Memorie di Anandamayi Ma

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di Arnaud Desjardin e Daniel Roumanoff

Arnaud Desjardins e Daniel Roumanoff furono tra i primi discepoli
occidentali di Anandamayi Ma. Ella catapultò entrambi gli uomini dentro
profonde esperienze spirituali, sfidando allo stesso tempo il loro amore e
la loro devozione verso di lei. Tuttavia, le conclusioni finali che ognuno
dei due ne trasse sono radicalmente diverse.

Narra la leggenda che una sera, nel bel mezzo di un festival del canto
religioso, la Madre Divina Anandamayi Ma all’improvviso si alzò e abbandonò
il suo ashram. Ai due discepoli che la seguirono ansiosamente chiedendole
dove stesse andando, rispose soltanto: «Sarnath», il nome di una città a
molti chilometri di distanza. Un treno postale su cui salì fece
misteriosamente una fermata fuori programma in quella città. Quindi lei si
diresse senza esitazioni verso un albergo sconosciuto, passò davanti al
direttore ed entrò direttamente nella stanza di una discepola che, all’insaputa
di tutti, era giunta là qualche ora prima senza un soldo, piangendo e
pregando disperatamente Anandamayi Ma. Il resto della notte passò tra risa e
battute sull’ansia e la paura della discepola, ora piena di gioia.

Nata in un villaggio del Bengala orientale (ora Bangladesh), Anandamayi Ma
era, al momento della morte nel 1982, una delle sante di sesso femminile più
riverite di questo secolo. Bastano le fotografie per dimostrare la sua
luminosa bellezza e la sua potentissima esaltazione divina. Esistono
innumerevoli racconti sui suoi miracoli, guarigioni e predizioni. Sebbene
fosse praticamente analfabeta, col tempo intorno a lei si formò una
complessa teologia. Era ritenuta un’avatar, un’incarnazione divina
illuminata dalla nascita. Si raccontava che le sue azioni fossero il
risultato del suo kheyal, la sua ispirazione divina, e si pensava che non
avesse motivazioni proprie. Infatti, dopo i ventotto anni, cessò di nutrirsi
e doveva essere imboccata dai discepoli come una neonata.

Anandamayi Ma viaggiò incessantemente, creando una rete di ashram in tutta l’India.
Tra i suoi ammiratori, vi erano insigni personalità come il Mahatma Gandhi,
Indira Gandhi e Gopinatha Kaviraj, uno dei più importanti eruditi indiani;
quest’ultimo, quando la vide, sentì che lei, una donna ignorante, aveva
finalmente risposto a tutte le sue domande spirituali.

Arnaud Desjardins e Daniel Roumanoff furono tra i primi discepoli
occidentali di Anandamayi Ma. Entrambi la incontrarono in India nel 1958 e
furono suoi studenti per molti anni; nei due articoli seguenti raccontano la
loro vita con lei. I loro racconti ci danno un vivido ritratto di un’esuberante
santa moderna, offrendoci un’idea di cosa significasse esserle vicino. Ella
catapultò entrambi gli uomini dentro profonde esperienze spirituali,
sfidando allo stesso tempo il loro amore e la loro devozione verso di lei.
Tuttavia, le conclusioni finali che ognuno dei due ne trasse sono
radicalmente diverse. Mentre il primo vide solo l’imperscrutabile e profondo
gioco del Divino, l’altro avvertì limiti profondi nell’insegnamento e nelle
azioni di Ma. Considerati nel loro insieme, i loro articoli sollevano
affascinanti interrogativi su questa influente Madre Divina indiana.

Nato in Francia, Arnauld Desjardins è un famoso insegnante di spiritualità
orientale, oltre che un noto regista e scrittore. La sua opera è stata
fondamentale per introdurre le tradizioni orientali nel mondo europeo.

Lo scrittore Daniel Roumanoff, laureato alla Sorbona, è un uomo d’affari e
un dirigente d’azienda di successo.

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– La personificazione della trascendenza –

(di Arnauld Desjardins)

Sebbene Sri Mataji Anandamayi Ma non fu, a rigore, il mio guru, certamente
ebbe un ruolo importante (a dir poco) nella mia vita e nella mia sadhana
(pratica spirituale). In realtà, esercita tuttora questo ruolo. Il suo
ricordo è vivo nel profondo del mio cuore e sulle pareti dell’ashram dove
ora insegno ci sono moltissime foto di lei.

