Meditazione di Jiddu Krishnmurti

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Meditazione di Jiddu Krishnmurti

– Meditazione –

titolo originale Meditations
(Shamblrala Publications, inc., Boston)
traduzione di Livio Agresti
© 1979, krishnamurti foundation trust ltd., london

Era una delle più splendide mattine mai sorte sul mondo. Il sole stava
spuntando e tu lo vedevi tra l’eucalipto e il pino. Era sull’acqua,
dorato, brunito: una luce che esiste solo al confine tra le montagne e
il mare. Era una mattina così luminosa, senza un alito di vento, piena
di quella strana luce visibile non solo con gli occhi, ma anche col
cuore. E quando la vedi il cielo è vicinissimo alla terra e ti perdi
nella bellezza. Sai, non dovresti mai meditare in pubblico, o con
un’altra persona, o in gruppo: dovresti meditare solo in solitudine,
nella quiete notturna o nella pace della mattina. Quando mediti in
solitudine, che sia solitudine. Devi essere completamente solo, non
seguire un sistema, un metodo, non ripetere parole, inseguire pensieri
o formulare pensieri assecondando il tuo desiderio.

Questa solitudine viene quando la mente è libera dal pensiero. Quando
c’è l’influsso del desiderio o delle cose che la mente insegue, nel
futuro o nel passato, non c’è solitudine. Tale solitudine viene solo
nell’immensità del presente. E allora, in quella quieta segretezza in
cui ogni comunicazione è terminata, in cui non c’è nessun osservatore
con le sue angosce, con le sue stupide voglie e i suoi problemi, solo
allora, in quella quieta solitudine, la meditazione diviene qualcosa
che non può essere espresso a parole. La meditazione diviene un
movimento eterno.

Non so se hai mai meditato, se sei mai stato solo con te stesso,
lontano da tutto, da ogni persona, da ogni pensiero e desiderio, se
sei mai stato completamente solo, non isolato, non chiuso in un sogno
o in una visione di fantasia, ma lontano, tanto che in te non vi è
nulla di identificabile, nulla che tu possa toccare con il pensiero o
il sentimento, così lontano che in questa assoluta solitudine il
silenzio stesso diviene il solo fiore, la sola luce, e la qualità
senza tempo che non è misurabile dal pensiero.

Solo in questa meditazione l’amore vive. Non preoccuparti di
esprimerlo: l’amore si esprimerà da sé. Non usarlo. Non cercare di
metterlo in atto: agirà e, quando lo farà, in quell’azione non vi sarà
pentimento, non vi sarà contraddizione, non vi sarà infelicità o pena
umana.

Quindi medita solo. Perditi. E non cercare di ricordare dove sei
stato. Se cerchi di ricordarlo, allora sarà qualcosa di morto. E se ti
afferri al suo ricordo, non sarai mai più solo. Così, medita in quella
solitudine infinita, nella bellezza di quell’amore, in
quell’innocenza, nel nuovo. Allora c’è quella beatitudine che è
immortale.

Il cielo è di un azzurro intenso, quell’azzurro che viene dopo la
pioggia, e queste piogge sono cadute dopo molti mesi di siccità. Dopo
la pioggia il cielo è terso e le colline sono colme di gioia e la
terra è placida. E su ogni foglia brilla la luce del sole, e la
sensazione della terra ti è vicinissima. Così, medita nei recessi più
segreti del tuo cuore e della tua mente, dove non sei mai stato prima.

La meditazione non è un mezzo diretto a un fine:

non c’è né fine né arrivo; la meditazione è un movimento nel tempo e
fuori del tempo. Ogni pensiero, ogni metodo lega il pensiero al tempo,
mentre la consapevolezza acritica di ogni pensiero e sentimento, la
comprensione delle loro motivazioni, dei loro meccanismi, il
permettergli di fiorire, è l’inizio della meditazione. Quando pensiero
e sentimento fioriscono e muoiono, la meditazione è movimento oltre il
tempo. In questo movimento c’è estasi; nel vuoto completo c’è amore, e
con l’amore c’è distruzione e creazione.

Meditazione è quella luce nella mente che illumina la strada
dell’azione, e senza quella luce non c’è amore.

La meditazione non è mai preghiera.

