OBE E NDE PRESSO LE CULTURE TRADIZIONALI – 2
di Roberto De Angelis
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TIBET
Passiamo adesso alle concezioni tibetane. Ci troviamo subito di fronte ad un panorama assai più complesso e sfaccettato, come ci si rende chiaramente conto leggendo queste belle righe di Giuseppe Tucci: «I continui riferimenti al corpo mayico (sgyu lus) ci inducono a trattare un punto estremamente importante: l’esistenza di un corpo sottilissimo, diverso dal corpo materiale consistente di cinque componenti psicofisici (p’ un po ecc.) ma inerente in esso, che rappresenta la continuità tra le diverse forme d’esistenza possibili dell’individuo. Nel corpo materiale [il corpo ha una natura duplice: a) corpo fisico (rag lus), che è la casa o il contenitore; e b) gñug mai lus, consistente di potenza di vibrazione, respiro (rlun), e sems. A questi si aggiungono il corpo spirituale sottile (yid lus) e lo sgyu lus, corpo mayico, che può sublimarsi in ye šes sku, rdo rje sku, corpo diamantino. “Vibrazione vitale” è il respiro, individuale e cosmico (prana), che è appunto definito spanda-sakti, forza, capacità vibratile], suo sostegno e supporto nel quale si agita insieme la vibrazione vitale, il sems, allo stato grossolano è presente il gñug mai lus, un corpo innato, un complesso psicofisico sui generis costituito da un alito (fine capacità di vibrazione [rlun]) che tende ad espandersi all’esterno, verso il regno dell’oggettività…». E ancora: «Lo yid lus è “contaminato” (zag bcas), prova sensazioni piacevoli e spiacevoli, anzi come corpo è proprio di infiniti esseri o stati demoniaci dotati unicamente di questa corporeità (come i demoni adre e gli dei lha). Invece il corpo della coscienza sublimata (ye šes lus) è privo di qualsiasi maculazione (zag med) e non percepibile dall’uomo comune… Nel momento della morte esso abbandona il corpo al proprio destino, perché può salire alle Terre Pure (žin k’ams, paradisi) oppure scendere nei Luoghi Impuri, negli inferni… Nel sonno leggero e nel momento della morte la vibratilità connata col sems produce lo yid lus. Lo yid lus acquista la propria autonomia durante il sonno, appena diventano inattive le sei esperienze sensoriali (rnam par šes pa), e nella morte quando le esperienze sensoriali, negli individui che non hanno goduto esperienze liberatrici, si dissolvono in capacità di appercezione (yid rnam par šes)» (G. Tucci, Le religioni del Tibet, Milano 1997, pp. 85-87). Per approfondire la raffinata concezione tibetana dei corpi sottili, rimandiamo direttamente al testo di Tucci. Ai nostri fini, mi sembra utile isolare solo due elementi specifici che possono essere ricondotti ad una concezione universale, ovvero: a) l’esistenza di una dimensione diversa da quella fisica e psico-fisica, b) la possibilità di separare il corpo spirituale dal corpo fisico al momento della morte o durante il sonno, quando tutti gli altri sensi sono sopiti. Per quanto riguarda l’ambito della religione popolare, invece, le concezioni sono più vicine allo schema di base finora delineato. L’anima propriamente detta è una sola, il bla. Ha contorni precisi (gzugs) e viene descritto come un doppio, ossia come una sorta di sosia dell’individuo. Se qualcuno perde i sensi, si dice che il suo bla ha abbandonato il corpo; se qualcuno muore si dice che il bla si è separato dal corpo. In questi casi vengono celebrati dei riti destinati a riportare il bla nel corpo (Tucci ricorda tra gli altri: bla k’ug, bla bslu, ac’i bslu, riscatto del bla, riscatto dalla morte). Come abbiamo visto, proprio questo genere di riti è alla base delle pratiche sciamaniche. Anche in Tibet è diffusa la credenza in “spiriti guida”, detti aGo bai lha, divinità innate nell’uomo. Uno di essi (srog lha) sta a fianco dell’uomo dal momento della sua morte al momento del giudizio (su tutto questo vd. Tucci, cit, pp. 246-258).
L’ANIMA FUORI DAL CORPO
L’anima dunque è contenuta nel corpo, come in un involucro, gli dà vita ma non si confonde con esso. Appartiene ad una dimensione diversa da quella fisica entro cui si muove il corpo, e al momento della morte vi farà ritorno. «La destinazione dell’anima consiste nel liberarsi dal corpo per continuare a vivere in un altro mondo, alleggerita di tutto il gravame terreno. La liberazione momentanea conseguita nello stato di estasi deve diventare, dopo la morte, realtà senza fine. […] Si racconta che Aristeo era capace di abbandonare il corpo, come un cadavere, mentre l’anima, una volta uscita, si sollevava fino all’etere. […] Abbiamo già visto che l’anima è alata. Ma anche quando non ha ali, l’anima parte, salendo verso il cielo. Il suo viaggio segna una purificazione, ha per ultimo scopo l’unione con la divinità» (van der Leeuw, op. cit., pp. 242-243). Queste righe rispecchiano da vicino le posizioni espresse da Platone. Socrate, apprendiamo dal Fedone, non aveva paura di morire: «Voglio dirvi la mia speranza: che raggiungerò uomini di valore, e che certamente arriverò da padroni ottimi, gli déi”. Poteva essere ottimista, perché “qualcosa per chi è defunto esiste per davvero» (63 c). Questa sua speranza si fondava su un concetto ben preciso, ovvero sul modo di concepire la morte. Cos’è la morte? si chiede ad un tratto. E risponde: «Distacco dell’anima dal corpo, che altro? E non è questo lo stato della morte: il corpo che, staccatosi dall’anima, se ne isola, lontano; e l’anima che dal corpo si distacca e se ne sta da sola, nell’isolamento? Non è vero che la morte è questo, nient’altro?» (64 c). Addirittura, il filosofo, parlando per bocca di Platone, giunge ad elogiare la morte in questi termini: «Se vogliamo una buona volta avere lo sguardo limpido su qualcosa, dobbiamo staccarci dal corpo e con lei, l’anima sola, individuare il nocciolo puro della realtà. E sono certo che solo in un periodo potremo avere ciò che desideriamo e di cui siamo innamorati, cioè la conoscenza intellettuale: ed è il tempo della morte, non della nostra vita […] perché proprio allora l’anima starà in sovrana indipendenza, staccata dalla carne: prima no» (66 e – 67 a). Il corpo è addirittura un ostacolo, dunque, una “trappola” da cui l’anima anela fuggire, purificarsi per tornare al puro. Abbiamo già visto come alcuni soggetti che hanno vissuto delle NDE riferiscano di una grande lucidità mentale, di una conoscenza universale assaporata per alcuni brevi istanti in seguito al distacco dal corpo.
