Mettersi dalla parte dell’altro

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Mettersi dalla parte dell’altro

TRASCRIZIONE DELL’INTRODUZIONE DEL SEMINARIO SVOLTO DA MARCO FERRINI
A SILEA NEL FEBBRAIO 2013 DAL TITOLO: LA FUNZIONE EVOLUTIVA DEL DOLORE

La qualità della vita è fondata sulla qualità delle relazioni che riusciamo a sviluppare. Accumulare
tesori enormi, diamanti in fabbriche o seggi politici non ha a che vedere con il nostro vero
benessere. Il peggior modo in cui si possa vivere è intrattenere relazioni di poca qualità, ovvero
con persone che stanno con noi strumentalmente, che ci sono solo per fare una comparsa, ma che con
il cuore sono altrove, persone distanti con le quali per parlare devi alzare la voce. Le relazioni
hanno un’importanza fondamentale per colei o colui che opera come counselor, infatti novantanove
persone su cento che bussano alla porta di un counselor hanno problemi relazionali.

I problemi veri non sono generati dalle “cose”, ma dalle persone e nella stragrande maggioranza dei
casi la persona che sente il problema, che lo nota, che lo soffre, non è mai esente dalla causa del
problema stesso. Il soggetto che si rivolge al counselor può essere vittima, può essere preda di
un’altra persona, può essere causa inconsapevole della malevolenza di altri, quindi è necessario
studiare bene tutti questi aspetti perché per sollevare una persona dalle pene non si può procedere
a “pacche sulle spalle”, non funziona. E’ quindi necessario avere un altro approccio, un approccio
di conoscenza empatica.

La conoscenza del problema, la capacità di indagine e di diagnosi, ovvero la capacità di rendersi
conto di che cosa soffre lil cliente e quali sono le cause che recano disagio è indispensabile, ma
non è sufficiente. Le persone che sanno tutto ma che non sono disponibili verso coloro che si
rivolgono loro non servono a nulla perché significa che queste persone non hanno compreso bene la
ragione del dolore, la causa della sofferenza e come una persona può essere sollevata dal disagio di
cui è portatrice. Occorre imparare ad aprire il cuore, che è assieme scienza e arte; infatti nel
counseling non è tutto così deduttivo e logico-razionale, pertanto non può venire a mancare la
componente fondamentale, che è quella del cuore, la componente del sentimento. Conoscenza e sentire.

La conoscenza è la parte che attiene all’emisfero cerebrale sinistro, alla parte logica e razionale,
alla parte elaboratrice sul piano induttivo-deduttivo e il sentire è l’altra parte, la componente
femminile spirituale che è in ciascuno di noi e che opera sull’intuito, sul cogliere il senso del
sentimento da cui il sentire che ne deriva. Un presupposto è quello di mettersi in gioco e mettersi
in gioco non significa sopraffare l’altro, non significa ingombrare la visione dell’altro, ma
significa accompagnarlo in maniera dinamica e creativa, non semplicemente ripetendo una lezione che
abbiamo imparato a memoria. Tale atteggiamento non è di alcuna utilità per il counselor, perché in
questo modo non svilupperà quella relazione vera e autentica che serve come fondamento per
rapportarsi al cliente, ma soprattutto non è di alcuna utilità al cliente stesso.

Il cliente riceve sicuramente una brutta impressione quando si rende conto che la persona a cui si è
rivolto sta recitando una parte e non può essere affascinato, attratto o almeno incoraggiato a
guardare meglio alla propria vita e a osservare con più attenzione che cosa gli sta accadendo, se di
fronte ha una persona che recita un copione, una persona che è sì brava, magari anche ineccepibile
nella sua recita, ma che in sostanza è un manichino. Questo vale per ogni consulente che deve
entrare in rapporto con il cliente in materia di relazioni. Esiste una tecnica per entrare subito
in empatia con la persona che abbiamo di fronte ed è una tecnica che una volta acquisita e
sperimentata poi diventa una modalità, perché questo è quello che accade a tutto ciò che applichiamo
con l’interesse di svilupparne una sempre maggiore capacità percettiva e facendo molta attenzione
alle conseguenze. La tecnica consiste nel mettersi al posto dell’altro, nel calarsi nella parte del
nostro interlocutore con l’unica raccomandazione di non dimenticare chi siamo e quale ruolo abbiamo.
Si tratta di stare attenti al portato di quello che stiamo facendo, di stare attenti alle reazioni
dell’altro e quindi di cominciare a sentire con la percezione del soggetto di cui ci stiamo
prendendo cura.

Che sia un amico o una persona mai vista, che sia della nostra stessa etnia o appartenga al nostro
stesso ceto sociale, che sia una persona in uno stato affranto, una persona abbandonata o tradita,
una persona che ha commesso un errore ai suoi occhi irreparabile o che abbia scoperto di avere una
gravissima malattia, si tratta in ogni caso di mettersi al posto dell’altro. Mettersi al posto
dell’altro è tutt’altro che facile, perché quando egli è una persona simpatica, famosa o magari
invidiabile, può essere facilissimo, ma quando l’altro è una persona chiaramente in difficoltà, in
uno stato confusionale e di collera intenso,in cui si percepisce come una persona spregevole, può
risultare assai faticoso questo esercizio di mettersi al suo posto.

Se non applichiamo questa tecnica ci resterà molto difficile capire cosa l’altro vive e quindi sarà
anche difficoltoso poterlo aiutare. Noi temiamo la sofferenza, la evitiamo accuratamente, perché
abbiamo paura del dolore, da una puntura di spillo ad una coltellata, da una leggera emicrania ad
una penosa nevralgia, temiamo il dolore e quindi ci pare faticoso entrare nei panni di una persona
addolorata. Coloro che scelgono di fare la professione del counselor, ma anche chi dovesse fare un
corso per entrare veramente dentro a certe dinamiche e padroneggiarle completamente, sappia che si
tratta degli anni della propria vita che meglio ha speso per poter evolvere e diventare una persona
migliore.

Non si ponga quindi il limite di quanto tempo ci impiegherà, perché ognuno di noi proviene da vite e
da esperienze diverse ed è caratterizzato da tendenze diversificate: il nostro guna e il nostro
karma è differente, per cui nessun altro può essere un modello che rispecchia in maniera identica il
nostro. Non facciamoci un’idea rigida di questo percorso, affrontiamolo con la giusta attitudine
diventando capaci di aiutare le persone, di metterle a loro agio e di far loro comprendere che il
problema può essere risolto e che ciò di cui soffrono richiede quasi sempre soltanto un cambio di
prospettiva.

da www.csbcounseling.org/

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