L’uomo che camminava sulle acque
(Associazione Vidya Bharata)
Un giorno un derviscio dalla mentalità convenzionale, prodotto di un’austera
scuola religiosa, stava passeggiando lungo un corso d’acqua, completamente
assorto in problemi teologici e morali, perché quella era la forma che
l’insegnamento sufi aveva assunto nella comunità cui apparteneva. Per lui la
religione emotiva corrispondeva alla ricerca della Verità Suprema.
All’improvviso il filo dei suoi pensieri fu interrotto da un forte grido:
qualcuno stava ripetendo l’invocazione derviscia. “Non serve a niente”, si
disse, “perché quell’uomo pronuncia male le sillabe. Anziché salmodiare YA
HU, dice U YA HU …”.
Il derviscio ritenne allora che fosse suo dovere – lui che aveva studiato
con tanto zelo – correggere quel poveretto che sicuramente non aveva avuto
l’opportunità di essere guidato nel modo giusto, e che probabilmente faceva
solo del suo meglio per entrare in armonia con l’idea sottesa nei suoni.
Noleggiata una barca, remò in direzione dell’isola donde sembrava provenire
la voce.
In una capanna di canne scorse, seduto per terra, un uomo vestito da
derviscio che si dondolava al ritmo della ripetizione della formula
iniziatica. “Amico mio”, gli disse, “la tua pronuncia è sbagliata. Mi
incombe dirtelo perché è meritevole dare consigli e altrettanto meritevole
accettarli. Ecco come devi pronunciare”. E glielo spiegò.
“Grazie”, disse l’altro con umiltà.
Il primo derviscio risalì in barca, molto soddisfatto di aver compiuto una
buona azione. Dopo tutto, non è detto che colui che riesce a ripetere
correttamente la formula sacra possiede anche il potere di camminare sulle
acque? Il derviscio non aveva mai visto nessuno compiere un simile prodigio,
ma aveva sempre sperato, per qualche ragione, di riuscirci prima o poi.
Dalla capanna non arrivava più alcun suono; tuttavia, era convinto che la
lezione aveva dato i suoi frutti.
Fu allora che udì un U YA pronunciato con esitazione: il derviscio
dell’isola si era messo nuovamente a pronunciare la formula a modo suo …
Mentre il primo derviscio era assorto nelle sue riflessioni, meditando sulla
perversità degli uomini e sulla loro cocciutaggine nel perseverare
nell’errore, i suoi occhi scorsero uno strano spettacolo: il derviscio della
capanna aveva lasciato la sua isola e stava venendo verso di lui camminando
sulla superficie dell’acqua …
Stupefatto, smise di remare. L’altro lo raggiunse e si rivolse a lui con
queste parole: “Fratello, perdonami se ti importuno, ma sono venuto a
pregarti di insegnarmi ancora una volta il modo corretto di ripetere
l’invocazione, perché ho difficoltà a ricordarlo”.
* * *
Nelle lingue europee è possibile riprodurre solo una gamma dei significati
di questo racconto; le versioni arabe usano in genere parole aventi lo
stesso suono ma significati
diversi (omonimi), per indicare che si tratta di un artificio concepito per
portare la coscienza a un livello più profondo, a prescindere dalla loro
morale superficiale.
Questa storia figura nella letteratura popolare orientale. La si ritrova
anche nei manoscritti dervisci, alcuni dei quali sono molto antichi. Questa
versione proviene dall’Ordine Asaaseen (‘Essenziale’, ‘Originale’) del
Vicino e Medio Oriente.
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