GUIDE ED ENTITA’ SPIRITUALI
Proseguendo su questa falsariga, Socrate/Platone giunge persino a dare conto delle apparizioni di fantasmi che, evidentemente, già al suo tempo facevano notizia. L’anima, afferma, può non essere perfettamente pura al momento del distacco. Può non essersi completamente liberata dalle passioni carnali, e ciò rappresenta un ostacolo che le impedisce di fare ritorno ai luoghi luminosi dai quali è giunta. «Questo elemento carnale è plumbeo, greve, terrigno, visibile: averlo in sé, per un’anima di quel genere, significa farsi di piombo, affondare nuovamente nello spazio visibile, per terrore di ciò che non è visibile, dell’Invisibile – è questo il nome – e ciondola intorno alle steli, alle tombe, luoghi dove s’avvistarono spettrali parvenze d’anime, insomma quegli incubi che anime di questa tempra originano, anime slacciatesi dal corpo senza la purezza, impregnate ancora di materia, perciò materialmente visibili. […] Devono vagabondare finché per la febbre di quel loro ossessivo compagno, l’elemento carnale, s’imprigionano un’altra volta in un corpo» (81 c.e.). Ebbene, anche le testimonianze raccolte da Moody riferiscono di “spiriti confusi”, ovvero di esseri che sembravano incapaci di rinunciare all’attaccamento al mondo fisico. «Un uomo ha raccontato che gli spiriti da lui veduti “non potevano raggiungere l’altra sponda perché il loro dio vive ancora su questa”, poiché sembravano legati a un particolare oggetto, una persona, un’abitudine. In secondo luogo, tutti osservano come questi spiriti siano “spenti”, come la loro consapevolezza sembri limitata rispetto a quella di altri. Infine, si afferma che devono restare dove si trovano soltanto fino a quando abbiano risolto il problema o la difficoltà che li tiene in quello stato di incertezza» (Nuove ipotesi…, cit, p. 20). Una donna, in particolare, ricorda: Mentre avanzavo, vidi una zona opaca – opaca se la si paragonava con la luce. Le figure avevano un aspetto più chiaramente umano di tutte le altre […]. Si potrebbe dire che avevano la testa curva, e uno sguardo triste, depresso; sembrava si trascinassero […]. Sembravano consunti, spenti, grigi. E pareva si trascinassero ininterrottamente, senza sapere dove andassero, senza sapere chi dovessero seguire o che cosa cercare […]. Sembravano prigionieri in un punto che si trovasse a metà fra i due mondi: qualcosa che non è né spirituale né fisico, ma si trova in uno stato intermedio – o così mi parve. Forse hanno un contatto col mondo fisico: qualcosa li lega al mondo di quaggiù poiché tutti sembravano curvi, intenti a guardare in giù, forse nel mondo fisico… […] Mi ricordavano le descrizioni che ho letto dei fantasmi; qualcosa come gli ectoplasmi (Ibid., pagg. 21-22) Alcuni di questi spiriti sembravano sforzarsi inutilmente di comunicare con persone viventi: «Si vedeva che cercavano di stabilire un contatto, ma nessuno si accorgeva della loro presenza: la gente li ignorava… Cercavano di comunicare ma non potevano in alcun modo entrare in contatto. La gente sembrava non accorgersi affatto di loro» (Ibid., p. 23). Ma le osservazioni del Fedone si fanno ancora più interessanti quando viene introdotto il tema del daimon. Al momento del trapasso, affermano alcuni soggetti studiati da Moody, degli esseri spirituali si manifestano a chi sta morendo, per aiutarlo nel suo viaggio. In qualche caso il morente è convinto che gli esseri incontrati siano i suoi “spiriti custodi”. Un uomo apprese dallo spirito: «Ti ho aiutato nel corso della tua esistenza, ma ora ti affiderò ad altri». Una donna ha detto di avere avvertito la presenza di due spiriti che si definirono “aiutanti spirituali”. Alcuni parlando di un “essere di luce”, di una luce che non abbaglia (La vita oltre la vita, cit, pagg. 54-61). «Per quanto questa luce (generalmente definita bianca o “chiara”) sia di un’indescrivibile luminosità, molti sottolineano che non offende in alcun modo la vista” (Ibid., p. 57). Il Bardo tödöl parla della “luce bianca divina non abbagliante”. «E sentirai nascere in te desiderio di quella luce bianca divina che non è abbagliante» (Il libro tibetano dei morti, cit, p. 90). Ebbene, scrive Platone: «Come ciascuno muore, il suo genio personale [daimon], quello che l’ha avuto in consegna durante la vita, comincia col guidarlo in un determinato spazio, dove le anime in gruppo, dopo essere state ben esaminate, s’avviano all’Ade dietro a quella guida che ha ordine di far compiere il varco da qua a là» (Fedone, 107 d).
