viceversa la scienza inizia là dove
comincia la spiegazione, all’esterno, è una ricerca sulla circonferenza, nell’ambiente dell’uomo. Di
solito la consapevolezza scientifica è oggettiva: conosci gli altri, conosci il mondo, conosci le
stelle.
Nel momento però in cui la consapevolezza si rivolge all’interno e inizia a conoscere se stessa, in
altre parole nel momento in cui la consapevolezza diventa oggetto della propria conoscenza
l’illuminazione fiorisce. D’ora in poi la consapevolezza sarà il padrone e l’incosapevolezza il
servitore. La porta della verità non è né il centro né la circonferenza che sono in realtà due facce
di una sola e unica verità, ma uno stato in cui colui che vede e la cosa vista, l’osservatore e la
cosa osservata, si uniscono. Solo l’uomo libero da opinioni e da idee preconcette può vedere l’unità
e l’integrità della vita.
Scoprire il proprio inconscio non è un atto intellettuale, ma un’esperienza affettiva che non può
essere spiegata a parole. L’intelletto in ultima analisi, è superficiale, è qualcosa che fluttua
alla superficie della coscienza, e la superficie di deve spaccare perché possa raggiungere
l’inconscio cosmico, lo spirito logico deve dissolversi progressivamente per consentire al pensiero
translogico ed unificatore dello Zen di emergere. Una volta che tale livello sia raggiunto, la
comune coscienza viene pervasa dal flusso dell’inconscio, è questo appunto il momento in cui lo
spirito finito comprende di avere le proprie radici nell’infinito. La presa immediata e piena sul
mondo è proprio la finalità dello Zen, è l’autentico risveglio (farsi consapevoli) che si trova alla
radice insieme del pensiero creativo intellettuale, e dell’immediata apprensione intuitiva, equivale
al superamento della contaminazione affettiva e della manipolazione cerebrale; equivale alla
scomparsa della polarità conscio e inconscio. Significa non avere nulla ed essere.
Il seguace Zen consegue qui il suo oggetto perché è giunto a destinazione; egli è adesso pervenuto
nel cuore delle dualità include in sé tutto ciò che vi è di intellettuale, di affettivo o creativo
in modo indiscriminato, indifferenziato o meglio assoluto. Le sue attività non sono cambiate, ciò
che è cambiato è la sua soggettività. La mia esperienza personale della consapevolezza nella vita di
tutti i giorni, è quella di perderla facilmente, continuamente, in ogni momento. Mi capita a volte
di perdermi nelle reazioni, o mi isolo da ciò che accade. Ogni giorno infinite volte perdo la
consapevolezza, spesso cado vittima della “tigre della mente”. Purtroppo le pressioni, le tensioni e
la frenesia della vita non sono certo condizioni ideali per la consapevolezza. Tuttavia non appena
riconosco di averla smarrita posso ricominciare d’accapo.
Si affaccia così un Sé semplice basato sul respiro, capace di arrendersi al momento presente. Ecco
quanto voglio sottolineare come esperienza personale; nel momento in cui riconosco di aver smarrito
la consapevolezza, l’ho già riconquistata, perché quel riconoscimento stesso è una funzione della
consapevolezza. La consapevolezza infatti non è qualcosa di astratto o lontano: per ognuno di noi
prende vita nel momento in cui iniziamo, e ogni volta che ricominciamo. Essere consapevoli, svegli,
ricordarsi di Sé, osservare, non farsi travolgere dal chiacchiericcio della mente, questo è il
potere della consapevolezza, essere attenti e presenti con equilibrio, serenità e comprensione, sia
che l’esperienza sia piacevole, spiacevole o neutra. Restare un semplice testimone indifferente.