Dal nostro primo incontro, nel 1959, a quel giorno del 1965 in cui mi dette
la sua benedizione per andare da Sri Swami Prajnanpad (1891-1974), un
maestro relativamente sconosciuto che stava per diventare il mio guru (o
forse dovrei dire: del quale stavo gradualmente diventando il discepolo),
consideravo Mataji come il mio guru. In quegli anni, vissi con lei per
lunghi periodi di tempo. Anche dopo aver incontrato Swami Prajnanpad,
sentivo attivamente la sua influenza e continuavo ad andarla a trovare, fino
al mio ultimo viaggio in India, qualche anno prima che lasciasse il corpo.

Per semplificare le cose, potrei dire che, sebbene nel corso della mia
ricerca e dei miei viaggi abbia avuto il privilegio di avvicinare molti
esseri straordinari – tibetani, sufi, guru indù e maestri Zen, molti dei
quali lasciarono una traccia profonda nel mio cuore – per me Anandamayi Ma
fu, e rimane, la personificazione della trascendenza, la prova vivente dell’esistenza
di una realtà trascendentale.

“Straordinaria”, “superumana”, “divina”. Ancora oggi sento che nessun
aggettivo è in grado di descrivere la sua presenza, soprattutto quando la
conobbi per la prima volta, al massimo della sua radiosità. Riuscivo a
malapena a credere che un tale essere potesse camminare sulla terra sotto
forma umana, e non ebbi difficoltà a comprendere perché un’intera teologia
si fosse sviluppata intorno a lei. Non ho mai, mai incontrato un saggio di
cui ho tanto ammirato l’aspetto divino. In verità, l’ammiravo oltre ogni
parola.

Naturalmente, migliaia di pellegrini furono toccati in modo simile dalla sua
straordinaria presenza; qui vorrei sottolineare, però, un altro aspetto di
Mataji: il modo implacabile con cui talvolta crocifiggeva l’ego di coloro
che cercavano qualcosa di più che una sua occasionale benedizione. Difatti,
nel suo ashram c’era una chiara distinzione tra due tipi di visitatori:
quelli che venivano per la sua dracaena (udienza personale) e che ricevevano
un caldo benvenuto, e quelli che insistevano per essere considerati suoi
discepoli, che venivano provocati e spinti al massimo, al limite di ciò che
erano in grado di sopportare (ma mai oltre: infatti, nessun guru vuole
portare qualcuno all’assoluta disperazione o ad abbandonare il cammino a
causa di pene indescrivibili).

Durante gli anni in cui Denise Desjardins e io passavamo molti mesi nell’ashram
come candidati al discepolato, piuttosto che come semplici visitatori,
ricevemmo molti di tali “trattamenti speciali”.

Ora che sto per descrivere alcuni esempi di quel trattamento, mi rendo conto
che al lettore comune queste storie potrebbero sembrare molto innocenti e
non così terribili. La verità è che è sempre facile ascoltare la descrizione
della sadhana di qualcun’altro e immaginare: «Oh, se fossi stato in questa
situazione, non sarei rimasto così sconvolto. L’avrei immediatamente presa
come una lezione, una sfida per il mio ego, etc.». Quando vieni davvero
messo alla prova, quando la mente e l’ego vengono provocati tramite
situazioni che, in se stesse, talvolta non sono altro che semplici
difficoltà e delusioni, non stai più ascoltando una storia. Sei nel fuoco,
immerso in ciò che costituisce l’essenza di ogni sadhana: una sfida
continua, talvolta aspra, all’ego e alla mente, attraverso situazioni che
chiamano in causa le tue identificazioni e i tuoi attaccamenti.

In quegli anni, ero un regista professionista e lavoravo per la televisione
francese. Una delle cose che Mataji usava per crocifiggere il mio ego e
impartirmi insegnamenti era il film che stavo girando nell’ashram. Qualche
volta mi accordava opportunità eccezionali e poi mi faceva sprecare gli
ultimi rotoli di pellicola, sui quali contavo molto. Questo era difficile da
accettare. Seguendo il consiglio di uno dei residenti dell’ashram, avevo
prudentemente risparmiato tre rotoli di pellicola fino alla fine della mia
permanenza. Per questo, avevo rinunciato a filmare scene che avrebbero
potuto essere importanti. Poi, negli ultimi giorni, tutte le volte che
cominciavo a filmare, Anandamayi Ma, di fronte a tutti, voltava la testa o
si tirava indietro.

Questa per me fu la cosa più crudele, perché credevo che la persona che mi
aveva chiesto di conservare quei rotoli fosse stata ispirata da Ma stessa.
Alla fine, Ma mi permise di girare un solo rotolo. Siccome questo accadde
dopo il tramonto, ero convinto che nel film non sarebbe apparsa nessuna
immagine. Per quanto possa sembrare incredibile, apparve qualcosa: tra
queste, tre scene che possono considerarsi le più belle del film, dove si
vede Ma di notte, circondata da pochi discepoli. Questi miracolosi quaranta
secondi erano valsi il sacrificio di quei tre rotoli. Una volta, mi chiese
di proiettare le immagini per me più preziose utilizzando un antiquato
macchinario indiano, che ero certo avrebbe rovinato irrimediabilmente la
pellicola.

