OBE E NDE PRESSO LE CULTURE TRADIZIONALI – 1

pubblicato in: AltroBlog 0
OBE E NDE PRESSO LE CULTURE TRADIZIONALI – 1

di Roberto De Angelis

Non v’accorgete voi che noi siam vermi
nati a formar l’angelica farfalla…
Dante, Purg., X, 124

Accostandosi allo studio di determinati complessi religiosi a base estatica, primo fra tutti lo
sciamanesimo, si resta spesso perplessi di fronte alla ricca fenomenologia ivi documentata.
Perplessi per la forte somiglianza con esperienze tuttora testimoniate da individui appartenenti a
contesti storici e culturali completamente differenti. Lo studio dei fenomeni di OBE (“Out of Body
Experiences”, esperienze fuori dal corpo) ha conosciuto negli ultimi anni una notevole fioritura,
grazie anche allo stimolo offerto da ricerche come quelle ormai classiche di Raymond A. Moody sulle
esperienze di NDE (“Near-Death-Experiences”) o pre-morte (Life After Life, 1975; Reflections on Life
After Life, 1977). Un numero sempre crescente di ricercatori ha iniziato ad interessarsi ai viaggi
extracorporei, alla bilocazione, e nei laboratori di parapsicologia si sono approntati diversi
esperimenti che hanno dato, come vedremo, risultati assai interessanti.

FENOMENI REALI?

