di J.K.Zinn
L’autentico valore di un essere umano è determinato anzitutto dalla misura
e dal modo in cui si è liberato dal sé.” ALBERT EINSTEIN
(ndr. spesso quando si parla di “sé” si intende l’ego, il sé inferiore)
« Io », « me » e « mio » sono prodotti del nostro pensiero. Il mio amico
Larry Rosenberg del Cambridge Insight Meditation Center ha definito selfing
(autocostruzione del sé) l’inevitabile e incorreggibile tendenza a
configurare da qualsiasi cosa o situazione un « io », «me» o «mio», agendo
poi in base a quella prospettiva limitata, prevalentemente frutto di
fantasia e autodifesa. Questo avviene praticamente in ogni istante, ma è
una connotazione talmente intessuta nella nostra società che passa
inosservata, come nel caso proverbiale del pesce che non conosceva l’acqua
essendovi totalmente immerso. Lo potete notare voi stessi assai facilmente
sia che meditiate in silenzio, sia vivendo un segmento di cinque minuti
della vostra vita. Quasi in ogni momento o esperienza la nostra mente
pensante costruisce il «mio» momento, la «mia» esperienza, il «mio»
bambino, la «mia» fame, il «mio» desiderio, la «mia» opinione, il «mio»
modo, la «mia» autorità, il «mio» futuro, la «mia» conoscenza, il «mio»
corpo, la «mia» mente, la «mia» casa, il «mio» paese, la «mia» idea, i
«miei» sentimenti, la «mia» macchina, il « mio » problema.
Osservando questo processo con attenzione e spirito d’indagine costanti
vedrete che ciò che chiamiamo « il sé» è in verità una costruzione della
nostra mente e nemmeno permanente. Se ricercate in profondità un’essenza
individuale stabile e indivisibile, quel «voi» che sottostà alla «vostra»
esperienza, non è probabile che la troviate se non in ulteriori pensieri.
Potreste dire di essere il vostro nome, ma non sarebbe esatto; il nome non
è che un’etichetta. Altrettanto vale per l’età, il genere, le opinioni e
così via. Nulla di tutto ciò è fondamentale ai fini della vostra identità.
Quando indagate in questo modo seguendo il più profondamente possibile il
filo conduttore che porta a chi o cosa voi siete, vi e la quasi certezza di
trovare che non esiste un terreno solido su cui procedere. Se vi chiedete:
«Chi è quell’io che chiede chi sono io?», alla fine non rimane che dire: «
Non so ». « Io » si presenta come una mera convenzione, riconoscibile
grazie ai suoi attributi, nessuno dei quali, preso singolarmente o
collettivamente, è rappresentativo della persona nella sua interezza.
Inoltre, questo «io» ha la tendenza a dissolversi e a ricomporsi
continuamente, virtualmente un momento dopo l’altro. Ha anche una forte
inclinazione a sentirsi sminuito, piccolo, insicuro e incerto, proprio per
la precarietà della sua esistenza. Questo non fa che peggiorare la tirannia
e la sofferenza associate all’inconsapevolezza di quanto siamo intrappolati
nell’« lo », « me » e « mio ».
Poi vi è il problema delle forze esterne. L’«Io» tende a sentirsi
soddisfatto quando le circostanze esterne corroborano la buona opinione che
ha di sé, e a entrare in crisi quando invece deve affrontare critiche,
difficoltà e presunti ostacoli o sconfitte. Qui sta forse la spiegazione
più attendibile per la scarsa autoconsiderazione di molte persone. In
realtà questo aspetto fittizio del nostro processo d’identità non ci è
molto familiare ed è quindi facile che perdiamo l’equilibrio e ci sentiamo
vulnerabili e trascurabili quando non troviamo sostegno e supporto alle
nostre esigenze di approvazione e di sentirci importanti. È quindi assai
probabile che si continui a cercare stabilità interiore ricorrendo a
compensazioni esterne, al possesso materiale e alle persone da cui ci si
sente amati. In questo modo manteniamo in funzione la nostra
autocostruzione. Eppure, malgrado tutta questa attività autogena,
potrebbero non esservi ancora durevole stabilità interiore e tranquillità
mentale. I buddisti direbbero che questo avviene perché innanzitutto non
esiste un «sé» assolutamente separato, ma solo il processo perenne di
autocostruzione. Forse saremmo molto più felici e calmi se riconoscessimo
questo processo come abitudine inveterata concedendoci poi una sosta,
smettendo di adoperarci con tanta ostinazione per essere «qualcuno» e
accontentandoci di sperimentare l’essere.