Ricordo anche un incidente particolare. Avevo sempre sognato di incontrare
quelli che allora chiamavo gli autentici yogi: non gli insegnanti di yoga,
ma gli yogi che avevano ottenuto la padronanza su certe energie e sviluppato
determinati poteri. Per me, quegli yogi incarnavano la vera India
leggendaria. Vivevano nell’alta valle del Gange, dove non ero ancora
riuscito ad andare, dal momento che il governo indiano non mi aveva concesso
il permesso speciale allora necessario per viaggiare in quella regione. Uno
di quei famosi yogi stava per scendere a valle per recarsi in visita ad
Anandamayi Ma. In quello stesso giorno, Ma mi chiese se potevo andare con la
mia Land Rover a una località a 150 chilometri di distanza per prendere dei
bagagli e portarli indietro. Le strade non erano asfaltate, stava piovendo e
c’era fango dappertutto: quando lasciai l’ashram, lo yogi non era arrivato;
quando tornai, era già partito. Allora, questa per me fu una terribile
delusione, un sogno infranto.

Ogni volta che il mio ego voleva disperatamente essere ammesso da Ma, le
circostanze erano tali che non riuscivo ad avere un incontro privato con lei
per settimane intere. Ma una volta, dopo aver attraversato ciò che di solito
si chiama un periodo di grande sofferenza, alla fine cambiai il mio
atteggiamento interiore e lei stessa mi invitò a fare un giro in macchina.
Eravamo solo io, lei (al volante) e un grande pundit che ammiravo molto. Mi
fece sedere accanto a sé e non permise a nessun altro di venire con noi.

Spesso avevamo l’impressione che anche le altre persone erano chiamate a
insegnarci qualcosa e che tutto il mondo, consapevolmente o
inconsapevolmente, era al servizio della Madre. Lei era un’incredibile fonte
d’energia, il centro di un’enorme attività.

È difficile immaginare cosa potesse significare arrendersi ad Anandamayi Ma,
così come lo vivevano alcuni dei discepoli più vicini a lei. Ricordo un
monaco il cui ideale di vita era meditare. Egli aveva meditato in un ashram
isolato sull’Himalaya ed era molto felice, finché Ma lo designò swami
responsabile dell’ashram di Dheli. Ogni giorno doveva affrontare visitatori
curiosi, europei, persone che venivano dalle ambasciate e dai consolati. Fu
costretto a non essere più un meditatore, ma un amministratore, immerso
dalla testa ai piedi nella vita attiva: l’esatto opposto di ciò cui aveva
aspirato. Lavorava venti ore al giorno e una volta lo vidi perfino cadere
lentamente: si era addormentato mentre camminava.

Vedendo il sorriso radioso di Anandamayi, era impossibile immaginare la
pressione che metteva su alcuni, in nome della libertà suprema.

Per finire, vorrei dire che, ricordando Ma e il mio guru, Swami Prajnanpad,
mi sento molto grato per le occasioni in cui mi causarono dolore, facendo
soffrire il mio ego. Naturalmente, non mi fecero mai alcun male. Al
contrario, tutto quello che fecero, sia che mi sorridessero sia che fossero
arrabbiati con me, era al servizio del mio bene supremo. Ma sicuramente,
certe volte, mi sentii molto ferito.

E la verità è che non si può compiere alcun progresso nella propria sadhana
se l’ego e la mente non vengono, qualche volta, dolorosamente scossi.

Arnaud Desjardins è autore di molti libri. Risiede e insegna nel suo ashram,
ad Hauteville, nel sud della Francia.

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– Una Tragica Passione –

(di Daniel Roumanoff)

I seguenti estratti sono presi dal diario dell’autore, scritto durante il
periodo in cui era discepolo di Anandamayi Ma.

6 ottobre 1959

Dopo avere cambiato treno a Bareilly, mi siedo nella carrozza di terza
classe nel Dun Express, che attraversa l’India da Dehra Dun a Calcutta. Un
giovane si avvicina e dice: «Posso vedere dal suo volto che lei è
interessato alle cose spirituali».

Accenno di sì.

«Non sta forse andando a Benares?»

«Sì», rispondo sorpreso.

«E non visiterà forse l’ashram di Anandamayi?» Ancora una volta avverto la
bizzarra sensazione che mi accompagna dall’inizio di questo viaggio. È come
se qualcosa o qualcuno mi stesse guidando per mano da un incontro all’altro.