Accertare la realtà di tali fenomeni su base meramente etnologica non è certo agevole, perché il
materiale a nostra disposizione si riferisce a contesti che non offrono nessuna possibilità concreta
di verifica dei dati. Inoltre resta sempre aperta la possibilità che i viaggi astrali, per quanto
realistici per chi li sperimenta, non siano altro che immagini mentali prodotte dal cervello in
particolari condizioni psico-fisiche. Una sorta di allucinazione o di sogno lucido, insomma, ma
niente di più (questa è l’opinione, ad esempio, di alcuni medici, come Jean Lhermitte o D. H.
Rawcliffe, secondo i quali le esperienze extracorporee non sarebbero altro che immagini mentali
dovute a particolari stati psico-patologici). Eppure, esiste tutta una serie di testimonianze
moderne che sembrerebbero avvalorare ipotesi diverse e più affascinanti. Ad esse ci appoggeremo per
corroborare i dati etnografici e per consentire, ove possibile, una comparazione tra i vari
contesti. In parapsicologia, l’OBE viene considerata la forma spontanea di una particolare forma di
“chiaroveggenza viaggiante” (travelling clairvoyance), su cui molti esperimenti sono stati fatti nel
corso del . Riferisce ad esempio il dott. Milan Ryzl (Ryzl, 1971): Alfred Backman, di Kalmar
(Svezia), espose anche lui parecchi esperimenti eseguiti con pieno successo, in cui il soggetto era
capace di descrivere scene che si svolgevano in luoghi distanti. Molto interessanti gli esperimenti
fatti con una ragazza, Alma Radberg. Un caso notevole è quello in cui chiese ad Alma di andare con
il pensiero all’ufficio di un direttore di società, in cui lei non era stata mai. Essa vide il
direttore seduto al suo scrittoio e descrisse minutamente la stanza in cui era. Allora Alma fu
invitata a cercar di afferrare un mazzo di chiavi che aveva visto sul piano dello scrittoio, a
stringere le chiavi e a toccare con l’altra mano la spalla del direttore, in modo da attirarne
l’attenzione. Alma affermò che il direttore se ne era accorto. Il direttore, che non sapeva affatto
che si stesse facendo un esperimento con lui, dichiarò, più tardi, che aveva provato una strana
sensazione, quel giorno e in quel momento. Egli era assorto nel suo lavoro, quando improvvisamente
il suo sguardo fu attirato da un mazzo di chiavi che stava accanto a lui, sullo scrittoio, dove non
usava posarle mai. Allora vide qualcosa che vagamente sembrava una figura di donna. Pensando che
fosse la cameriera, non ci badò. Siccome, tuttavia, la figura continuava a riapparire, chiamò e si
alzò per vedere che cosa accadeva. Seppe così che nessuno era entrato nella stanza. E ancora: In un
altro esperimento simile, di “chiaroveggenza viaggiante” secondo il procedimento degli esperimenti
di Backman, fu veduto il fantasma della persona ipnotizzata sul luogo dell’accertamento. Durante la
sua permanenza ad Uppsala, Björkhem ipnotizzò una lappone e le ordinò di andare mentalmente dai suoi
parenti, a circa cento miglia di distanza. La ragazza descrisse la scena che si svolgeva in cucina,
disse ciò che stavano facendo il padre e la madre: trovò l’articolo di giornale che suo padre stava
leggendo in quel momento. Qualche ora dopo, i genitori della ragazza telefonarono ad Uppsala,
dissero che avevano veduto la figura della figlia apparire nella cucina, e temevano che ciò potesse
significare cattive notizie su di lei. Mi pare che il dettaglio dell’apparizione del “fantasma”
abbia un’importanza del tutto particolare ai fini della nostra indagine. Se infatti alcune
esperienze di proiezioni extracorporee possono essere ricondotte a semplici espisodi di
chiaroveggenza, l’apparizione del fantasma offre un criterio di oggettività difficilmente
trascurabile, specie se questo fantasma riesce perfino ad interagire con l’ambiente fisico
circostante. Permetteteci di citare ancora da Ryzl: Mr. S.R. Wilmot salpò da Liverpool per New York.
Quando la nave era già in alto mare, una volta, verso il mattino, vide sua moglie entrare nella sua
cabina: ella andò fino alla sua cuccetta, gli diede un bacio, e dopo un po’ tornò via. La figura
della donna fu veduta anche da un compagno di Mr. Wilmot, che divideva con lui la cabina. Quando Mr.
Wilmot arrivò a New York, la prima domanda che gli rivolse la moglie fu se egli si era accorto che
lei era andata a trovarlo durante il viaggio nella sua cabina. Precisò il giorno in cui la cosa era
accaduta e gli disse che era in pena per lui: aveva avuto allora la sensazione di passare sopra un
mare tempestoso, trovò la nave su cui egli si era imbarcato, arrivò alla sua cabina e lo baciò. La
donna descrisse anche esattamente la nave, che non aveva mai veduto prima, e l’arredamento della
cabina. H. B. Greenhouse riferisce (Greenhouse, Il corpo astrale, Milano 2000, p. 16) il singolare
esperimento effettuato dalla scomparsa Eileen Garrett, una grande sensitiva del secolo scorso che,
proprio allo scopo di dimostrare la realtà del viaggio extracorporeo, ne intraprese volontariamente
uno alla presenza di un segretario che prendeva appunti e di uno psichiatra come osservatore. La
signora Garrett cercò di trasportarsi da un appartamento di New York nell’ufficio di un medico a
Terranova, nel Canada. Il dottore percepì la sua presenza e chiese all’invisibile signora Garrett di
osservare gli oggetti sul tavolo. Nello stesso istante lei descriveva gli oggetti standosene seduta
a New York. Poi il medico prese un libro da uno scaffale e lesse in silenzio un paragrafo sulla
teoria della relatività di Einstein, che la signora Garrett recitò parola per parola a New York.
Mentre egli stava leggendo il libro, la proiezione astrale della Garrett notò che la testa del