Questo fra l’altro non vuol dire che si debba «essere qualcuno» rima di
diventare «nessuno»; questa è una delle vistose distorsioni .ella pratica
meditativa nella Nuova Era, con la quale si sostiene -he sia necessario
possedere un robusto senso della propria personalità prima di esplorare la
terra di nessuno in cui il «sé» non esiste. L’assenza del sé non significa
essere nessuno, bensì che tutto è interdipendente e non esiste un « voi »
isolato e autonomo. Voi siete voi solo relativamente a tutte le altre forze
e avvenimenti del mondo – compresi i vostri genitori, l’infanzia, i
pensieri e i sentimenti, gli eventi esterni, il tempo e cosi via. Inoltre,
siete già qualcuno indipendentemente da tutto. Siete ciò che siete già, ma
con questo non devono intendersi il vostro nome, l’età, l’infanzia, le
opinioni, le paure. Queste sono solo componenti, non l’essere completo.
Così, quando parliamo di non tentare con tanto accanimento di essere
«qualcuno» e di provare invece a essere, direttamente, intendiamo dire che
si deve partire da dove ci si trova e lavorare da qui. Meditazione non
significa spersonalizzarsi, diventare uno zombie contemplativo, incapace di
vivere nel mondo reale e di affrontare problemi reali, bensì vedere le cose
come sono, non distorte dai nostri processi mentali; parte di questo è
rendersi conto che tutto è correlato e che sebbene il nostro senso
convenzionale del «sé» possa essere d’aiuto in molti modi, non è
assolutamente reale o concreto o permanente. Così, se smetterete di cercare
di apparire migliori di quanto siate, per timore di essere inferiori al
vostro autentico valore, la vostra personalità reale sarà più spensierata e
felice, oltre che più sopportabile per gli altri.
Potremmo iniziare con l’assumere una posizione più distaccata verso gli
avvenimenti, valutando l’accaduto in sé, senza connotazioni personali,
tanto per provare. Forse si tratta di una coincidenza, non vi è stata
intenzionalità nei vostri confronti. Notate le vostre reazioni in quei
momenti. Continuate a pensare in funzione dell’«Io» e del «me»? Chiedetevi
invece: «Chi sono io?» oppure «Cos’è questo ‘Io’ che accampa pretese di
proprietà?»
La consapevolezza stessa può aiutare a recuperare l’equilibrio e a ridurre
l’impatto dell’autocostruzione del sé. Notate anche quanto questa sia
illusoria. Le cose a cui vi attaccate perché vi riguardano personalmente vi
eludono, perchè cambiano ci si svalutano costantemente, si formano
nuovamente, sempre con lievi differenze a seconda delle circostanze. Questo
è il il senso dell’autoidentificazione definita «strana attrazioni» nella
teoria del caos, uno schema che configura ordine, ma è anche
imprevedibilmente disordinato. Non si ripete mai e quando lo esaminate è
leggermente diverso.
La natura sfuggente di uni personalità pur concreta, permanente e
inmutabile è un aspetto che dà adito a speranze. Significa che potete
smettere di prendervi eccessivamente sul serio ed evitare pressioni
indotte dalla pretesa che tutto ciò che riguarda voi personalmente sia
determinante ai fini del funzionamento dell’universo. Prendendone atto e
accantonando gli impulsi egocentrici concediamo all’universo una certa
libertà d’azione. La nostra partecipazione intrinseca all’andamento
dell’universo creerà necessariamente in noi un certo distacco rispetto alle
nostre attività esageratamente egocentriche» narcisistiche, autocritiche,
insicure e ansiose, e ridimensionerà il nostro modo di percepire come
totalmente reale il mondo immaginario) costruito dai nostri pensieri.
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