L’UOMO OSTRICA (PARTE SECONDA)

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L’UOMO OSTRICA (PARTE SECONDA)

di Marco Ferrini (Matsyavatara Dasa)

Il condizionamento è qualcosa che limita, obbliga e perciò condiziona, rendendo difficili funzioni
ontologicamente naturali, come ad esempio la manifestazione delle capacità superiori della mente.
Secondo la definizione di Jung, la struttura psichica è quadripartita, possiede cioè due funzioni
razionali, pensiero e sentimento, e due irrazionali, sensazione e intuizione; sono proprio queste
funzioni che, secondo la letteratura vedica, vengono condizionate e inibite dalle cinque aree di
condizionamento definite panca-klesha: avidya, asmita, raga, dvesha, abhinivesha. Il termine avidya
indica la non conoscenza della propria vera natura, la mancanza di sapienza, di visione. Con ciò non
s’intende un’ignoranza generica: una persona può essere dotta nelle varie branche del sapere e
subire ciononostante questo condizionamento, se non ha coltivato la conoscenza del sé.

È infatti l’ignoranza della propria natura spirituale che determina avidya, il più grande ostacolo
nella ricerca della Verità e della Felicità. Si può utilizzare il termine junghiano, ‘sé’, per
definire quell’entità che dà vita al corpo e che gli antichi rishi chiamavano atman, da cui il
termine italiano ‘anima’. Il ‘sé’, l’atman, è quel principio spirituale che coincide con l’essere
vivente. È immortale, costituito di consapevolezza e caratterizzato da beatitudine. Quando un essere
umano cerca di risolvere i problemi che costituiscono per lui motivo di sofferenza, viene mosso
interiormente dall’atman, perché la sua componente di beatitudine non gli permette di vivere in una
situazione priva di felicità. Il dolore non appartiene alla nostra natura, è qualcosa di
artificiale, di estraneo a noi; per questo nessuno si adatta al malessere, al dolore, alla
sofferenza, alle ristrettezze che si configurano come permanenti.

La beatitudine, una delle tre caratteristiche dell’atman, si fa sentire molto forte dall’interno e
pretende piena soddisfazione: per questo tutti sono alla continua ricerca della felicità. Ma qualche
volta, a causa dei condizionamenti interni ed esterni, la felicità non è raggiungibile perché
persiste una cappa di obblighi imposti dalla società e creati direttamente o indirettamente
dall’individuo, che non permettono la piena sperimentazione della natura profonda dell’atman, la
beatitudine (ananda). Rimuovere avidya rappresenta il primo indispensabile passo da compiere per
attivare il decondizionamento ed arrivare a quella dimensione in cui si può percepire appieno la
nostra natura profonda, ontologica. A tale scopo non è però sufficiente l’informazione teorica che
l’essere è di natura spirituale e immortale. Alcuni credono che una volta affrontate certe questioni
dal punto di vista concettuale il lavoro sia concluso, ma la realtà è ben diversa. Una conoscenza di
questo tipo può rappresentare un buon inizio, ma per dare risultati concreti deve poi essere calata
nella pratica, vissuta, sperimentata, fino a diventare, in maniera sostanziale, continua e stabile,
qualcosa di luminoso per il ‘sé’ e per la coscienza del soggetto.

Soltanto dopo la sperimentazione, la conoscenza acquisita costituirà una conquista ed una
consapevolezza stabili. Il vero imperativo della vita consiste dunque nel conoscere chi siamo. Non
soltanto i rishi vedici affermavano questa verità, ma anche Socrate, Platone, Lao-Tze e gli
illuminati di tutti i tempi e di tutte le tradizioni. Dopo avidya, la seconda causa di
condizionamento è asmita, l’identificazione con il corpo e con tutto ciò che ad esso è collegato. Se
chiedessi ad alcuni tra voi di presentarsi, qualcuno direbbe: “sono una studentessa” oppure “sono un
militare e ho questo grado” oppure: “sono un professore universitario”, “sono un meccanico della
Fiat”, “sono un postino”, e così via. Si tratta di identificazioni con il corpo-oggetto, ma l’atman
non è oggetto, è soggetto. Se vogliamo liberarci di ciò che ci limita e ci impedisce di avere piena
libertà di azione, per prima cosa dobbiamo conoscere l’origine dei nostri condizionamenti. Essi sono
generati proprio dall’identificazione con il corpo, con un ambiente, con un colore di pelle, con un
ruolo nella società che li crea. La terza e la quarta causa di condizionamento sono raga
(attrazione) e dvesha (repulsione). È utile studiarle assieme poiché sono come due facce della
stessa medaglia.