dottore era bendata, ma, a New York, lo psichiatra disse: “Non è possibile: ho ricevuto una lettera
dal dottore pochi giorni fa e allora stava benissimo”. Il giorno dopo arrivò un telegramma dal
dottore che dichiarava di essersi ferito alla testa proprio prima dell’esperimento. In seguito mandò
una lettera per confermare tutto ciò che la signora Garrett aveva descritto durante il suo viaggio
extracorporeo, compresi gli oggetti sulla tavola e il paragrafo su Einstein. Da diversi anni,
inoltre, il fenomeno delle OBE viene studiato in laboratorio presso strutture apposite da eqipés di
specilisti. In questi esperimenti i soggetti esaminati devono dimostrare di poter ottenere, in
astrale, dati a loro inaccessibili per altre vie. Presso l’ American Society for Psychical Research
(ASPR) è stato ad esempio progettato un esperimento di viaggio extracorporeo nel quale dei sensitivi
proiettano il loro “Io” da diverse parti del paese in una stanza dell’edifico della Società e devono
in seguito descrivere (per posta o per telefono) ciò che hanno visto nella stanza durante le loro
visite. A Durham, nel North Carolina, la Psychical Research Foundation (PRF, ora American Institute
of Parapsychology) conduce prove durante le quali il sensitivo si proietta in una stanza occupata da
esseri umani e da animali che possono percepire la sua presenza, e da macchine capaci di registrare
ogni cambiamento dell’ambiente fisico della stanza. Il dott. Robert Tart, uno psicologo e docente
presso la University of Virginia Medical School, tentò un esperimento con una giovane donna che
aveva avuto molte bilocazioni spontanee. Il soggetto doveva andare a dormire in una camera del
laboratorio mentre, nella stanza accanto, Tart osservava i tracciati del suo elettroencefalogramma.
In uno scaffale sospeso al soffitto nella stanza della donna, vi era un foglio di carta su cui era
scritto un numero di cinque cifre, fuori dal suo raggio visivo. Dopo quattro notti di tentativi
parzialmente falliti, ella riuscì a sollevarsi fino al soffitto e lesse correttamente il numero
[Cfr. Tart, Charles T., “A Psychophysiological Study of Out-of-the-Body-Experiences in a Selected
Subject”, Journal, ASPR, Vol. 62, No. 1, Jan. 1968]. Molto interessanti sono anche le ricerche sulla
“visione a distanza” (remote viewing) condotte presso lo Stanford Research Institute (SRI) a Menlo
Park, in California, dai fisici Russell Targ e Harold Puthoff, già impegnati nel prestigioso
“Progetto Stargate” voluto e finanziato dalla CIA in tempi di Guerra Fredda. Nei loro esperimenti i
due ricercatori utilizzano aree bersaglio esterne: in un’occasione fu chiesto ad Ingo Swann, un
soggetto assai ben esaminato, di proiettarsi in una località situata dalla parte opposta del globo,
della quale gli furono indicate le coordinate. Swann si proiettò nell’Oceano Indiano, in un’isola
talmente piccola da non essere nemmeno segnata nella maggior parte delle carte. Swann disegnò uno
schizzo del posto, e un confronto con la mappa dell’isola reale mostrò che lo schizzo e la mappa
erano quasi identici, perfino nei particolari di una grande montagna bianca nella zona occidentale.
Un secondo soggetto esaminato da Targ e Puthoff è Pat Price, che si presentò volontario agli
esperimenti. Essendogli state fornite le stesse coordinate geografiche, Price si recò immediatamente
nell’isola e ne disegnò una piantina molto accurata, ancora più particolareggiata di quella di
Swann. Egli non solo vide l’isola ma ne udì gli abitanti parlare in francese (vi era infatti situata
una stazione meteorologica francese). In una serie di prove iniziata verso la fine del 1973, uno o
più membri del personale del SRI si recavano in macchina in una località nei dintorni di San
Francisco scelta a caso e vi rimanevano per mezz’ora. Nel laboratorio Price sedeva con lo
sperimentatore, generalmente il dott. Targ, e cercava di proiettarsi nel luogo dov’era andata la
macchina, sebbene né lui né il dott. Targ avessero avuto qualche precedente informazione sulla
scelta dell’area. Cinque scienziati del SRI, che non facevano parte del progetto, valutarono i
risultati, correlando esattamente sei delle nove località con la descrizione datane da Price. Le
descrizioni di Price, sia verbali che con disegni, erano spesso così accurate che Targ poteva
individuare la località senza che gli dicessero dove era [Targ, Russell, and Harold Puthoff,
“Information Transmission Under Conditions of Sensory Shielding”, Nature, Vol. 251, No. 5476, Oct.
18, 1974, pp. 602-7]. Ritengo sufficiente, per il momento, l’aver ricordato alcuni tra i più
significativi risultati forniti in questo campo dalla ricerca parapsicologica recente, dal momento
che lo scopo di questo studio non è quello di stabilire la realtà dei viaggi extracorporei, ma
semplicemente quello di tracciare, ove possibile, dei paralleli morfologici tra le testimonianze
moderne e quelle etnologiche o storico-religiose. Certo, quando ci si imbarca in comparazioni a così
ampio raggio si corre sempre il rischio di cadere in arbitrarie generalizzazioni. Occorre analizzare
i singoli contesti culturali per coglierne la specificità. E tuttavia, in certi casi ci si trova di
fronte a temi con caratteristiche tanto ricorrenti che è davvero difficile non coglierne l’unità di
fondo. Il viaggio extracorporeo è uno di questi temi, come cercherò di dimostrare. Alla base c’è
l’idea di un elemento che, pur trovandosi nel corpo, può in determinate circostanze separarsene e
muoversi indipendentemente da esso. Il nome, la forma e le caratteristiche di questo quid variano a
seconda del contesto di riferimento. Noi, per comodità espositiva, ci riferiremo a questo elemento
utilizzando sempre il termine anima.