Il soggiorno a Benares mi preoccupa. Dovrei cercare direttamente una
sistemazione nell’ashram od optare per un albergo? Ad Almora alcune persone
mi avevano avvertito che, poiché nell’ashram si rispetta la divisione in
caste, è difficile soggiornarvi per gli stranieri, considerati fuoricasta.

«In tal caso», continua il giovane, «vorrei chiederle un favore. Anche mia
zia, là seduta, sta andando all’ashram». Indica una donna imponente con il
tradizionale sari bianco delle vedove bengalesi. «Io non posso accompagnarla
perché sto andando direttamente a Calcutta, ma non mi piace l’idea che vada
da sola a Benares. Può farle compagnia lei, aiutandola con i risciò e gli
inservienti? Le sto chiedendo troppo?».

8 ottobre

Quando arriviamo, la mia compagna di viaggio mi presenta al responsabile
dell’ashram e chiede per me, come se fosse una cosa scontata, una
sistemazione nell’ashram. Metto il mio bagaglio in un angolo e osservo la
folla di discepoli che si trova nel cortile. Alcuni siedono a terra, cantano
kirtan [canti devozionali] e suonano tamburi, cembali e armonium.
Improvvisamente, si alzano e formano un cerchio continuando a cantare.

È allora che vedo Ma, tutta vestita di bianco, seduta su una specie di
palco. La folla preme e le persone si urtano tra loro. Riesco a vedere Ma
dietro alle teste che danzano avanti e indietro di fronte ai miei occhi.
Ogni visione di lei è come un bagliore che mi trapassa il cuore, un lampo di
felicità, di una beatitudine che riconosco essere la parte intima e più
profonda di me stesso. Ho sperimentato questa sensazione due o tre volte
mentre meditavo, ma ora la sua intensità mi trasporta in cielo. Mi sento
perfettamente me stesso e felice. Ma è l’incarnazione della mia parte più
vera e profonda. L’identificazione tra Ma e me stesso è completa. Lei è
presente in me, non diversa da me. Questa convinzione si impone con la
chiarezza dell’ovvietà: «Sì, sono arrivato. Ho trovato quello che stavo
cercando». Tuttavia, non c’è eccitazione. Mi sento calmo e libero. Sereno.

9 ottobre

Mataji sta seduta vicino al tempio dove si celebra un puja [cerimonia
religiosa]. Sono in piedi nel mezzo del cortile, tra la folla. Quando la
celebrazione è finita, Mataji va a sedersi su un letto di legno che le
giovani donne dell’ashram hanno rivestito di coperte, splendide stoffe di
raso e cuscini. I discepoli che le si avvicinano le offrono fiori e regali,
inchinandosi. Mataji distribuisce cibo benedetto, prasad: dolci e frutta.

Mi sento ancora trasportato dall’esperienza di ieri: una specie di euforia
nella quale tutto sembra galleggiare in un’armonia generale, nonostante la
presenza della folla eccitata che si accalca per avvicinarsi di più a
Mataji. Da parte mia, sono totalmente calmo e immerso in una gioia profonda
che mi lascia in uno stato di soddisfazione totale. Sono felice e non
desidero niente.

Poi, una giovane donna viene a riferirmi che Mataji mi ha visto nella folla
e vuole parlarmi. Sono molto sorpreso, ma piacevolmente lusingato, non
capendo come abbia potuto scorgermi in mezzo a tale calca.

Mataji è in un angolo del cortile, seduta sulla balaustra di pietra di una
piccola scala. Salgo di un passo e mi inchino, appoggiandomi a un ginocchio.
Mi sento goffo in quella posizione, così mi metto di nuovo in piedi di
fronte a lei, che mi fissa attentamente. Mi chiede da dove vengo e se ho
domande da farle. Rispondo di no. «Bene», replica lei, guardando da un’altra
parte con indifferenza. Mi dà una mezza banana come prasad. La prendo e vado
via dopo essermi di nuovo inchinato, le mani sul petto che stringono la
banana scivolosa.

Ho visto Mataji più volte, e a ogni occasione sperimento di nuovo questo
flusso di gioia che attraversa tutte le fibre del mio corpo.

Mi guardo intorno e rispondo alle domande con cui i discepoli mi assalgono.
Uno di loro mi dice: «Come? Hai rifiutato un incontro con Mataji! Anche se
non hai domande da farle, avresti dovuto cogliere l’opportunità della sua
offerta. Essere soli con lei e ricevere la sua darshan [udienza personale] è
importantissimo». Seguo il suo suggerimento, preparo un elenco di domande e
chiedo un colloquio.