IL GIUDIZIO E IL PASSAGGIO
Questo brano, tra l’altro, introduce due altri elementi assai importanti delle esperienze di pre-morte: il giudizio e il passaggio. Il giudizio assume di solito la forma di una sorta di esame della propria vita, e viene spesso condotto alla presenza di quell’essere di luce di cui si è già detto (e in cui alcuni cristiani ravvisano Cristo). Non si tratta esattamente di un ricordo così come siamo abituati a concepirlo, ma piuttosto di «una visione panoramica, tridimensionale, globale, vividamente colorata, degli eventi della propria esistenza». Scrive Moody: «L’apparire della luce e le sue domande non verbali costituiscono il preludio a un momento di stupefacente intensità nel quale l’essere presenta al morente una panoramica della sua vita. Spesso appare ovvio che l’essere può vedere l’intera vita dell’individuo morente e non ha bisogno di alcuna informazione. Vuole soltanto provocare in lui la riflessione» (La vita oltre la vita, cit, p. 61). E’ noto che tutte le religioni concordano nel concepire, in una forma o nell’altra, un qualche giudizio oltremondano, un momento in cui la vita del defunto viene soppesata e giudicata in tutte le sue opere, tanto buone quanto cattive. Questo giudizio assume spesso la forma simbolica di una “pesatura dell’anima” o psicostasia (vd. Di Nola, La nera signora, cit., pp. 317-320). Alcuni soggetti, inoltre, riferiscono di aver scorto, durante la NDE, una sorta di confine, di limite, una volta oltrepassato il quale, il ritorno sarebbe stato impossibile. Le immagini con cui questo confine viene descritto sono varie: un fiume, una nebbia, una porta, una siepe, una linea e così via. Una donna racconta: «Mi parve di trovarmi su una nave o su un piccolo vascello in viaggio verso la riva opposta di una vasta distesa d’acqua. Sull’altra sponda vedevo tutti i miei cari defunti: mia madre, mio padre, mia sorella e altri ancora. Li vedevo, vedevo i loro volti com’erano quando erano sulla terra. Sembrava mi facessero cenno di raggiungerli e io dicevo: “No, no, non sono ancora pronta a raggiungervi. Non voglio morire. Non sono pronta ad andarmene”» (La vita oltre la vita, cit., p. 69). Tutti questi simbolismi potrebbero essere facilmente descritti come immagini archetipiche, dal momento che si ritrovano tutte nei vari patrimoni culturali dell’umanità. Tra i Goldi è un gran fiume a sbarrare il cammino verso il regno dei morti, e solo gli sciamani più potenti riescono ad oltrepassarlo e a raggiungere l’altra riva, oltre la quale s’incominciano a scorgere segni di attività umana (cfr. Eliade, Lo Sciamanismo, cit, p. 235). Un fiume è ciò che vede anche lo sciamano caribe nel corso della sua iniziazione, durante il viaggio celeste. Guidato da un Indiano che, in realtà, è uno spirito benigno (Tukajana), egli giunge presso un grande fiume, dove uno Spirito delle Acque (Amana), lo induce ad immergersi. «L’allievo e la sua guida raggiungono l’altra sponda del fiume e il bivio “della Vita e della Morte”. Il futuro sciamano può scegliere di andare nel “Paese-senza-sera” o nel “Paese-senza-alba”. Lo spirito che lo accompagna gli rivela allora il destino delle anime dopo la morte. Il candidato vien bruscamente ricondotto in terra da una viva sensazione di dolore. E’ che il maestro ha applicato sulla sua pelle il maraqué, una specie di stuoia negli interstizi della quale sono state messe delle grosse formiche velenose» (Ibid., p. 153). E’ un ponte invece, il Ponte Cinvat, a stabilire il confine tra mondo dei vivi e mondo dei morti nella mitologia funeraria iranica. Il Ponte Cinvat è “come un trave dalle molte facce” (Dataistân-i-Denik, XXI, 3 sgg.), si divide cioè in più passaggi: per i giusti è largo come nove lance, per gli empi è stretto come “la lama di un rasoio” (Dînkart, IX, 30, 3). Sotto di esso si spalanca l’Inferno. Commenta Eliade: «Qui ci troviamo di fronte allo schema cosmologico “classico” delle tre regioni cosmiche collegate da un asse centrale (Pilastro, Albero, Ponte, ecc.). Gli sciamani circolano liberamente nelle tre zone; i defunti debbono invece attraversare un ponte nel loro viaggio verso l’aldilà. […] Il ponte non è soltanto la via dei morti, esso è anche il cammino degli estatici» (Lo Sciamanismo, cit., pp. 423, 424). Oltre a distinguere le due zone cosmiche, dunque, il Ponte Cinvat le unisce. Questa bella immagine sembra insomma dirci che, sebbene distinti e differenti, i due mondi – l’aldiquà e l’aldilà – sono però in collegamento. Ed alcuni individui hanno, come i morti, accesso all’oltretomba ma, a differenza dei morti, possono anche farne ritorno.
GLI SCIAMANI: VIAGGI DELL’ANIMA ED ESPERIENZE DI CONFINE
I mezzi utilizzati per penetrare nelle regioni oltremondane sono vari, ma accomunati dall’alterazione del normale stato di coscienza. Per lo più, gli sciamani ricercano questo diverso livello di consapevolezza ricorrendo a due metodi alternativi ma a volte complementari (seguiamo la classificazione di Rouget): quello della privazione sensoriale (e si avrà l’estasi) o, al contrario, quello dell’iperstimoalzione (e si avrà la trance). Altre volte, le esperienze extracorporee non sono volute, e si realizzano in occasione di malattie o di condizioni assai prossime alla morte. Riferisce Eliade: «Un altro profeta dello stesso movimento [la Ghost Dance Religion, N.d.A.], John Slocum di Pujet Sound, “morì” e vide la sua anima abbandonare il corpo. “Ho visto una luce abbagliante, una grande luce… ho guardato ed ho visto che il mio corpo non aveva più l’anima; era morto… La mia anima abbandonò il corpo e s’innalzò verso il luogo del giudizio di Dio… Ho visto una grande luce nella mia anima, luce che veniva da quel buon paese” [J. Mooney, The Ghost Dance Religion and the Sioux outbreak of 1890 (14th Annual Report of the Bureau of American Ethnology, 1892-93, II, Washington, 1896, pp. 641-1136), pp. 752]» (Lo sciamanismo, cit., p. 166). E ancora: «Talvolta il viaggio dello sciamano nell’oltretomba ha luogo durante una transe catalettica avente tutti i caratteri di una morte apparente. Uno sciamano dell’Alaska ebbe a dichiarare di esser stato morto e di aver seguita per due giorni la via dei trapassati: era una via ben battuta da tutti coloro che l’avevano preceduto. Camminando, udiva continuamente pianti e lamenti e venne a sapere che erano i vivi che stavano piangendo i loro morti. Giunse in un grande villaggio, simile in tutto a quelli dei viventi…» (Ibid., pp. 316-17). Lo