L’ANIMA/CORPO ASTRALE

Diceva Eraclito: «Anche se tu avessi percorso tutte le strade, mai scopriresti le frontiere
dell’anima, tanto è profonda la sua vera essenza». E c’è senz’altro del vero in questa affermazione,
dal momento che ancora non esiste una definizione univoca e definitiva di ciò che s’intende col
termine anima. Alessandra Ciattini, rifacendosi ad un libro di Child e Child [Religion and Magic in
the Life of Traditional Peoples, Prentice Hall, Englewood (NJ) 1993] propone questa definizione di
minima: con la parola anima si indica il sé inteso come entità mistica, la quale, pur essendo legata
al corpo e ad alcune sue funzioni, non scompare definitivamente con esso, ma segue un suo proprio
destino che varia nelle diverse culture e società. E subito precisa: «Non si deve intendere questo
principio – come nella tradizione ebraico-cristiana – in termini nettamente spiritualistici e
trascendenti. In molti casi […] l’anima è concepita come l’immagine eterea e vaporosa del corpo,
al quale è immanente» (A. Ciattini, Antropologia delle religioni, Roma 1998, p. 216). Occorre dunque
fare almeno un cenno alle diverse modalità in cui l’anima viene concepita, per comprendere se e in
che misura le immagini tradizionali possono essere accostate o magari assimilate alle testimonianze
moderne. Etimologicamente, anima è termine di origine latina (dalla stessa radice del greco ánemos,
vento, e con lo stesso senso di spiritus, in greco pnéuma, cioè aria, soffio, respiro). Nelle
culture più arcaiche essa viene concepita per l’appunto come vento, o come respiro, che al momento
della morte abbandona il cadavere fuoriuscendo dalla bocca o da altre parti del corpo. Da ciò
l’usanza di aprire le porte e le finestre della casa in cui avviene il decesso, onde facilitare la
partenza dell’anima o, al contrario, di serrarle (per una trattazione più approfondita vd. A. M. Di
Nola, La nera signora, Roma 2001, p. 210 sgg.). L’idea di un’anima volatile che s’innalza verso il
cielo al momento della morte si riflette nelle immagini di animali volanti con cui è stata
variamente rappresentata: farfalla (in moltissime culture tradizionali fin dai tempi più antichi,
per l’analogia tra la pupa che con la metamorfosi si libera dall’involucro e l’anima che al momento
della morte si libera dal cadavere; il greco utilizza lo stesso termine – psyché – per indicare
tanto l’anima che la farfalla, e lo stesso avviene tra i Baschi, i Birmani e gli Sloveni), mosca
(Finistère, Bretagna, Transilvania…), ape (Grecia moderna), lucciola (Calabria e altre parti
d’Italia), calabrone (Friuli), uccello (Romani, Greci, Germani, Boemi, ecc.; colomba soprattutto nel
cristianesimo, cuculo nel Montenegro; cigno in Scozia, rondine in Belgio; Finni e Lituani chiamano
la Via Lattea sentiero degli uccelli, cioè delle anime) (Ibid., p. 261). Tutte queste anime-animali
rientrano in quella più ampia categoria utilizzata in storia delle religioni per indicare l’anima
posta fuori dal corpo, quella cioè di anima esterna (cfr. van der Leeuw, Fenomenologia della
religione, Torino 1992, II, § 42). Anche l’anima del sogno viene considerata un’anima esterna.
Scrive Van der Leeuw: «Sogno, malattia e morte sono altrettanti casi particolari
dell’esteriorizzazione dell’anima. Il viaggio in sogno è una delle esperienze più comuni. […] Nel
caso della malattia, dello svenimento, del sonno, gli Indonesiani credono che l’anima sia assente.
[…] I Toradja di Celebes credono che durante il sonno l’anima viaggi: Dormivo così profondamente,
/ che l’anima mia mi lasciò. / Dormendo e sognando / giunsi al regno dei morti” (Op. cit., p. 234).
Eccoci dunque ad un punto fondamentale. Tradizionalmente l’anima viene considerata un’entità in
grado di separarsi dal corpo in determinate circostanze (morte, sonno, trance…) e di muoversi
liberamente nello spazio (e a volte nel tempo), come se volasse. La parapsicologia classifica questo
genere di esperienza come OBE, e analizzando alcune testimonianze antiche e moderne ci renderemo
facilmente conto che tra viaggi astrali e voli dell’anima non c’è, in definitiva, soluzione di
continuità. Scrive Greenhouse (Op. cit., pp. 26-27): Il doppio ebbe un nome diverso in ognuno degli
antichi paesi. Gli Ebrei lo chiamavano ruach. In Egitto era noto come ka, una copia esatta del corpo
fisico ma meno denso. I Greci lo conoscevano come eidolon, i Romani come larva, mentre nel Tibet
ancor oggi è chiamato il corpo bardo. In Germania era lo Jüdel o Doppelgänger e in Norvegia il
fylia. Gli antichi Britanni gli davano vari nomi: fetch, waft, task e fye. In Cina il thankhi
lasciava il corpo durante il sonno ed era visto da altri. L’antico Cinese si concentrava per
ottenere un viaggio extracorporeo, e il secondo corpo si formava nel plesso solare per azione dello
spirito. L’abbandono del corpo da parte del doppio attraverso la testa e altri processi
extracorporei familiari agli studiosi di bilocazione furono dipinti su tavolette di legno del XVII
secolo. L’antico Indù parlava del principio del secondo corpo come del Pranamayakosha. I Buddhisti
chiamavano il doppio rupa. Scritti buddhisti dei Tantra del Tibet e di parte della Mongolia, citati
da D. Scott Rogo nell’Intenational Journal of Parapsychology, descrivono la bilocazione e affermano
che Buddha non approvava che i suoi seguaci cercassero di abbandonare il loro corpo. Lo stesso
folklore europeo conosce casi assai interessanti di bilocazione. In The Secret Commonwealth Robert
Kirk, un ministro presbiteriano scozzese vissuto nella seconda metà del Seicento, afferma: «Alcune
persone che per arte o per natura hanno quella vista acutissima [cioé dei veggenti] mi hanno
raccontato di aver visto a quelle riunioni un uomo doppio o la figura dello stesso uomo in due posti
[diversi]» [Robert Kirk, Il regno segreto, a cura di Mario M. Rossi, Milano 1993, p. 17]. Più oltre,
citando un resoconto fattogli dal parroco di un paese vicino, racconta: «Riguardava una giovane
della sua parrocchia che era terribilmente spaventata perché vedeva la sua propria immagine sempre
davanti a sé tutte le volte che andava fuori all’aria aperta» [Op. cit., p. 51]. Ci sembra
sufficiente. E’ chiaro che si tratta di un tema universale e le analogie sono innegabili. Ma prima
di concludere la trattazione sull’anima, credo che potrebbe essere interessante ed utile soffermarci
su due esempi particolari di “anime” in contesti culturali diversi da quello occidentale cristiano.
Vorrei in particolare concentrarmi sul concetto di sombra, tipico del curanderismo andino, e poi
sulla complessa riflessione tibetana sui vari “corpi” che formano l’essere umano. L’analisi di
quanto ci dicono le fonti etnografiche e letterarie ci aiuterà anche a meglio comprendere la
morfologia dell’anima e ad individuare eventuali parallelismi con le testimonianze moderne.