10 ottobre

Una giovane brahmacharini [studentessa celibe di sesso femminile], all’incirca
alle 11:00 di mattina, mi conduce in una lontana camera da letto, dove vive
la famiglia di un devoto. Là verranno a prendermi per l’incontro con Mataji.
Aspetto invano quasi due ore. Mataji verrà a vedermi più tardi. Calata la
notte, alle 8:45 di sera, durante il quarto d’ora di silenzio praticato
nell’ashram e da molti devoti a casa, mi ritrovo in un piccolo cortile
dell’ashram, seduto quasi di fronte a Mataji. È a quel punto che ho
un’esperienza particolarmente potente. Sto nella posizione della
meditazione, che mi viene con grande facilità. Io sono la Pace, la Gioia, la
Quiete, la Realtà Vivente. Esplode un’accecante luce bianca. Mataji e io
siamo una cosa sola. Mataji è l’incarnazione stessa di questa Pace, Gioia e
Quiete. Non c’è differenza tra Mataji e quello che io sono veramente.

Alle 10:00 di sera qualcuno mi porta nella camera da letto di Mataji. A
chiunque altro è richiesto di andarsene; anche a Didima, la sua anziana
madre, e alla giovane brahmacharini. Persino le porte e le finestre vengono
chiuse, nonostante le proteste dei discepoli avvinghiati alle sbarre delle
finestre per riuscire a vederla.

Mi trovo seduto sul tappeto della camera da letto, solo con Mataji e
Ganguly, la traduttrice. Mataji siede sul letto di fronte a noi e mi guarda
sorridendo. Ganguly mi chiede di cantare il kirtan che ho imparato
nell’ashram di Sivananda. Questo fa ridere molto Mataji: mi sento come un
bambino che recita di fronte a mamma e papà una poesia imparata a scuola, un
ragazzino che si sente apprezzato, ammirato e amato per quello che sta
facendo e per ciò che è.

Tutta l’intervista avviene in una gioia profonda. Né le domande né le
risposte sono importanti. Quella che è importante è la gioia sempre nuova e
più grande a ogni secondo del nostro incontro. Le domande e le risposte sono
solo pretesti, una formalità che permette a questa gioia di accadere.

Alla fine dell’intervista, Mataji mi offre una ghirlanda. Quando lascio la
sua camera da letto, la maggior parte dell’ashram sta dormendo e le luci
sono spente. Non c’è luce nella camera da letto vicino alla mia e posso
sentire i miei vicini che russano. Nell’oscurità, entro strisciando dentro
il mio sacco a pelo: il mio cuore è colmo di gioia.

18 ottobre

Sono dieci giorni che sperimento costantemente una gioia profonda. Essa
continuerà lontano da Mataji? Voglio assimilare quello che ho ricevuto e
verificarne la forza.

[Daniel passa diverse settimane in viaggio per l’India, visitando altri
insegnanti.]

9 novembre

Ritorno all’ashram. Siedo nella tenda, nel posto che mi è riservato, dove ho
lasciato un piccolo tappeto di canne. Ma mi vede e chiede a Citra, la
giovane donna che si prende cura di lei, di dirmi di aspettarla nella sua
camera da letto al primo piano. Aspetto quasi un’ora. Quando Ma arriva, non
è più una vecchia donna stanca né una sessantenne dallo sguardo profondo e
circondata da un’aura di luce. Il suo volto diventa luminoso e molto più
giovane; improvvisamente sembra una venticinquenne. Parla e scoppia e ridere
in continuazione.

14 marzo 1960

Alcune persone sono venute a informarmi che Mataji, stasera, mi concederà un
colloquio. Quando arrivo nella sua camera da letto, Ma ordina a ognuno di
uscire dalla stanza, chiudendo tutte le porte e le finestre. Sono
impressionato da tutti questi preparativi.

Ma: «Parla.».

«Prima le ho raccontato di mia madre e mio padre. Desidero che lei sappia
che mio padre l’ama molto e tiene sempre il suo ritratto con lui.»

Ma ride e non dice niente.

«Presto dovrò ritornare in Francia per prestare servizio militare.»

Silenzio. Poi: «Qual è il tuo nome?».

«Daniel.»

«Ti darò un nuovo nome: Dhyanananda [colui che trova la gioia nella
meditazione]. Ti piace?»

«Sì.»

«Rimani in contatto e scrivi se hai delle difficoltà. Vuoi qualcos’ altro?»

«Per favore, mi dia una pratica spirituale.»

«Achaa! Cosa stai praticando?»

«Faccio meditazione, hatha yoga e un poco di pranayama [esercizi di
respirazione]. Dovrei fare del japa [ripetizione di un nome di Dio]?»