La preghiera, la supplica, nasce dall’autocommiserazione. Si prega
quando si è in difficoltà, quando c’è il dolore; ma quando c’è
felicità, gioia, non c’è supplica. Questa autocommiserazione, così
profondamente radicata nell’uomo, è la radice della separazione. Ciò
che è separato, o che si crede separato, sempre alla ricerca
dell’identificazione con qualcosa che non sia separato, crea solo
maggiore divisione e pena. Dal fondo di questa confusione si invoca il
cielo, o il proprio marito, o qualche divinità della mente. Questa
invocazione può trovare una risposta, ma la risposta è l’eco
dell’autocommiserazione nella sua separazione.

La ripetizione di parole, di preghiere, è autoipnotica,
autocircoscrivente e distruttiva. Il pensiero si isola nel campo di
ciò che già conosce, e la risposta alla preghiera è la risposta di ciò
che il pensiero già conosce.

La meditazione è lontana da tutto ciò. In quel campo il pensiero non
può entrare; non c’è nessuna separazione e quindi nessuna identità. La
meditazione è all’aperto; non ha segreti. Tutto è esposto, chiaro.
Allora la bellezza dell’amore è.

Questa mattina la qualità della meditazione era il nulla, il vuoto
totale di tempo e spazio. È un dato di fatto e non un’idea, né il
paradosso di contrastanti speculazioni. Si trova questo strano vuoto
quando la radice di tutti i problemi si inaridisce. Questa radice è il
pensiero, il pensiero che divide e mantiene. Nella meditazione la
mente si svuota effettivamente del passato, sebbene possa usare il
passato come pensiero. Ciò continua per tutto il giorno, e durante la
notte il sonno è il vuoto di ieri; perciò la mente tocca ciò che è
senza tempo.

Meditazione non è il puro controllo del corpo e del pensiero, né un
sistema di inspirazione ed espirazione. Il corpo deve essere immobile,
in salute e senza alcuna tensione; la percezione deve essere resa più
acuta e intensa; e la mente che chiacchiera, che disturba e che
brancola deve acquietarsi. Non bisogna cominciare dal corpo, piuttosto
bisogna fare attenzione alla mente, con le sue opinioni, i suoi
pregiudizi e il suo egocentrismo. Quando la mente è sana, vitale e
vigorosa, la percezione sarà più intensa ed estremamente sensibile.
Allora il corpo, con la sua intelligenza naturale, non macchiata
dall’abitudine e dall’inclinazione, funzionerà come deve.

Così, bisogna cominciare dalla mente e non dal corpo, e per mente
intendo il pensiero e le sue molte espressioni. La mera concentrazione
rende il pensiero ristretto, limitato e calcolatore, ma la
concentrazione viene come una cosa naturale quando c’è la
consapevolezza delle vie del pensiero. Questa consapevolezza non
deriva dal pensatore che sceglie e scarta, che si aggrappa e rifiuta.
Questa consapevolezza è priva di scelta ed è allo stesso tempo
l’esterno e l’interno; è un flusso tra i due, così che la divisione
tra esterno e interno ha fine.

Il pensiero distrugge la percezione, la percezione che è amore. Il
pensiero può offrire solo il piacere, e nell’inseguimento del piacere
l’amore è spinto da parte. Il piacere di mangiare, di bere, trova la
sua continuità nel pensiero, e non ha senso limitarsi a controllare o
reprimere questo piacere prodotto dal pensiero; in questo modo si
creano solo varie forme di conflitto e costrizione.

Il pensiero, che è materia, non può ricercare ciò che è al di là del
tempo, perché il pensiero è memoria, e l’esperienza racchiusa nella
memoria è morta come le foglie dell’autunno passato.

Nella consapevolezza di tutto ciò viene l’attenzione, che non è frutto
della disattenzione. È stata la disattenzione a determinare le
piacevoli abitudini del corpo e a rendere ottusa la percezione. La
disattenzione non può essere trasformata in attenzione. La
consapevolezza della disattenzione è attenzione.

La visione di tutto questo processo complesso è meditazione, e solo la
meditazione può dare ordine a questa confusione: un ordine assoluto
come quello matematico, da cui si produce l’azione, l’agire immediato.
L’ordine non è disposizione, forma e misura: queste cose vengono molto
dopo. L’ordine nasce in una mente che non è ingombra degli oggetti del
pensiero. Quando il pensiero tace c’è il vuoto, che è ordine.