SOMBRA

Scrive Mario Polia, archeologo ed antropologo presso la Pontificia Universidad Catòlica del Perù
(Lima): «La sombra, sebbene priva di sostanza materiale, conserva una stretta relazione di
somiglianza con il corpo, tanto che – quando venga visualizzata per mezzo delle droghe rituali, o si
manifesti in sogno – può dedursi a quale persona appartenga. Essa intrattiene, nei riguardi del
corpo, una relazione funzionale: agendo – in male, o in bene – sulla sombra… si può agire
analogamente sulla persona» (M. Polia, Le “sindromi culturali” da perdita della sombra nel
curanderismo andino del Perù settentrionale, in Magia, medicina, religione, valori II, a cura di
Vittorio Lanternari e Maria Luisa Ciminelli, Napoli 1998, p. 302). La stessa relazione di
somiglianza tra corpo fisico e corpo astrale viene riferita da molti protagonisti di OBE. In una
lettera a Robert Crookall, una donna descrisse il suo doppio come «una copia esatta del mio corpo».
Essa lo esperiva come solido, con respirazione normale e così via, ma allo stesso tempo poteva
vedere il proprio corpo fisico sul letto, sotto di sé. I Sora dell’India, ci informa Piers Vitebsky,
credono che l’anima sia contenuta nel sangue ed abbia, perciò, la forma esatta del corpo in cui
questo scorre. Dicono che l’anima è come una fotografia e gli anziani sora, come altri nel mondo,
sono convinti che essere fotografati indebolisca l’anima. In Mysterious Worlds Dennis Bardens scrive
di un giovane studente di college che vide apparire nella sua stanza la testa del padre con il volto
«velato dall’oscurità». Suo padre stava facendo una proiezione volontaria. Uno dei corrispondenti di
Celia Green scrisse: «Io mi sollevai dal corpo come una bianca nuvola della mia stessa forma ma
senza peso» (cit. in Greenhouse, p. 75). Moody, schematizzando un’esperienza-tipo di pre-morte, così
si esprime nei riguardi del secondo corpo: «[Il soggetto] avverte di avere ancora un corpo, ma di
una natura assai diversa e dotato di poteri assai diversi da quelli del corpo fisico che ha lasciato
dietro di sé». Questo ci riporta alla mente quel passo dell’apostolo Paolo: «Ci sono dei corpi
celesti e dei corpi terrestri; ma altro è lo splendore dei celesti, e altro quello dei terrestri …
Il corpo è seminato corruttibile e risuscita incorruttibile; è seminato ignobile e risuscita
glorioso; è seminato debole e risuscita potente; è seminato corpo naturale e risuscita corpo
spirituale. Se c’è un corpo naturale [soma psychikon], c’è anche un corpo spirituale [soma
pneumatikon]» (I Corinzi 15:40-44). Un altro corpo dunque, simile a quello fisico ma distinto e
indipendente da esso. Continua Polia: «Separata dal corpo, la sombra mantiene coscienza e identità
autonome». E chiaramente lo stesso può dirsi del corpo astrale, che altrimenti non potrebbe
percepire quelle esperienze che poi vengono riferite. «Ero uscito dal mio corpo … ma continuavo a
pensare, come nella vita fisica», afferma uno dei soggetti studiati da Moody (La vita oltre la vita,
cit, p. 50). Lo stesso principio è alla base di qualsiasi attività sciamanica. Se lo sciamano non
rimanesse cosciente durante i viaggi nel mondo degli spiriti, non potrebbe avere nessuna memoria
delle proprie esperienze, e non sarebbe quindi uno sciamano. Stesso discorso per gli yogin:
«Realizzando, grazie al prânâyâma [disciplina della respirazione], il ritmo proprio del sonno, lo
yogin può penetrare, senza rinunciare alla sua lucidità, gli “stati di coscienza” propri del sonno.
… Lo yogin può dunque penetrare tutte le modalità della coscienza. Per l’uomo profano, esiste una
discontinuità tra queste diverse modalità; si passa così dallo stato di veglia a quello di sonno
senza averne coscienza. Lo yogin deve conservare la continuità della coscienza, cioè deve penetrare,
calmo e lucido, in ciascuno di questi “stati”» (Mircea Eliade, Lo Yoga. Immortalità e libertà,
Milano 1999, p. 65). Scrive ancora Polia: «Può eseguire azioni indipendenti dal corpo e altrimenti
impossibili da compiersi: come “viaggiare” nello spazio e nel tempo a scopi divinatori; passare
attraverso corpi solidi raggiungendo istantaneamente luoghi remoti; stabilire un contatto diretto
con entità mitiche; influire sulla salute di altre persone; ecc». Il brano è di estremo interesse,
perché individua delle importanti analogie tra concezione tradizionale e testimonianze moderne. In
quanto corpo “sottile” (spirituale o semifisico), il doppio può muoversi liberamente nello spazio e
nel tempo, e non sembra vincolato alle normali leggi della fisica. Attraversa porte chiuse e pareti,
come se non avessero consistenza. Scrive Moody: «Oltre a non essere apparentemente in grado di farsi
udire da quanti gli stanno vicini, l’individuo entrato nel corpo spirituale si accorge di essere
invisibile … Il corpo spirituale non è un corpo solido; gli oggetti lo attraversano agevolmente,
ed è incapace di afferrare cose o persone … Si può passare attraverso la porta. Muoversi, quando
ci si è fatta l’abitudine, sembra particolarmente facile. Gli oggetti fisici non rappresentano un
ostacolo e spostarsi da un luogo all’altro è estremamente rapido, quasi istantaneo» (La vita oltre
la vita, cit, pp. 46, 47). Agli stessi fenomeni, evidentemente, allude il Bardo tödöl, il Libro
tibetano dei morti, quando afferma: «… Quando poi lo stesso libro dice (di quel corpo), che “non
trova resistenza”, vuol dire che tu adesso hai un corpo mentale e il pensiero è stato separato dal
suo sostegno ed il corpo non è più una cosa materiale; e perciò adesso hai la facoltà di passare,
senza trovare resistenza, anche traverso il (monte) Sumeru e le case e la terra e le pietre e le
rupi montane. … In un solo istante puoi girare intorno ai quattro continenti insieme con il monte
Sumeru; o in qualunque altra terra ti piaccia puoi arrivare in un secondo, appena tu vi rivolga il
pensiero. Hai la potenza di arrivarvi in tanto poco tempo quanto ce ne vuole per distendere o
piegare il braccio; delle più prodigiose facoltà che ti vengano in mente non ce n’è una che tu non
possa ora mostrare [cioè in questa condizione di corpo sottile il defunto possiede le facoltà
magiche (siddhi) che, nella vita, solo gli uomini perfetti possono conseguire appunto perché con lo
yoga essi riescono a separare, a volontà, il principio cosciente col suo sottile involucro dal corpo
materiale, N.d.C.]» (Il libro tibetano dei morti, a cura di Giuseppe Tucci, Milano 2001, pp. 140,
141). Vedremo più in dettaglio nel prossimo paragrafo le credenze tibetane in merito al corpo
astrale. «La sombra – è sempre Polia a parlare – abbandona naturalmente e inconsciamente il corpo