«Vuoi farne?»

«Sta a Ma decidere.»

Si avvicina a Kamalda e, seguendo il rituale tradizionale di iniziazione,
ripete tre volte nel suo orecchio, a bassa voce, un mantra. Kamalda lo
ripete a bassa voce nel mio, allo stesso modo. Poi Ma mi dà un mala [rosario
indù] da lei benedetto, chiedendo a Kamalda di istruirmi su come usarlo.
L’intervista è finita e mi inchino. Lei mi benedice, mettendomi le mani
sulla testa.

Kamalda è molto sorpresa dall’interesse mostrato da Ma nei miei confronti.
Dice: «È la prima volta, per quel che ne so, che ha dato queste istruzioni,
un mantra e un mala a uno straniero».

Tra qualche giorno mi imbarcherò a Bombay e ritornerò in Francia

[Nei successivi tre anni, Daniel vive in Europa e negli Stati Uniti,
visitando annualmente l’ashram.]

New York, novembre 1962

Ho appena scritto a Ma per chiederle il permesso di praticare la mia sadhana
[disciplina spirituale] con lei come monaco novizio. Mia madre ha appena
ricevuto una pensione dal governo che le permetterà di essere
finanziariamente indipendente. Perciò, sono libero da doveri e impegni e
posso realizzare il mio antico sogno di diventare un “monaco del Tibet”.
Subito dopo aver fatto la domanda per un visto prolungato, arriva la
risposta da Ma: “Quando la meta è conoscere se stessi e realizzare la nostra
vera natura, il dovere di un essere umano è immergersi nello sforzo,
praticare la meditazione e recitare il japa”.

Non ricevo nessuna risposta alla mia domanda di visto. Più tardi scoprirò
che la polizia aveva chiesto informazioni ai responsabili dell’ashram e che
questi ultimi avevano finto di non conoscermi. Avevano risposto: «Chi può
conoscere davvero questi stranieri? E se fossero spie?».

Decido di andare, senza aspettare ulteriormente. Faccio domanda per un visto
turistico di tre mesi che l’Ambasciata indiana mi darà a Karachi, dove
transiterò prima di imbarcarmi per Bombay.

India, gennaio 1963

Ma chiede a Citra perché sono venuto.

«Si è licenziato dal lavoro per venire a vivere qui», risponde lei.

«Cosa?», replica Ma; «Ma io non gli ho mai detto di farlo!».

Citra mi ripete queste parole e cado a pezzi. Sento che per Ma sono un
estraneo totale; inoltre, penso di essere completamente incompreso e vittima
dell’illusione che Ma sapesse tutto, capisse tutto e fosse interessata a me.
Sono venuto a trovarla per offrirle il mio cuore e la mia vita con la sua
approvazione, ma lei finge di non sapere niente, come se avessi preso
l’iniziativa senza chiedere il suo consenso.

Durante la darshan, mentre mi guarda, Ma chiede a qualcuno di dirmi che alla
sera mi concederà un colloquio.

La mia mente è totalmente vuota e ho soltanto una domanda da farle: «Ma, mi
permetterai di rimanere con te all’ashram?».

«Puoi restare, ma non per sempre. Non puoi seguirmi dappertutto. Sei
d’accordo?»

Mi sento sollevato e rispondo: «Sì, Ma».

«Capisci? Sei d’accordo che non rimarrai con me per sempre?»

«Sì. Ma gradirei stare con te per un po’ di tempo.»

«Achaa!» Poi mi rivolge una serie di domande: «Come stai? Cosa stai
mangiando? Dove? Dove stai dormendo? Hai un letto? Altri mobili?».

Al momento non ho domande da farle. Non sono pronto e non desidero forzarmi.
Lei continua: «Per Mataji, non ci sono stranieri. Capisci? Le persone sono
tutte uguali, eka-atma. Esiste un unico Sé». Ripete queste parole una
seconda volta, sorridendomi.

Kanpur, 16 febbraio

Da molte settimane Mataji sembra non prestarmi attenzione. A Jodhpur, dove
le condizioni del mio soggiorno erano particolarmente difficili, mi sentivo
agitato e depresso. Qualche volta mi sento oppresso da un’ansia sottile,
altre volte sento di nuovo la pace in sua presenza. La sensazione di
beatitudine, però, è scomparsa. Ieri mi sono lasciato andare a un’accettazione
totale: «Ma è il mio guru. Mi arrendo alla sua volontà. Tutto quello che lei
sta facendo è la cosa migliore per me».

