Novella sufi. “Il cibo inviato da Dio”

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Novella sufi. “Il cibo inviato da Dio”

N O V E L L E S U F I

I Maestri sufi nell’insegnare utilizzano i materiali più disparati.
Ovviamente testi di grandi maestri sufi, o anche di mistici di altre
religioni, poesie. Ma anche oggetti: opere d’arte o anche un semplice
sasso, dei fili colorati. In pratica qualunque cosa può essere usata
da un maestro per impartire l’insegnamento al discepolo. Da sempre,
tra il materiale usato, una parte importante ve l’hanno le novellette.
Semplici storielle di gusto popolare di cui in queste pagine vi
offriamo alcuni esempi

Il cibo inviato da Dio

Un uomo che aveva passato gran parte della vita nella preghiera,
nell’osservanza delle leggi coraniche, nella meditazione e
nell’assoluta dedizione a Dio, giunse un giorno a questa conclusione:
“Poiché mi sono sempre dato tutto a Dio, compete a lui nutrirmi; a lui
mantenermi, ricambiando così quanto faccio per lui passando tutto il
tempo in sua contemplazione”.

Detto questo, lasciò la città in cui viveva d’elemosine e, scelta
un’ansa del fiume, si fece un giaciglio fra le canne e attese che Dio
si prendesse cura di lui, inviandogli il cibo.

Passò il primo giorno e non successe nulla. Acqua da bere ce n’era in
abbondanza, poiché anche il fiume è una creazione di Dio; ma di cibo
neanche l’ombra. E così il secondo giorno, e così il terzo. Oramai la
fame l’attanagliava con forza; tuttavia, fermo nel suo proposito,
rifiutava le elemosine dei rari passanti e aspettava con fiducia.

E la mattina del quarto giorno tale fiducia parve infine premiata: sul
filo dell’acqua ecco venire da monte, lenta nella corrente lenta, una
scatola avvolta in una stoffa stupenda, un lampasso di seta che non
aveva eguali, se non forse soltanto nella lontana Cina.

L’uomo aprì la scatola; dentro c’era una specie di dolce, di natura e
di aspetto sconosciuti. L’assaggiò: era una pasta di mandorle
finissima, impastata con latte d’asina, acqua di rose, farina della
migliore qualità e chissà che altro ancora. Un dolce così non si
trovava di certo nemmeno dal pasticciere migliore della città; mai
aveva mangiato qualcosa del genere in vita sua.

“Grazie, Signore Iddio. La mia fede è stata ricompensata – esclamò.
Questo dolce divino mi dà forza ed energia come nient’altro al mondo”.
E divorò tutto con gioia.

Fu così anche il giorno dopo, e quello dopo ancora, e così via per
una, due, tre settimane. La notizia si sparse; molti accorsero per
vedere “l’uomo nutrito da Dio”, per farsi benedire da lui, per
ascoltarlo. E il cibo divino, intanto, continuava a giungere,
puntualmente, ogni mattina, grazie alla placida corrente del fiume.

Ed ecco che – era il trentesimo giorno – una bella ragazza venne a
trovare l’uomo oramai in odore di santità. Una ragazza stupenda: occhi
grandi e neri da gazzella, capelli folti e lunghi, e forme così
perfette da… L’uomo ne fu così ammaliato che l’attrasse a sé e per
più di un’ora fu tutto preso dal piacere dei sensi. Ma quando, alla
fine, la ragazza se ne andò, egli cominciò a pensare. S’era lasciato
sopraffare dalla libidine, certo; non era più degno dell’attenzione di
Dio. Ora sarebbe stato abbandonato e forse anche punito.

Infatti la mattina dopo attese invano la scatoletta di legno
contenente il dolce divino. Invano. E così il giorno dopo, e il giorno
dopo ancora. Alla fine, sapendo che mai più avrebbe ricevuto quel
dolce, abbandonò il luogo e ritornò in città, col fermo proposito di
macerarsi e pregare quanto più possibile per riparare al malfatto.
Certo, però, meglio sarebbe stato se fin dal primo giorno si fosse
interessato alla vera origine di quel “cibo”, poiché è saggio risalire
sempre all’origine delle cose anziché seguire le proprie illusioni: in
tal modo non si prenderebbero lucciole per lanterne. Se così avesse
fatto, avrebbe visto che, molto più a monte, nel mezzo del fiume c’era
un’isola, e in quell’isola, proprio sulla riva del fiume, un castello.
In quel castello, per trenta giorni, s’era rifugiata la figlia
dell’imperatore per una convalescenza dopo una lunga malattia. Per
vincere la noia della quiete e per passare il tempo, s’era portata la
sua sarta personale e un mucchio di preziose sete fatte venire dalla
Cina. Tutte le sere poi si faceva fare una maschera di bellezza, con
farina finissima, pasta di mandorle speciale, acqua di rose e altro.
Dopo di che la sua cameriera le toglieva il tutto dal viso, ne faceva
una pallottola che metteva in una scatola di legno, avvolta poi con un
ritaglio di seta buttato via dalla sarta. Legato il tutto con un
cordoncino, gettava la scatola fuori dalla finestra, nel fiume.

Se anche noi risalissimo all’origine delle cose senza accettarle per
quel che esse ci sembrano o per come vengono presentate da persone con
interessi particolari, ci risparmieremmo condizionamenti, illusioni,
dolori, ci risparmieremmo di scambiare per un raro cibo divino una
maschera di bellezza che è stata gettata via.

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