Era davvero un fiume meraviglioso, ampio, profondo, con tante città
sulle rive, così spensieratamente libero eppure senza mai lasciarsi
andare. C’era tutta la vita sulle sue rive, campi verdi, foreste, case
solitarie, morte, amore e distruzione; c’erano lunghi, ampi ponti al
di sopra, eleganti e funzionali. Altri corsi d’acqua e fiumi vi
confluivano, ma quel fiume era la madre di tutti i fiumi, piccoli e
grandi. Era sempre pieno e sempre puro, e di sera era una benedizione
contemplarlo, col colore sempre più fondo delle nuvole, e le sue acque
d’oro. Il piccolo rivolo d’acqua, lontano, lassù fra quelle
gigantesche rocce che sembravano tutte concentrate a produrlo, era
l’inizio della vita, e la sua fine era oltre le sue rive e oltre i
mari.

La meditazione era come quel fiume, solo che non aveva né principio né
fine; cominciava, e la sua fine era il suo principio. Non c’era alcuna
causa e il suo movimento era il suo rinnovarsi. Era sempre nuova, mai
si condensava per invecchiare; mai si corrompeva, poiché non aveva
radici nel tempo. È bene meditare senza far forza e senza fare sforzi,
cominciando con un rivolo d’acqua fino ad arrivare oltre il tempo e
oltre lo spazio, dove il pensiero e il sentimento non possono entrare,
dove non c’è esperienza.

Meditazione è la totale liberazione dell’e nergia.

Nello spazio che il pensiero si crea ntor¬no non c’è amore. Questo
spazio divide l’uomo dall’uomo, e in esso è contenuto tutto il
divenire, la lotta della vita, la sofferenza e la paura. La
meditazione è la fine di quello spazio, la fine dell’“io”. Allora i
rapporti hanno un significato del tutto diverso, perché in quello
spazio che non è prodotto dal pensiero l’altro non esiste, tu non
esisti.

Meditazione non è quindi ricerca di una visione, per quanto sancita
dalla tradizione. È piuttosto lo spazio infinito in cui il pensiero
non può penetrare. Per noi quel piccolo spazio che il pensiero si
costruisce intorno, che è l’“io”, è estremamente importante, perché è
tutto quel che la mente conosce, identificandosi con tutto ciò che vi
è racchiuso. E la paura di non essere nasce in quello spazio. Ma nella
meditazione, quando si comprende ciò, la mente può entrare in una
dimensione dello spazio nella quale l’azione è non azione.

Non sappiamo cosa sia l’amore, perché nello spazio che il pensiero si
crea intorno come “io”, l’amore è il conflitto dell’“io” con il
“non-io”. Questo conflitto, questo tormento, non è amore.

Il pensiero è la negazione stessa dell’amore, e non può penetrare in
quello spazio in cui l’“io” non è più. Quello spazio contiene la
benedizione che l’uomo cerca senza succes¬so. La cerca entro i confini
del pensiero, ma il pensiero distrugge l’estasi di quella benedizione.

La fede non è necessaria, e neppure gli ideali. Sia l’una che gli
altri dissipano l’ener¬gia che serve per seguire lo svolgersi del
reale, di “ciò che è”. La fede, come gli ideali, è una fuga dalla
realtà, e nella fuga non c’è fine al dolore. La fine del dolore è la
comprensione della realtà momento per momento. Non esiste un sistema o
un metodo che dia la comprensione, ma solo una consapevolezza della
singola realtà che sia priva di scelta. Meditare seguendo un sistema
significa evitare la realtà di ciò che si è; è assai più importante
capire se stessi, il costante mutare delle realtà che ci riguardano,
anziché me¬ditare per trovare dio o avere visioni, sensazioni e altre
forme di distrazione.

Meditazione a quell’ora era libertà, era come entrare in un mondo
sconosciuto di bellezza e di quiete: un mondo senza immagini, simboli
e parole, senza onde di memoria. L’amore era la morte di ogni minuto e
ogni morte era il rinnovarsi dell’amore. Non era attaccamento, non
aveva radici; fioriva senza una causa ed era una fiamma che bruciava
tutti i confini, tutte le barriere della coscienza erette con tanta
cura. Era bellezza al di là di pensiero e sentimento; non era dipinta
su tela, né espressa in parole o incisa nel marmo. La meditazione era
gioia e con la gioia veniva una benedizione.

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