Hardwar, 19 febbraio

Interrogo alcuni discepoli su alcune cose dell’ashram che mi lasciano
perplesso:

«Perché i ricchi e i potenti vengono preferiti? Perché ricevono un
trattamento privilegiato?».

I discepoli rispondono: «Ma non è venuta qui per cambiare il mondo. Tratta
le persone secondo il loro rango sociale, in armonia con le norme della
società. Non farebbe mai aspettare un ministro. Per quest’ultimo, il tempo è
troppo prezioso; inoltre, molte cose dipendono da queste persone.
L’amministrazione può creare difficoltà all’ashram, ostacolando le donazioni
o imponendo questa o quell’altra tassa. È meglio averli dalla nostra parte.
Ma agisce per il bene dell’ashram e dei suoi membri. E lei ha le sue
ragioni; conosce il cuore delle persone. Sa quello che fa e perché lo sta
facendo».

«E che dire dei poveri contadini analfabeti che corrono a vederla? Perché
vengono rimandati indietro così rudemente?»

«Sono ignoranti. Non vengono qui per la ricerca spirituale, ma per avere
vantaggi materiali. Se li lasciassimo entrare, la calca calpesterebbe Ma.
Dobbiamo contenere la folla per proteggere Ma.»

«E la divisione in caste? Perché è rispettata così scrupolosamente?»

«Se la divisione in caste non è rispettata, chi la segue non può venire da
Ma, mentre chi non la segue può venire ugualmente. Ma non è venuta per
abolire, ma per perfezionare. Lei è qui per preservare, incoraggiare,
sostenere la tradizione. Il Bengala Orientale, da dove proviene Ma, è l’area
più tradizionale dell’India: lì le regole sono applicate con la massima
severità. Ma stessa, però, è oltre ogni regola. Guarda: ti dà il benvenuto,
ti parla, ti tocca. Al contrario, sua madre – poveretta! – se uno straniero
la sfiora, si ritrae, temendo di venire contaminata da questo contatto.»

«Ma non è facile per un straniero sopportare di esser trattato come un
fuoricasta.»

«Dobbiamo applicare le regole. Se gli stranieri non capiscono, devono vivere
fuori dall’ashram e venire solamente durante la darshan. Tuttavia, per
quanto riguarda Ma, non ci sono stranieri. Per Ma, tutto è Coscienza
Universale che agisce tramite di lei.»

«Però, Ma ha un affetto particolare per le persone che conosce meglio,
soprattutto per chi proviene dal Bengala, e ancora di più per i bengalesi
orientali. E perché la salute di coloro che la circondano si è così
aggravata?»

«E allora? Seguirla non è facile. È una sfida continua, dove non c’è spazio
per le questioni personali. Questa è la ragione per cui nessuno può
realmente seguire Ma. Dopo un po’, lei dice alle persone di stabilirsi in un
luogo o in un altro, facendo la loro sadhana e smettendo di seguirla.»

5 marzo

Le persone intorno a lei sono tese, contratte e quasi tutte malate. C’è un’enorme
differenza tra loro e chi viene da fuori. Questi ultimi, molto spesso, sono
pieni di vita, e certamente lo sono più di coloro che vivono all’ashram.

4 aprile

Non faccio nessuna domanda a Mataji. Medito e le sto accanto in silenzio.
Una risposta dal silenzio è la cosa più potente che possa ricevere.

3 maggio

Sto provando disincanto verso l’ashram e i suoi membri; inoltre, provo una
sorda irritazione nei confronti di Mataji. La deferenza eccessiva concessa
alle persone ricche e importanti, unita all’evidente disprezzo verso i
poveri, è qualcosa di insopportabile.

Sono abbastanza stufo della sua grazia e di tutti i suoi impareggiabili
sorrisi, che sembrano quasi automatici. Sono irritato dal suo movimento all’indietro
quando le persone vogliono toccarle i piedi, dal disgusto con cui si copre
il naso e la bocca quando qualcuno le parla da troppo vicino, dalla continua
indifferenza verso i poveri, dai sorrisi gentili riservati ai ricchi e dal
posto privilegiato loro concesso al suo fianco. Per questi ultimi, le porte
della sua camera da letto sembrano sempre aperte. Se mi fossi accorto prima
di tutto quello che stava succedendo qui, di certo non sarei rimasto né
sarei ritornato. Ma anche ora che lo vedo, rimango!

17 maggio

La mia opinione su Ma è cambiata in modo simile al mio atteggiamento verso
l’ashram. Prima assumevo un atteggiamento indifferente e distaccato verso
l’ashram, cercando di avere a che fare il meno possibile con la sua gente.
Ora, allo stesso modo (cosa molto importante) è cambiata la mia relazione
con Mataji.
Sento amore, rispetto e devozione enormi verso di lei; la sua presenza è
fonte di ispirazione per me. Ma lei afferma di non essere un guru. Ho
scoperto che sembra diffondere gli ideali tradizionali dell’induismo, che
secondo me non hanno alcun rapporto con la spiritualità autentica.
Essenzialmente, il suo insegnamento è fatto di comandi semplicistici del
tipo: “Conduci una vita pura e piena di moralità”.

