Musica animale

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Musica animale

Leoni marini che ballano, carpe che distinguono tra Bach e Stravinsky, scimpanzè che seguono il ritmo: è la biomusicologia, che studia la musicalità nelle altre specie per comprendere la nostra

di Eleonora Degano

28 febbraio 2015

Se addestrata nel modo giusto, una carpa può imparare a distinguere tra musica blues e musica classica. Allo stesso modo un piccione riuscirà a capire se un brano è di Bach, oppure di Stravinsky. Ma cosa se ne fanno di queste competenze? Siamo noi umani che gliele abbiamo trasmesse o sono capacità che già hanno, ma utilizzano per altri scopi?

Sono solo due delle domande che si pone la biomusicologia, una disciplina piuttosto giovane che, studiando gli animali, ricerca le basi biologiche della musicalità negli esseri umani. Una recente pubblicazione su Philosophical Transactions B ha fatto il punto sullo stato dell’arte di questi studi, perché percepire e apprezzare la musica non è una nostra prerogativa: appartiene anche a specie che fatichiamo a immaginare intente a godersi la Sagra della primavera, mentre sguazzano o frullano le ali.

“Gli esperimenti non hanno avuto successo perché gli animali ‘riconoscono’ i generi musicali come lo intendiamo noi, certo. Ma perché hanno fatto una classificazione e stabilito che dei brani appartengono alla stessa categoria”, spiega Cinzia Chiandetti, ricercatrice e professoressa di psicologia animale e comparata all’Università di Trieste. “Ci riescono dopo un addestramento, che prevede una ricompensa alimentare quando scelgono in un certo modo: un boccone per lo stimolo A, nessuno per il B. Poi si va a vedere come si comportano in una situazione nuova, in cui devono decidere tra due brani dello stesso genere di quelli ascoltati prima, ma un po’ diversi”.

Imitazione e ritmo, animali musicali

Due delle modalità più interessanti per indagare la musicalità negli animali sono l’addestramento vocale (saper imitare un suono) e la sincronizzazione a un ritmo: solo alcune specie sanno ripetere delle sequenze di suoni o “ballare” a ritmo, e un tempo si pensava che le due capacità fossero legate. Fino a quando gli scienziati hanno osservato dei leoni marini -incapaci di imitare vocalmente- imparare a muovere la testa seguendo la musica. E quando hanno visto degli scimpanzé fare rhytmical tapping, ovvero premere i tasti di una tastiera a ritmo con un suono esterno.

L’aspetto interessante dell’addestramento vocale sugli animali è che se sai imitare una frase con la voce vuol dire che l’hai codificata, la ricordi e sai riprodurla in base a una serie di parametri. Come l’altezza, il tempo, la durata, la sequenza e il ritmo. O anche il timbro, che per gli esseri umani è fondamentale – ci permette non solo di riconoscere centinaia di voci, ma di capire lo stato emotivo della persona che ci parla, o se questa persona ha il raffreddore e via dicendo – e che sembra gli uccelli sappiano padroneggiare anche meglio di noi.

Un elemento che ancora sfugge è come sia possibile astrarre certe performance: se un leone marino può imparare a muoversi a ritmo certo non è una capacità evidente ma potenziale, che di solito usa ad altri scopi. Ma quali? Le evidenze rimangono per ora spesso aneddotiche, ad esempio primati che “dialogano” con i primatologi, sincronizzando il tamburellare delle mani sui ceppi o agitando le fronde degli alberi al ritmo prodotto da altri della loro specie o che comunque appartengono al gruppo. Come anche i ricercatori.

La domanda che incuriosisce di più è se gli animali – e quali – apprezzino la musica. Soprattutto, il perché. La questione è intricata perché i risultati sono pochi e spesso contrastanti, ottenuti osservando pochi individui. “È difficile trovare il modo giusto per interrogare ‘le altre menti’”, spiega Chiandetti. “Conosciamo lo spettro dell’udibile delle varie specie, ma non gli aspetti motivazionali. Un po’ come quando a noi va o non va di ascoltare musica, o preferiamo farlo a basso volume”.

Il modo migliore per (iniziare a) rispondere a queste domande è osservare: cosa fa un animale mentre ascolta un brano piuttosto che un altro? Se da un lato, ad esempio, sembra che i tamarini dalla chioma di cotone non amino la musica, quando lo psicologo Charles Snowdon ha creato con un compositore delle musiche “adatte” a loro (partendo da richiami di allarme o di pacificazione) ha ottenuto risposte congruenti: agitazione dopo la musica eccitante, calma con quella rilassante. “Bisognerebbe indagare le risposte degli animali con stimoli creati ad hoc, prima di provare con le nostre complesse composizioni musicali”, commenta Chiandetti.

Antenati comuni o ambiente condiviso?

Anche la scelta delle specie non è semplice. Studiare specie vicine tra loro può aiutarci a capire se le abilità legate alla musica sono state ereditate da un antenato comune, il che permette di risalire alla loro “data” di origine. Spostando l’attenzione su specie più distanti, invece, potremmo stabilire se la capacità si è sviluppata grazie all’evoluzione convergente, ad esempio perché le specie condividono un habitat e sono soggette alle stesse “pressioni” da parte dell’ambiente.

E nel cervello che succede? Uno studio ha mostrato che quando i macachi si dedicano alle percussioni, nel loro cervello si attiva la stessa regione che analizza i richiami vocali, e che ha degli analoghi negli esseri umani: la corteccia uditiva caudale e l’amigdala, deputate all’analisi dello stato emotivo di chi parla. Se noi percepiamo la tristezza o la rabbia di un brano musicale, allo stesso modo un macaco può sentire l’eccitazione o l’agitazione nelle percussioni di un compagno.

La biomusicologia sta quindi muovendo i primi passi, ma la direzione da intraprendere è piuttosto chiara. “Probabilmente sarà necessario studiare quali altri comportamenti delle specie animali sono legati alla musica e indagare quali sono i geni e i circuiti neurali coinvolti. Poi bisognerebbe studiare anche il ruolo sociale nello sviluppo delle competenze musicali: la musica è utile a più individui e percorre distanze maggiori rispetto al parlato. In quest’ambito di ricerca, poi, l’osservazione aneddotica è importante: dobbiamo molto al contributo di chi, con una videocamera o uno smartphone, ha documentato casi singoli di rara abilità. E ci ha consentito di fare un approfondimento sperimentale in condizioni controllate”.

Come è successo con il pappagallo Snowball che balla i Backstreet Boys, finito sulle pagine di Current Biology.

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