Gli antichi saggi spiegano infatti che ciò che genera attrazione, poi finirà col generare
repulsione, mentre ciò che genera repulsione potrà successivamente generare attrazione. Il saggio si
sottrae a questi due condizionamenti trascendendoli entrambi. Raga, si potrebbe tradurre anche con
il termine “piacere”; paradossalmente, il cosiddetto piacere diventa causa di condizionamento e
presto cede il posto al suo contrario: il dolore. La Bhagavad-gita (V.22) insegna che: “La persona
intelligente si tiene lontana dalle fonti della sofferenza, che sono dovute al contatto dei sensi
con la materia. O figlio di Kunti, questi piaceri hanno un inizio e una fine e l’uomo saggio non
trae gioia da essi”. È facile per tutti capire che la repulsione (dvesha) è fonte di sofferenza, ma
molti hanno difficoltà a comprendere che anche il piacere può diventare origine di condizionamento e
conseguenza di dolore. Questo perché, a causa della natura instabile di questo mondo, non possiamo
aspettarci di mantenere per sempre gli oggetti del nostro piacere. Nel momento in cui li perdiamo,
proviamo un dolore che è tanto acuto quanto intenso, a causa dell’attaccamento che abbiamo
sviluppato per essi.

Abhinivesha è la quinta fonte di condizionamento ed è costituita dall’attaccamento alla vita in un
determinato corpo, ovvero, tradotto in termini occidentali, dalla paura della morte. Può essere una
lucida ossessione giornaliera o rimanere serpeggiante nell’inconscio, ma il concetto che ognuno ha
della morte è un condizionamento che dura tutta una vita e anche vita dopo vita. Se si è oppressi da
questi condizionamenti, l’armonia è pressoché impossibile, è pura utopia, mentre diventa una
dimensione reale quando i condizionamenti vengono meno. L’armonia ha inizio con la comunione di
quelle che Jung ha chiamato funzione estrovertita e funzione introvertita. La funzione estrovertita,
come già detto, è la caratteristica di proiettarsi nel mondo, di identificarsi, di misurarsi con
l’oggetto e di far dipendere massimamente la propria opinione dall’oggetto, di verificare se quello
che si sente è vero in base alla risposta che dà l’oggetto. Di per sé questo atteggiamento è già
patologico, ma è proprio di una fascia così ampia di popolazione che ormai viene considerato
normalità. Nella funzione introvertita l’individuo tende ad avere un riscontro esclusivamente
interiore che spesso, nella sua forma patologica, porta ad una negazione del mondo e degli oggetti,
quindi di tutto ciò che è esterno a sé.

L’armonia è comunione tra le due funzioni estrovertita e introvertita e quindi trascendimento delle
stesse, dove l’oggetto e il soggetto partecipano della causa originaria da cui entrambi provengono.
Quindi, spirito e materia, essenza e sostanza, tornano ad armonizzarsi sul piano spirituale ed ecco
che si ristabilisce la salute psicofisica. In questo modo si spiegano remissioni spontanee di
malattie gravissime, guarigioni miracolose e facoltà mentali straordinarie, anche se spesso la
persona viene illuminata per breve tempo e poi torna nel grigio della “normalità”.

Tratto da Libertà dalla Solitudine e dalla Sofferenza.

da psicologiaespiritualita.blogspot.com

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