Sembra che sto descrivendo un quadro completamente negativo. L’aspetto
positivo è rappresentato dall’ispirazione, la mente quieta e il senso di
spontaneità e armonia che sperimento in sua presenza. E questa è
l’espressione della parte più profonda e autentica in me.

[Daniel si ammala gravemente per molte settimane e Mataji gli consiglia di
ritornare in Francia per curarsi.]

Francia, estate, 1963

Dopo essere ritornato in Francia, mi sono stabilito a Oppedette, un piccolo
paese provenzale. Il mio obiettivo è triplice: migliorare fisicamente,
praticare la sadhana e tentare di capire quello che mi è accaduto negli
ultimi mesi, ovvero esaminare la contraddizione interna che sto
sperimentando.

E se Ma fosse una strega che attira e seduce, prendendoti nella sua rete e
mangiandoti? «Sì», risponderebbero gli altri; «Lei è la madre Kali che
distrugge il tuo ego». Ma non solo l’ego; mi sta distruggendo il corpo e la
salute. Lei può farmi del bene danneggiandomi? È vero che sto soffrendo; ma
questa sofferenza mi fa bene? Cosa ne ottengo di buono?

E che dire delle altre persone che vivono nell’ashram? Le vedo infelici,
zoppicanti dopo venti, trenta anni alla continua presenza di Ma. E in cambio
niente! Seguivano un cammino spirituale? La loro vita sembra senza
significato. Non vivevano, non progredivano in alcun modo. Sono caduti in
una trappola: una passione esclusiva che li ha divorati.

No! Ma non è una strega! E se anche fosse, cosa potrebbe significare questo?
Forse che lei agisce per il male di coloro che attira? No, le sue intenzioni
non sono cattive. Deve essere la sua ignoranza a portarli verso la
distruzione. Ma questa ignoranza può essere compatibile con la Coscienza
Universale che tutto sa e può?
Come mi permetto di parlare di ignoranza? Lei sa; sono io a essere
ignorante.

Sì, sono ignorante, ma ho scoperto dei fatti.

Sì, dei fatti, ma li interpreto.

E sono disposto a interpretarli in un altro modo se qualcuno è in grado di
darmi un sia pur minimo indizio di qualcosa di diverso. Invece scopro
soltanto che tutto comincia come il racconto di una fata e finisce come la
storia di una strega. Cosa è successo? Le promesse non sono state mantenute.
Dopo il bagliore iniziale, c’è stato un cambiamento, uno spostamento, e il
bagliore si è trasformato in oscurità e sofferenza. Abbagliato, non ho visto
ciò che è sempre esistito, perché tutto sembrava bello e meraviglioso.

Mi sono dato incondizionatamente; ho raggiunto i miei limiti. Tuttavia, non
ha funzionato. Perché? A causa mia? C’era qualcosa che avrei dovuto fare e
non ho fatto? O semplicemente accanto a Ma Anandamayi non c’è spazio per gli
occidentali, e nemmeno per i non bengalesi?

Il povero gruppo di stranieri che ha vissuto in India vicino a lei non è un
esempio di grande successo. Sono persone dall’aria smarrita e abbattuta,
tutte prese dalle loro ferite e dalle loro piccole miserie. I loro cuori
sono stati rapiti da una passione, l’attrazione nei confronti di Ma, e
questa passione li ha rovinati.
La gente dice che non possiamo giudicare. Forse, nel segreto del cuore di
queste persone, sta accadendo qualcosa che non vediamo; può essere che io
stia giudicando in base a false apparenze. Forse, all’improvviso si
illumineranno tutti.

Ma via! Vedo soltanto esseri umani infelici, che non sono certo illuminati.

Lasciare Ma mi ha salvato la vita.

Il lavoro di discriminazione è finito. La contraddizione è risolta. Sono
riuscito a separare l’insegnamento di Anandamayi Ma dalla riverenza e dalla
meraviglia che avevo sperimentato alla sua vibrante presenza. E grazie a
questa discriminazione, ho aperto la porta della trappola che mi aveva
imprigionato. Oggi so che il mio percorso è un altro.

—————————

Sri Anandamayi Ma. ‘Vita e insegnamento della Madre Permeata di Gioia’.
Vidyananda. 1992. www.edizioniasramvidya.it

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