nel sonno, durante il sogno, e – coscientemente – quando il curandero in trance effettua il
“viaggio” o “volo” fuori dal corpo». Credenza diffusa, come abbiamo già detto, anche in ambiente
sciamanico: «La logica sciamanica parte dall’idea che l’anima possa staccarsi dal corpo. Ciò accade
a tutti quando si muore, ma l’esperienza del sogno è portata a dimostrazione che l’anima può anche
vagare per suo conto, e ritornare, senza provocare la morte. I membri delle società sciamaniche
spesso vedono il volo dell’anima durante la trance come una sorta di sogno pilotato, nella quale
un’esperienza umana naturale ma involontaria viene trasformata in una tecnica controllata» (P.
Vitebsky, Gli sciamani, Singapore 1998, pp. 13, 14). Il che non può non ricordarci i c.d. sogni
lucidi, che presentano caratteristiche per molti versi analoghe all’esperienza extracorporea e che a
volte si sovrappongono ad essa o ne sono l’anticamera. Lo stesso Corano testimonia di questa
credenza – nota, sembra, anche alla tradizione rabbinica: «Dio chiama a sé le anime al momento della
loro morte, e anche le anime che non muoiono, durante il sonno; e trattiene quella alla quale ha
decretato la morte e rinvia le altre fino a un termine fisso. E certo v’han segni in questo per
gente che sa meditare» (XXXIX, 42, trad. Bausani). Durante il sonno, dunque, le anime sono
richiamate a Dio (il termine utilizzato significa “far morire” nel linguaggio ordinario) e rimandate
indietro al mattino. Detto in altri termini: a chi muore e a chi sogna capita la stessa cosa, con la
sola differenza che chi sogna fa poi ritorno nel proprio corpo, mentre chi muore resta
definitivamente “presso Dio”. Non solo, ma viene detto perfino che ci sono dei “segni” a
dimostrazione di ciò… A quali segni si allude? Forse a qualche tipo di esperienza extracorporea?
Non lo sappiamo, e quindi non azzardiamo ipotesi. Ci limitiamo soltanto a ricordare che da questa
credenza deriva la grande importanza attribuita ai sogni in tutta la letteratura islamica e anche
nella Fede Baha’i. Seguiamo ancora Polia: «La sombra presiede all’identità psichica, e soprattutto
governa la sfera del carattere e della personalità; coordina o determina le facoltà intellettive.
[…] Quando l’assenza della sombra si prolunga oltre un certo lasso di tempo, le principali
funzioni psichiche sono alterate, o impedite: nelle narrazioni, spesso il termine sombra si alterna
a quello di razòn come facoltà di intendere e di volere. Quando la sombra s’allontana dal corpo la
morte non sopravviene immediatamente, ma dopo un tempo variabile in funzione della capacità vitale
della persona e dell’intensità del “danno” magico o del trauma che ha provocato il distacco della
sombra. Al contrario, come tutti i miei intervistati sono concordi nell’affermare, quando la ànima o
l’espìritu s’allontanano dal corpo il risultato immediato del loro distacco è la morte».
Esisterebbe, quindi, una pluralità di anime, come in effetti credono in molti. Dice a tale proposito
Alessandra Ciattini: «Citando vari resoconti etnografici, ad esempio, Tylor ricorda che gli abitanti
delle isole Figi (Melanesia) distinguevano tra l’ombra, destinata ad andare agli Inferi, e lo
spirito riflesso nell’acqua o nello specchio, che sta vicino al corpo fino alla sua morte. I
Malgasci, invece, parlano di un principio animico detto saina (mente), che scompare con la morte, di
una seconda entità detta aina (vita) che si trasforma in aria, ed infine del matoatoa o spettro che
volteggia presso la tomba. Ovviamente si potrebbero fare tanti altri esempi di queste concezioni, mi
limito a ricordare che esse non sono proprie solo delle società esotiche, ma appaiono anche in
quelle più complesse e stratificate. Basti ricordare la distinzione presente nella filosofia
classica e medievale tra l’anima vegetativa, sensitiva e razionale» (Antropologia delle religioni,
cit, p.218). Per restare in ambito più propriamente sciamanico, possiamo citare ancora Vitebsky:
«Molti popoli credono che gli esseri umani abbiano più di un’anima. Le anime degli sciamani sono in
grado di raggiungere altri regni e le anime delle persone normali possono essere rapite da spiriti o
sciamani nemici, mentre per quel periodo il loro corpo rimane in vita. L’anima che si allontana dal
corpo rappresenta la coscienza o la personalità dell’individuo [cfr. con quanto detto da Polia],
mentre l’anima che rimane continua a coordinare le funzioni vitali del corpo. Se la prima di queste
due anime non torna, la seconda non sopravviverà a lungo. […] Gli eschimesi generalmente credono
nell’esistenza di una terza anima, che coinciderebbe con il nome della persona, il quale viene
trasmesso a un individuo della generazione successiva. Gli Yuchi e i Sioux del Nord America, invece,
hanno quattro anime ciascuno. Sono possibili anche altre varianti: fra gli Jívaro dell’Amazzonia
l’anima capace di allontanarsi è associata allo spirito guardiano della persona, mentre fra i vicini
Yagua ogni individuo ha due anime da vivo e altre tre che diventano attive (e pericolose) solo dopo
la sua morte. La stessa esistenza di spiriti aiutanti suggerisce che le culture sciamaniche abbiano
un’idea della persona meno strettamente legata al corpo di quanto non lo sia nelle culture delle
società industriali» (Op. cit., p. 14). Anche nella casistica OBE esistono esempi di corpi astrali
multipli: uno dei corrispondenti di Sylvan Muldoon, ad esempio, chiamò i suoi corpi 1, 2 e 3.
Durante una proiezione la sua coscienza era nel corpo 2, che osservava il suo doppio, numero 3,
camminare, e il suo corpo fisico, numero 1, da un lato. Ma sono eventi del tutto eccezionali, e non
ci soffermeremo oltre su di essi. «Dopo la morte, la sombra sopravvive in un’esistenza fantasmatica,
conservando pur sempre le peculiarità fisiognomiche e caratteriali proprie della persona cui
appartenne; essa gravita attorno ai resti dei morti, alle loro tombe e ai luoghi da essi
frequentati. La sombra sopravvive dunque al corpo ma non condivide il destino dell’anima o dello
spirito, dal momento che questi sono da Dio giudicati secondo le norme dell’etica cristiana, mentre
essa resta in questo mondo permanendo nei luoghi dove la persona è vissuta, o dov’è sepolta. Le
sombras dei defunti dimorano nella controparte mitica di “questo mondo”: in una zona cosmica diversa
da quella in cui agiscono le entità mitiche ancestrali (gli encantos), ma comunque in dimensioni
dell’essere diverse da quelle del mondo religioso, e attingibili mediante l’esperienza onirica o la
trance».