Quando siamo presenti osserviamo con la visione meditativa, con un’attenzione profonda e penetrante
caratterizzata dall’assenza di superficialità, e sappiamo incontrare direttamente ciò che accade nel
nostro mondo (la nuda realtà), con apertura, sensibilità, lucidità. Quando accendiamo la luce
dell’attenzione saggia, possiamo vedere con chiarezza, comprendiamo che non dobbiamo fare neppure un
passo in nessuna direzione, per ritrovare il nostro posto dove possiamo essere a nostro agio; è
proprio qui, dove ci troviamo ora. Di solito manchiamo d’intuizione e di una chiara visione perché
siamo prigionieri dei nostri condizionamenti. La realtà è già presente in noi ma per la nostra
cecità essa ci sfugge completamente. In un certo senso sperimentiamo qualcosa di continuo, ma siamo
scarsamente in contatto con le nostre esperienze, solo a metà svegli di fronte alla realtà.
In questo senso possiamo dire che non sperimentiamo veramente. Per la Gestalt la vera esperienza è
terapeutica o correttiva di per sé, è quel punto al di là delle tecniche come
realtà-consapevolezza-responsabilità. Un momento di veglia un momento di contatto con la realtà è
quello in cui i fantasmi dei nostri sogni a occhi aperti possono venire riconosciuti per quello che
sono, è un momento di addestramento all’esperienza, attraverso il quale possiamo imparare ad
esempio, che non c’è nulla da temere, o che la soddisfazione di essere vivi supera la sofferenza o
la perdita che avremmo voluto evitare col nostro dormiveglia. Colui che ha sviluppato la
stimolazione dall’interno, può ricongiungersi così ai suoi sensi ed entrare in contatto con la
propria esperienza, ridestandosi e tornando alla realtà nuda della vita che è “il Sé in Sé per Sé”,
il Sé che fa se stesso in Sé stesso, qualunque cosa capiti.
Questa è la vera dimensione spirituale, quel punto in cui non si è più diretti dall’io, ma da una
coscienza non dualista, non c’è più nessuno che pensa: “tu giungi senza alcun concetto di giungere e
vedi senza alcun concetto di vedere”. Finche non avremo superato il dualismo, non conosceremo la
libertà definitiva (l’ultima realtà). Realizzare questa profonda comprensione di sé stessi è la
fonte della vera saggezza, l’autentica saggezza risiede nell’osservazione e nella conoscenza di se
stessi. Il punto di vista della terapia gestaltica su questo come su altri temi è che la
consapevolezza è abbastanza, tenendo bene a mente la distinzione tra essere aperti all’esperienza e
fabbricare esperienze. Infatti le azioni che derivano dall’esperienza e la esprimono non sono tese a
produrre un effetto.
Le azioni che affermano la vita piuttosto che negarla, che rivelano piuttosto che nascondere, che
esprimono piuttosto che reprimere, sono in un certo senso non azioni. L’azione infatti
contrariamente alla manipolazione (di se stessi o degli altri), viene sperimentata come fluente
dall’interno invece che compiuta per andare incontro a modelli estrinseci. Per finire voglio dire
che la consapevolezza è il nostro vero Sé è ciò che siamo. Perciò in un certo senso non c’è bisogno
di sviluppare la consapevolezza: basta rendersi conto di come la blocchiamo con pensieri, fantasie,
opinioni e giudizi.
Stare semplicemente nell’istante fare una cosa alla volta e consegnarci totalmente a essa è il modo
più efficiente di vivere, è essere semplicemente qui, vivere la nostra vita. “Niente di speciale”.
La vita è così com’è, il lavoro è così com’è, il mondo è così com’è, e forse, se sappiamo accettarlo
così com’è, ci sveglieremo al suo significato.
In ogni situazione, che gli altri ci osservino o no, dovremmo essere consapevoli di ciò che avviene
in noi e stare in guardia contro la trascuratezza e la disattenzione. Così non nuoceremo agli altri.
La meta è sviluppare gradualmente la consapevolezza, e attivare quella compassione e gentilezza
amorevole che già sono in noi. E questo è alla portata di tutti.Akong Tulku Rinpoche
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