Yoga conosce addirittura delle precise tecniche di respirazione finalizzate a conseguire uno stato assai simile alla morte: «La missione della Dr. Thérèse Brosse in India (vedi Ch. Laubry e Thérèse Brosse, Documents recueillis aux Indes sur les “yogins” par l’enregistrement simultané du pouls, de la respiration et de l’électrocardiogramme, “Presse Médicale”, n. 83, del 14 ottobre 1936) ha dimostrato che la riduzione della respirazione e della contrazione cardiaca ad un grado che, ordinariamente, si verifica solo nell’imminenza di una morte inevitabile, è un fenomeno fisiologico autentico, che gli yogin possono realizzare con la forza di volontà e non per effetto di autosuggestione» (Eliade, Lo Yoga – immortalità e libertà, Milano1999, p. 65, n. 4). La musica, e in particolare il suono del tamburo, ha senz’altro un ruolo fondamentale nel prodursi della trance sciamanica. Scrive a questo proposito Nevill Drury: «Recenti ricerche tra gli indiani salish, compiute da Wolfgang G. Jilek, hanno dimostrato che il ritmo sonoro del tamburo sciamanico produce una particolare frequenza nelle onde theta dell’elettroencefalogramma (47 cicli al secondo), che è la lunghezza d’onda cerebrale associata con i sogni, lo stato ipnotico e la trance. Questo non sorprende, perché l’attività sciamanica è un tipo di “sogno lucido” mitico. In questa particolare categoria del sogno la persona è consapevole di stare sognando e, analogamente, durante il rituale lo sciamano è conscio del proprio stato alterato di coscienza ed è in grado di agire in esso per i propri particolari scopi. Gli sciamani riferiscono senza eccezione i loro incontri con l’altro mondo non come allucinazioni o immaginazioni gratuite, am come esperienze valide e reali. Ciò che accade durante il viaggio spirituale in quella dimensione è reale» (pp. 45-46). E ancora: «Vi sono pochissimi studi scientifici finora su quanto avviene a uno sciamano durante il viaggio. Occorrerebbero ricerche molto più approfondite in questo campo. Comunque, con una ricerca compiuta con l’attrezzatura elettroencefalografica per studiare le onde cerebrali, è stato scoperto che in soli dieci minuti di “viaggio” lo sciamano raggiunge uno stato di coscienza, che può essere misurato scientificamente, che fino allora era stato raggiunto solo una volta dai maestri dello Zen giapponese dopo una profonda meditazione durata sei ore. Ciò dimostra che l’effetto del tamburo e dei metodi sciamanici è veramente notevole» (Nevil Drury, intervista con Michael Harner, novembre 1984, pubblicata con il titolo “The Shaman: Healer and Visionary”, in “Nature and Health”, vol. 9, n. 2, p. 86.). Abbiamo dunque una continuità tra sogni, ipnosi e trance. La lunghezza d’onda cerebrale è la medesima in tutti questi stati di coscienza, e gli sciamani la ricercano consapevolmente servendosi del ritmo cadenzato dei tamburi. Perché? Perchè, come abbiamo già visto, è proprio durante il sogno e la trance che l’anima abbandona il corpo per dirigersi in quei regni spirituali in cui i morti si sono trasferiti in maniera definitiva e in cui anche la anime dei viventi, a volte, si smarriscono. «Fra i menangkabau dell’Indonesia si ritiene che la forza vitale, o sumangat, abbandoni il corpo nel sogno o durante una malattia e che il compito dello sciamano, o dukun, sia quello di controbattere l’influenza ostile degli spiriti cattivi mentre l’anima è lontana dal corpo» (Ibid., p.10). «E’ noto che presso numerosi popoli l’anima è concepita come un uccello. Il “volo magico” assume il valore di una “uscita dal corpo”, vale a dire traduce plasticamente l’estasi, la liberazione dell’anima. Ma, mentre la maggior parte degli uomini si trasformano in uccelli solamente al momento della morte, quando abbandonano il corpo e se ne volano in cielo – gli sciamani, gli esorcisti, gli “estatici” di ogni tipo, realizzano quaggiù, tutte le volte che lo desiderano, la “uscita dal corpo”» (Eliade, Lo Yoga, cit, p. 307). Gli sciamani sono dunque specialisti della trance, e se ne servono per esplorare mondi normalmente posti al di là della comune percezione sensoriale. In questi mondi si recano non col corpo fisico, ma con il corpo spirituale, con l’anima, con la sombra, o comunque la si voglia chiamare. Per loro quella di separare l’anima dal corpo è un’arte. Nello Yogaçâstra di Hemacandra (VI, 1) esiste perfino un termine che designa questa arte: vedhaviddhi. Chi riesce a separare l’anima dal corpo può anche penetrare, se lo vuole, in un corpo estraneo (parapurakâyapraveça). E’ questo un tema ricorrente nel folklore religioso e laico indiano, noto anche nel tantrismo. «Marpa attuò la “translazione di vita” nel corpo di un piccione; il piccione si rianimò, mentre il corpo del Lama era “simile a un cadavere”» (Eliade, Lo Yoga, cit, p. 364; cfr. anche Maurice Bloomfield, On the art of entering another’s body, a hindu fiction motif, “Proceedings of the American Philosophical Society”, vol. 56, 1914, pagg. 1-43). «Al contrario della persona qualunque, lo sciamano estrae la propria sombra dal corpo effettuando il viaggio pericoloso tra i labirinti e le contrade sconosciute dell'”altro mondo”, in quanto il suo doppio animico è dotato di un potere sufficiente a farsi valere e imporsi» (Mario Polia, Le “sindromi culturali”…, cit, 308). Ma come vivono, gli sciamani, le loro esperienze di uscita dal corpo? Fondamentalmente nello stesso modo in cui le vivono i testimoni moderni. Scrive ancora Drury: «Possiamo farci un’idea dei processi percettivi dello sciamano nella sua proiezione spirituale, leggendo che egli scivola lungo un tubo così stretto che non gli permette di cadere. Quel budello è tenuto aperto da tutte le anime dei suoi protettori personali finché egli potrà ritornare sulla terra [W. A. LESSA and E. Z. VOGT (a cura di), Reader in Comparative Religion, 1972, p. 389]» (p. 11). Come non pensare al “tunnel di luce” e alle “entità spirituali” di cui parlano anche i soggetti che vivono esperienze di NDE? Per renderci conto della dimestichezza delle culture arcaiche con questi fenomeni, sarà utile considerare quanto scrive S. M. Shirokogoroff: «In stato di grande concentrazione gli sciamani (tungusi), come altre persone, possono entrare in comunicazione con altri sciamani e con individui comuni. Presso tutti i gruppi tungusi questo si fa del tutto intenzionalmente per necessità di carattere pratico, specialmente in casi urgenti… […] V. K. Arseniev mi riferì un caso da lui personalmente osservato: uno sciamano invitò due altri sciamani da luoghi lontani in una particolare circostanza (malatia improvvisa di un giovane), ed essi arrivarono entro un lasso di tempo tale da escludere materialmente la possibilità che fossero stati avvertiti da un messaggero. I Tungusi parlano di casi del genere come di una cosa ordinaria, e impiegano questo mezzo quando non hanno tempo di inviare un messaggero. Questa serie di osservazioni è interpretata (dai Tungusi) nel senso che vi è un elemento che si esteriorizza in forma di sostanza immateriale – l’anima -, e che comunica con le anime delle altre persone. Nello stesso gruppo di prove dell’esistenza dell’anima i Tungusi comprendono i casi di “visione a distanza” (cioè di “chiaroveggenza”), il cui meccanismo è forse lo stesso di quello della telepatia… […] In tutti questi casi gli sciamani dicono che essi “spediscono l’anima” con una comunicazione» (The Psychomental Complex of the Tungus, London 1935, pp. 117 sgg., 118n, cit. in E. de Martino, Il mondo magico, Torino 2000, pp. 10-11, corsivo nostro). I Selk’nam descrivono la potenza psichica di visione dello stregone con il termine yauategn, e rappresentano questa forza come «un occhio che uscendo dal corpo dello stregone si dirige in linea retta verso l’oggetto che ha di mira, ma sempre restando in connessione con lo stregone. Esso si distende come una sorta di “filo di gomma” (questo paragone fu scelto dagli indiani stessi), portando il vero e proprio organo visivo dalla parte del capo libero, come il podoftalmo dei gamberi, per dopo ritirarsi, come fanno le antenne delle lumache» (M. Gusinde, Die Feuerland-Indiäner, I, Mödling b. Wien 1937, p. 751, cit. in E. de Martino, Il mondo magico, cit., p. 66). Come non pensare alla famosa “corda d’argento” che congiungerebbe corpo fisico e corpo astrale durante le OBE? I soggetti moderni, come abbiamo già visto, l’hanno descritta in vario modo: come un filo, come un nastro, come una siringa, una fettuccia, un tubo per innaffiare, una catena e perfino un cordone ombelicale… «La coscienza di sé – scrive Greenhouse (p. 52) – sembra muoversi attraverso la corda fra il corpo fisico e quello astrale, alternandosi nell’uno e nell’altro, qualche volta fissandosi in entrambi per brevi istanti». Tra l’altro «l’yauategn non consiste … nella capacità di riprodurre fotograficamente un qualche oggetto, ma anche di prendere cose materiali e le anime personali altrui, esercitando su di loro una influenza reale». Un qualcosa di più articolato della semplice chiaroveggenza, dunque. Soffermiamoci su un altro interessante resoconto etnologico che testimonia dell’abilità di uno stregone zulu nell’«aprire le porte della distanza» (per usare le parole dello stregone stesso) allo scopo di ottenere informazioni necessarie a David Leslie, un esploratore sudafricano preoccupato perché i suoi cacciatori kafiri non erano arrivati come previsto. Lo stregone accese otto piccoli fuochi, quanti erano i miei cacciatori, in ciascuno di tali fuochi gettò delle radici, che emettevano un odore nauseante e fumo denso, e vi gettò anche di poi una pietruzza, gridando contemporaneamente il nome al quale la pietra era dedicata. Poi trangugiò una “medicina”, e cadde in uno stato psichico apparentemente simile alla trance. Ciò durò per circa dieci minuti, e durante tutto questo tempo i suoi arti si agitavano convulsamente. Poi sembrò svegliarsi, si diresse verso uno dei fuochi, rimosse le ceneri, fissò la pietruzza con attenzione, descrisse l’uomo fedelmente, e disse: – Quest’uomo è morto di febbre e il vostro fucile è andato perduto -. Quindi portandosi davanti al secondo fuoco: – Quest’uomo (correttamente descritto) ha ucciso quattro elefanti -, e passò a descriverne le zanne. Portandosi poi davanti al terzo fuoco: – Quest’uomo (descrivendolo ancora) è stato ucciso da un elefante, ma il vostro fucile tornerà a casa -, e così per il resto, con descrizioni minute e corrette degli uomini, e con l’indicazione del loro successo o del loro insuccesso. Mi fu detto dove erano i superstiti e che cosa facevano in quel momento. Mi fu anche detto che fra tre mesi avrebbero fatto ritorno, ma che non sarebbero passati per quella via, poiché non speravano più di trovarmi dopo il tempo convenuto. Queste informazioni, di cui presi allora diligentemente nota, con mio grande stupore si palesarono più tardi esatte in ogni particolare. Che quest’uomo potesse aver avuto le informazioni dai cacciatori per via normale era poco probabile (was scarcely within the bounds of possibility): essi erano sparpagliati in una regione lontana duecento miglia [D. Leslie, Among the Zulu and Amatongos, Edinburgh 18752, citato da A. Lang, The Making of Religion, 19092 pp. 68 sgg., in E. de Martino, Il mondo magico, cit., p. 15]. Permetteteci, in conclusione, di citare altre due testimonianze che presentano notevoli analogie con classiche esperienze di OBE. La prima è riferita da R. G. Trilles, etnologo e missionario tra i Pigmei dell’Africa equatoriale [R. G. Trilles, Les Pygmées de la forêt équatoriale, Paris 1932]. Così Greenhouse riassume la testimonianza di padre Trilles: Ngema Nzago, capo della tribù africana degli Yabikou, si guadagnò un grande prestigio fra la sua gente poiché era uno stregone. Egli aveva il potere di guarire i malati, di far apparire monete per i poveri e di rendere meno dura la vita agli uomini della sua tribù in molti altri modi per mezzo dei suoi poteri psichici. Egli si stava preparando a raggiungere gli stregoni delle altre tribù nel paese di M’fang dove essi si incontravano ogni tanto per discutere i segreti della loro arte. Il luogo del ritrovo era la piana di Yemvi, distante quattro giorni di viaggio. “Sarò là domani” disse Ngema al missionario padre Trilles. Il padre Trilles lo guardò sbalordito. Come poteva Ngema coprire una distanza di quattro giorni di cammino in meno di un giorno? Non c’era altro mezzo di locomozione che le gambe. Ngema sorrise. “Oh, io andrò là ma in egual tempo sarò anche qui. Vedo che non mi credi. Bene, vieni stasera nella mia capanna. Partirò di là. Ancora scettico, padre Trilles si presentò quella sera alla porta della capanna di Ngema e trovò il capo che si stava strofinando il corpo con un liquido rossastro e borbottava una cantilena. Non che non si fidasse del tutto del capo, avendo visto molti esempi di chiaroveggenza di Ngema, ma la sua mentalità occidentale esigeva la prova evidente che Ngema avrebbe realmente fatto il viaggio col suo secondo corpo. “Per la strada di Yemvi”, disse il missionario, “ai piedi della collna, attraverserai il villaggio di Nahong, dove vive il mio catechista, Esaba. Passando davanti alla sua porta, digli per favore che dovrebbe portarmi subito le cartucce del fucile che gli ho prestato”. “Sarà fatto. Esaba avrà il tuo messaggio questa sera e si metterà in viaggio domani”. Ngema si sdraiò sulla stuoia e rimase perfettamente immobile. Dopo qualche minuto di silenzio, padre Trilles trasalì nel vedere un serpente cadere dal tetto e arrotolarsi intorno al corpo rigido del capo steso sulla stuoia. Il missionario, evitando il serpente, infilò uno spillo nel fianco di Ngema, ma non ci fu alcuna reazione. Una leggera schiuma apparve sulle labbra del dormiente, ma il suo corpo non si mosse. Padre Trilles si ritirò in un angolo della stanza e si sedette preparandosi a passare la notte. Il serpente scomparve misteriosamente. Per tutta la notte Ngema giacque in una trance catalettica mentre padre Trilles lo osservava. La mattina dopo si agitò, quindi si svegliò e sorrise al missionario. “Ho dato il vostro messaggio, e sono stato al raduno degli stregoni”. Tre giorni dopo Esaba, il catechista, arrivò alla missione di Yabikou, chiese di padre Trilles, poi porse alcune cartucce al missionario sbigottito. Esaba aveva visto veramente il capo Ngema che era rimasto per tutta la notte disteso sulla stuoia nella capanna? “No, padre, ma durante la notte l’ho sentito chiamarmi fuori della capanna. Mi ha detto che volevate queste subito”. Il serpente potrebbe essere interpretato come forma esteriorizzata dell’anima, un tema frequente nelle credenze tradizionali, e che abbiamo già toccato nel paragrafo dedicato all’anima (per una trattazione approfondita vd. van der Leeuw, op. cit., II, § 42), ma interessante è anche il procedimento utilizzato dallo stregone per compiere il suo viaggio fuori dal corpo. Anche le streghe dell’Occidente medievale, come si sa, erano solite cospargersi il corpo con unguenti allucinogeni prima di recarsi al Sabba, tanto che, chi negava la realtà fisica del viaggio stregonico (Pomponazzi, Della Porta, Molitor, Wier…), spiegava proprio con il ricorso a queste sostanze le visioni che le streghe raccontavano di avere nel corso dei loro viaggi. Scriveva ad esempio Girolamo Visconti (1460 circa): «E così, affrontate queste cose, dico brevemente che tali persone [cioè le donne “streghe”] non si recano realmente al “gioco” [al Sabba], come provano le ragioni portate a dimostrare il contrario. Infatti, quando dormono, non è possibile che i loro corpi siano contemporaneamente nel letto e al “gioco”. Per tanto, non vi si recano realmente» (Lamiarum sive striarum opusculum, cit. in S. Abbiate, A. Agnoletto, M. R. Lazzati, La stregoneria, Milano 1991, p. 13). Ma ammettendo, come lo stregone di padre Trilles, l’esistenza di un secondo corpo, non fisico, la possibilità della bilocazione diventa più concreta. Scrivono Kraemer e Sprenger nel tristemente noto Malleus Maleficarum : «Una donna della città di Briasch, che abbiamo interrogato per sapere se le streghe potessero essere trasferite in modo fantastico e illusiorio o piuttosto con il corpo, rispose che questo poteva avvenire in entrambi i modi. Nel caso in cui non volessero essere trasferite con il corpo e tuttavia volessero sapere che cosa succedeva nell’assemblea delle loro colleghe, si servivano del seguente metodo: nel nome di tutti i diavoli si sdraiavano per dormire sul lato sinistro; allora una sorta di vapore glauco usciva loro dalla bocca e così potevano vedere molto lucidamente quanto accadeva» (Ibid., p. 147, corsivo nostro). Il riferimento alla stregoneria non sembri troppo azzardato. Già E. Stiglmayr, nel suo articolo Hexen (RGG III, 307-308), dichiara esplicitamente che «sotto il profilo storico-religioso si può affermare con sufficiente sicurezza che l’idea di stregoneria si sia sviluppata, in prima linea, sullo Sciamanesimo» (in A. M. Di Nola, Il diavolo, Roma 1994, p. 270, cfr. le pagg. sgg. per una trattazione più completa dell’argomento). Ecco un altro interessante racconto riferito da Greenhouse (p. 32): Tuono Bianco era un capo della tribù delle Code macchiate. Una sera, mentre la sua squaw stava preparando la minestra, egli si era sdraiato per un sonnellino quando si svegliò e vide nella camera due membri della tribù vestiti con abiti bianchi, che gli fecero segno di seguirlo. Gridò allora a sua moglie che usciva per un momento, ma lei non gli prestò attenzione. Stupito per questo, si volse e vide che il suo corpo fisico era ancora addormentato sulla stuoia. Allora doveva essere morto! Gli uomini con le vesti bianche lo rassicurarono: stavano solo portandolo a fare un viaggio ma lo avrebbero fatto tornare, e la sua vita sarebbe durata ancora molti anni. Quindi Tuono Bianco ebbe l’impressione che lui e le sue guide galleggiassero per l’aria, e poi si trovò sopra “un grande fiume splendente” che si innalzava sempre più nel cielo. Le sue guide gli dissero che il fiume si stendeva attraverso il paese del Grande Spirito, dove tutti i buoni Indiani andavano dopo la morte. Tuono Bianco scorse delle tende familiari lungo le rive di questo fiume e fu piacevolmente sorpreso nel vedere molti dei suoi vecchi amici, ormai morti, che ne uscirono per salutarlo. Ma quando raggiunse la tenda più grande, dove viveva un Grande Spirito, gli fu detto che doveva tornare nel suo corpo e rendere noto il messaggio che tutti gli uomini sono fratelli e devono amarsi tra loro. Tornato nella sua tenda, Tuono Bianco trovò il suo corpo addormentato strettamente legato con corde, mentre sua moglie, seduta sulla stuoia, gridava disperatamente e suo figlio stava chiamandolo per nome singhiozzando. Diede un’occhiata indifferente al suo corpo fisico e si voltò per tornare alla terra dei morti. Ma le sue guide gli sbarrarono la strada e gli ingiunsero solennemente di rientrare nel corpo. Immediatamente egli perse la coscienza, e subito dopo si svegliò nel suo corpo dibattendosi, preso dal panico per liberarsi delle corde. Con un grido di gioia, sua moglie tagliò le funi spiegando che lo avevano creduto morto e avevano preparato il suo corpo per la sepoltura. La storia di Tuono Bianco apparve nell’opera del maggiore C. Newell, Storie Indiane. Tuono Bianco disse al maggiore Newell che era stato fuori dal suo corpo per “tre sonni”.
Il racconto di Tuono Bianco è molto interessante, perché presenta diversi punti di contatto con le moderne esperienze di NDE, alle quali riteniamo di poterlo senz’altro assimilare.
1) La presenza di guide spirituali (che a volte possono essere dei parenti defunti, mentre in questo caso sono membri della tribù).
2) La visione del proprio corpo.
3) La consapevolezza di essere morto.
4) La sensazione di volare (“galleggiare per l’aria”).
5) Il confine (in questo caso descritto come un “grande fiume splendente”, immagine comune anche nelle testimonianze moderne; un soggetto intervistato da Moody ad esempio racconta: «Ecco, un luogo… Veramente bello, non lo si può descrivere. Ma è un luogo reale. Non lo si può immaginare. Quando si raggiunge l’altra sponda c’è un fiume. Come si legge nella Sacra Scrittura. L’acqua era limpida e liscia, come il vetro… Sì, si attraversa un fiume. Io l’ho fatto…» [Nuove ipotesi…, cit, p. 20]).
6) La visione di un aldilà abitato dalle anime dei defunti (Tuono Bianco parla di “tende” poste al di là del grande fiume, altri parlano di una “città di luce”; una donna intervistata da Moody racconta: «Poco dopo ero là con i miei nonni e mio padre e mio fratello, che erano morti… Attorno a me vi era una luce incredibilmente bella, vivida. E il luogo era bello. Vi erano colori – colori vivi – non come quelli che si trovano sulla terra, indescrivibili. E vi era gente, gente felice… […] Lontano… vidi una città. Vi erano edifici – edifici distinti. Lucevano, vividi. Dove la gente era felice. […] Credo la si potrebbe chiamare una città di luce… Era meraviglioso. […] Ma se vi fossi entrara, credo non ne sarei tornata mai… Mi venne detto che se fossi andata là non sarei potuta tornare indietro…» [Ibid., p. 19]).
7) Il compito da svolgere (molti soggetti che hanno vissuto esperienze di NDE affermano che nonostante il luogo dove si trovavano fosse così splendido, tuttavia dovettero fare ritorno nel proprio corpo perché avevano ancora delle cose da fare su questa terra; a Tuono Bianco viene affidato il compito di diffondere un messaggio di fratellanza).
8) La visione dei parenti in lacrime (cfr. sopra, le scene descritte nel Bardo tödöl…).
Parrebbe dunque che culture primitive sparse in tutto il mondo possiedano conoscenze assai approfondite sulla realtà del corpo astrale e sulle possibilità di servirsene nella vita di tutti i giorni. Gli Zulu testè citati, ad esempio, parlano del corpo fisico come inyama e del doppio non fisico come isithunzi, che dopo la morte sopravvive come portatore dello spirito, o umoya. Esiste inoltre un fenomeno molto curioso, ma evidentemente comune, in cui il doppio parrebbe implicato in una particolare forma di bilocazione. Si tratta dei c.d. “fenomeni di arrivo”, pure conosciuti come “premonizioni di venuta”. Così li descrive Greenhouse (p. 200): Qualcuno aspetta un ospite che appare col suo doppio prima dell’ora fissata e poi scompare. L’ospite in carne e ossa si presenta un momento dopo, senza sapere di avere annunciato la sua venuta. Il fantasma di arrivo è chiamato vardogr in Norvegia, un paese dove questo tipo di esperienza extracorporea sembra frequente. Secondo Thorstein Wereide, che scrisse intorno ai Doppi umani norvegesi nella rivista Tomorrow (inverno 1955), il vardogr è udito oltre che visto, vi sono passi sulle scale, la porta esterna viene aperta, si sente il rumore di chi si toglie le soprascarpe. Quando il padrone di casa indaga, trova l’anticamera vuota ma sa che il suo ospite arriverà presto. Una signora era così abituata a sentire e a vedere il vardogr dei suoi ospiti che il suo arrivo era per lei il segnale di preparare il pranzo. In L’enigma dei viaggi extracorporei Susy Smith racconta la storia di un uomo d’affari di New York che si recò in Norvegia per la prima volta e fu accolto dappertutto come un amico di famiglia, anche da persone che non aveva mai visto prima. Il segretario dell’albergo disse che era un piacere rivederlo come cliente, mentre le prime parole di un commerciante norvegese fuorono: “Che piacere rivedervi, signor Gorique”. Gorique aveva pensato nei mesi precedenti al suo viaggio e aveva evidentemente proiettato il suo doppio senza saperlo. Nel libro The Phenomena of Astral Projection (London Rider and Co., 1951) Sylvan Muldoon e Hereward Carrington citano le parole di un missionario a Tahiti dal Metaphysical Magazine dell’ottobre 1896: «Si credeva che al momento della morte l’anima uscisse dal corpo, da cui era portata via, per unirsi gradualmente e lentamente al dio da cui era stata emanata… I Tahitiani sono giunti alla conclusione che una sostanza, prendendo forma umana, esca dalla testa, perché fra i pochi privilegiati che hanno il dono sacro della chiaroveggenza, alcuni affermano che, poco dopo la cessazione del respiro in un corpo umano, un vapore si innalza su dalla testa, librandosi per breve spazio sopra di essa, ma rimanendovi attaccato per una corda vaporosa. La sostanza, si dice, aumenta lentamente di volume e assume la forma del corpo inerte. Quando questo è divenuto del tutto freddo, la corda di unione si dissolve e l’anima ormai libera vola via come se fosse sostenuta da portatori invisibili». C’è bisogno di aggiungere altro? Sembra quasi la controparte folklorica di quanto raccontato a Cyril Permutt da Elsie M. Ball, di Manchester, che fu affianco al marito la sera in cui questi morì. «Alle 7,20 del pomeriggio, dopo un ultimo ansito, vidi quella che sembrava una corda d’argento opaca uscire dalla sua fronte. Era ritorta e, prima di lasciare la testa di mio marito, diede un piccolo strappo, come per liberarsi del tutto, e poi si elevò fino a scomparire» (in C. Permutt, Obiettivo sull’aldilà, Roma 1992, p. 68). Vi è stato anche chi, come il dott. Hippolyte Baraduc, ha tentato di fotografare l’anima servendosi di radiografie luminescenti. (…) Cosa ritraggono queste fotografie? E’ difficile dirlo, ma una cosa è certa: la somiglianza con le descrizioni tradizionali e moderne dell’anima è palese. Si può anche notare una struttura nastriforme e luminescente che scaturisce dalla testa della donna e, progressivamente, si stacca dal suo corpo sollevandosi verso l’alto:
CONCLUSIONI
È stato altre volte osservato che nessun fatto, per accertato che possa sembrare, si sottrae al dubbio, tanto grande è la potenza sofistica della ragione umana: ma, quando ciò accade, è da sospettare una ragione oziante, il cui futile gioco è sostenuto da qualche passione nascosta. Nel nostro caso la nascosta passione è costituita da quella ‘boria dei dotti’, o, anche, da quella ‘boria delle nazioni’, per cui assumiamo come antichissimi, o addirittura rivestiti di dignità ontologica, i beni storici del complesso culturale a cui apparteniamo.
E. DE MARTINO, Percezione extrasensoriale e magismo etnologico, in “Studi e Materiali di Storia delle Religioni”, 18, 1942, pp. 1-19 e 19-20, 1943-46, pp. 31-84.
Trarre delle conclusioni definitive da tutto ciò non è semplice, e non mi pare il caso di inoltrarmi in azzardate deduzioni, cosa che tra l’altro andrebbe ben al di là degli intenti iniziali di questo studio. Una cosa però mi sembra innegabile: popoli di tutto il mondo, appartenenti a contesti culturali molto diversi, in tempi diversi, hanno descritto esperienze evidentemente simili, oserei dire identiche nei loro tratti fondamentali. Tutte fantasie? Tutte coincidenze? Improbabile. Le culture umane conoscono ben poche coincidenze. Chiaramente le immagini usate variano, ma questo fa parte di qualsiasi processo di elaborazione culturale, e direi che in questo caso le variazioni sono molto più sfumate di quanto non avvenga normalmente, E’ difficile non rendersi conto di come tutte queste testimonianze, antiche e moderne, siano altrettante varianti di un unico tema ricorrente: quello del distacco dell’anima dal corpo e della sua sopravvivenza in un mondo altro, diverso da quello in cui si muovono i viventi. Diceva Eliade: «Le grandi esperienze si somigliano, non soltanto nel contenuto, ma spesso anche nell’espressione» (Trattato di storia delle religioni, Torino 2001, p. 5), e questa è senz’ombra di dubbio una grande esperienza. Se i nostri contemporanei hanno delle esperienze di pre-morte e le riferiscono, è probabile che anche gli esponenti di culture c.d. “primitive” le avessero, le conoscessero e, forse, le utilizzassero inserendole in una più ampia dimensione religiosa. Non dobbiamo dimenticare che la cultura nella quale viviamo, almeno a livello ufficiale, non ammette l’esistenza di mondi diversi da quello fisico. E’ dunque comprensibile che l’approccio scientifico a tali esperienze sia spesso improntato ad un netto scetticismo pregiudiziale, tanto che, chi ha in sorte di viverle in prima persona, il più delle volte non riesce a trovare adeguati parametri di riferimento culturali per interpretare quanto gli è accaduto. Le culture tradizionali, invece, non solo ammettono l’esistenza di un mondo che potremmo definire “spirituale”, ma spesso insegnano ai propri figli ad accettare la normalità di esperienze che per noi, invece, non possono che essere straordinarie e, quindi, culturalmente aberranti. Sospendendo il giudizio sull’interpretazione da dare a questo tipo di esperienze, vorrei concludere semplicemente auspicando che la conoscenza di questa ricca documentazione – della quale abbiamo potuto fornire solo pochissimi esempi -, improntata a modi di pensare diversi da quello al quale siamo abituati, possa aiutare anche noi ad accostarci con spirito diverso, forse con maggior comprensione, a fenomeni che troppo spesso releghiamo in una sorta di dimenticatoio culturale nel quale troppi “dannati” – per dirla con Charles Fort – sono stati esiliati nel corso del tempo…
“Mai conobbe principio l’anima, né conoscerà fine. Fine e principio
sono sogni. Senza principio, né fine, immutabile, l’anima
eterna resta; la morte non l’ha neppure sfiorata,anche se
morta sembra la casa in cui alberga”
(Bhagavadgita)
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
N. DRURY, Gli sciamani, Xenia, Milano 1995.
M. ELIADE, Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, Mediterranee, Roma 1999.
C. GREEN, Esperienze di bilocazione, Mediterranee, Roma 1985.
H.B. GREENHOUSE, Il corpo astrale, Armenia, Milano 2000.
R. MOODY, La vita oltre la vita, Mondadori, Milano 1977.
ID., Nuove ipotesi sulla vita oltre la vita, Mondadori, Milano 1978.
M. RYZL, La parapsicologia, Mediterranee, Roma 1971 (rist. 1988).
P. VITEBSKY, Gli sciamani, EDT, Torino 1998.
fonte: utenti.lycos.it/shamballah
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