BARDO TÖDÖL E NDE

Questo passo ci aiuta ad introdurre un tema di estrema importanza nello studio delle esperienze
extracorporee, ovvero il loro rapporto con la morte. Come già si è accennato, varie sono le
occasioni in cui l’anima si distacca dal corpo. La più importante di queste è, ovviamente, proprio
la morte. Le ormai celebri indagini del dott. Moody sono state effettuate proprio tra individui che,
avendo vissuto delle esperienze di pre-morte (NDE), riferiscono poi, tra le altre cose, delle
“uscite dal corpo” del tutto analoghe a quelle documentate in numerosi scritti tradizionali. Il più
famoso di questi scritti è forse il c.d. Libro tibetano dei morti, il cui titolo originale è Bardo
tödöl, un testo del Buddhismo tibetano noto in Europa sin dal 1927, quando W. Y. Evans-Wentz ne
pubblicò in inglese la traduzione fatta dal Lama Kazi Dava-samdup. Come dice Giuseppe Tucci, «il
trattato si volge ai morituri o ai morti: non serve ai vivi, o serve soltanto perché, per ogni
vivente, verrà il giorno della morte» (dall’Introduzione all’ed. it.). Questo ci fa subito
comprendere l’importanza di un tale documento per la nostra ricerca. Effettivamente, scorrendo le
pagine di questa sorta di “guida al mondo dell’oltretomba” ci si imbatte in frasi assai suggestive,
la cui analogia con certe testimonianze di persone che abbiano vissuto esperienze di pre-morte è
certamente notevole. Facciamo solo qualche esempio.

Quello che il Tantra dice, che “il tuo corpo adesso è provvisto di tutti sensi interi e non trova
resistenza”, vuol dire che se durante la vita tu eri cieco, sordo, zoppo, adesso, nello stato
dell’esistenza intermedia, gli occhi vedranno chiaramente gli aspetti delle cose e le orecchie
udranno i suoni e tutti i sensi saranno senza difetto e chiari e completi.

… Quando il testo dice “veduto dagli esseri che appartengono alla medesima specie (che sono
dotati) dell’occhio divino puro” il senso è che tutti quanti sono rinati nello stato dell’esistenza
intermedia ed appartengono alla stessa specie carmica si vedono l’un l’altro.

… Per chi possiede un corpo cosiffatto i luoghi, i parenti, i congiunti diventano come le persone
incontrate nel sogno. Tu chiamerai i parenti ed i congiunti, ma quelli non risponderanno; allora
vedendo che i parenti e i familiari piangono, penserai che sei morto e proverai una pena molto
forte.

… Quando, agitato dall’inquieto vento del carma, non sarai più padrone di te stesso e il tuo
pensiero non avendo il suo sostegno (corporeo), se ne andrà di qua e di là sul cavallo del respiro
tremulo e lieve come una piuma, a quelli che piangono dirai: “Io sono qui, non piangete” e quelli
non udranno e tu penserai che sei morto e soffrirai grande dolore (Il libro tibetano dei morti, cit,
pagg. 140-142).

Riassumendo: secondo il Bardo tödöl, dopo la morte l’anima presenta dei sensi perfettamente
funzionanti, si muove nel mondo fisico ma senza essere percepita e, nello stesso tempo, può
percepire la presenza di altri esseri spirituali. Il defunto, senza comprendere di essere morto,
cercherà anzi di attirare l’attenzione dei propri cari per consolarli, per calmare il loro pianto
ma, non riuscendoci, se ne addolorerà. Lo stesso concetto viene ribadito più volte: «In quel momento
il principio cosciente esce fuori del corpo e non sa se (il corpo, in cui fu) è vivo o morto.
Seguita a vedere, come per l’innanzi, parenti e consanguinei e sente anche i loro pianti. […] Il
morto vede i congiunti piangere e gemere, mettere da parte la sua porzione di cibo, togliere a lui i
vestiti, spazzare il luogo dove giaceva; ma essi qui non lo vedono. Egli sente che quelli lo
chiamano; ma quando lui chiama essi non sentono» (Op. cit., pp. 81, 86). A questo punto possiamo
fare un confronto con quanto riferiscono alcuni soggetti intervistati da Moody. Una donna che era
stata portata in sala di rianimazione racconta: «Li vidi mentre mi rianimavano. Era davvero strano.
[…] Cercavo di parlare, ma nessuno poteva sentirmi, nessuno mi ascoltava» (La vita oltre la vita,
cit, p. 45). Un altro soggetto ricorda: «I dottori e le infermiere mi martellavano il corpo per
cercare di rianimarmi e io continuavo a dire: “Lasciatemi in pace. Voglio solo che mi lasciate in
pace. Smettetela”. Ma non mi sentivano. Allora cercavo di allontanare le loro mani perché la
smettessero di percuotermi il corpo, ma non succedeva niente. Non potevo toccare niente» (Ibid., p.
45). «Non potevo toccare nulla, non potevo comunicare con nessuno. E’ un sentimento impressionante?»
(Ibid., p. 53).

CONOSCENZA

Un dato interessante è anche la particolare lucidità mentale che caratterizzerebbe chi è uscito dal
corpo. Secondo il Bardo tödöl, «La consapevolezza è nove volte più chiara che in vita; e se nella
vita uno fu stupido, in questo momento, a causa del carma, il suo pensiero diventa lucente ed ha la
capacità di meditare su tutto ciò che gli viene insegnato» (Il libro tibetano dei morti, cit, p.
161). E’ ciò che afferma anche un soggetto intervistato da Moody: «Sono possibili cose che qui non
lo sono. La mente è chiarissima. E’ piacevole. La mia mente agiva e pensava per me senza che io
dovessi riflettere più di una volta sulle cose. E tutto quello che provavo giungeva infine ad avere
un significato» (La vita oltre la vita, cit, pag. 51). Spiega in modo più dettagliato lo stesso
Moody: «Molti mi hanno detto di avere scorto, durante il loro incontro con la “morte”, brevi
immagini di un regno completamente diverso nel quale ogni conoscenza – del passato, del presente e
del futuro – sembrava coesistere in una sorta di stato atemporale. La stessa esperienza mi è stata
descritta come un momento di illuminazione nel corso del quale il soggetto sembrava godere di una
conoscenza totale» (Nuove ipotesi sulla vita oltre la vita, p. 13). Sempre il Bardo tödöl afferma:
«Di colui che si trovi nel secondo stato dell’esistenza intermedia si dice che possiede un puro
corpo magico. Allora avviene una grande lucidità mentale nella quale il morto non riesce tuttavia a
conoscere se è morto o se non è morto» (Il libro tibetano dei morti, cit, p. 83). È un fatto che
presso molte culture antiche, i morti venivano considerati custodi di una conoscenza globale
inaccessibile ai viventi. Dice ad esempio Eliade: «Lo sciamano deve morire per poter incontrare le
anime degli sciamani e per esser istruito da esse: perché i morti sanno tutto [Lublinski, p. 250. È
una credenza universale che la mantica si spieghi col commercio coi morti]» (Lo sciamanismo, cit, p.
106). Questo è ciò che ricorda una donna intervistata da Moody: «Non so come spiegarlo, ma sapevo…
Come si legge nella Sacra Scrittura: “Ogni cosa verrà rivelata”. Per un istante non vi fu una sola
domanda che non avesse risposta» (Nuove ipotesi…, cit, p. 15). Ancora: «Sembrava che di colpo…
conoscessi i segreti di tutte le età, tutto il significato dell’universo, le stelle, la luna –
tutto». E subito precisa: «Ma quando decisi di ritornare, quella conoscenza svanì, e ora non riesco
a ricordare nulla. Sembra che quando io decisi [di tornare] mi venne detto che non avrei potuto
conservare la conoscenza» (Ibid., p. 14). Quasi che quella sorta di onniscenza fosse propria dei
morti (dei disincarnati) e di essi soltanto, tanto che al momento di tornare in vita si è costretti
a dimenticare ogni cosa.

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *