L’orecchio come analizzatore critico sonoro
La capacità critica soggettiva e oggettiva dell’orecchio
compilato da Marco Stefanelli, PhD
L’orecchio, come l’occhio, è in grado di “mettere a fuoco” e analizzare particolari bande di frequenze.
Quando si ascolta un’orchestra siamo in grado di concentrare l’attenzione e quindi l’ascolto su alcuni singoli strumenti oppure se ascoltiamo un gruppo di cantanti siamo in grado di individuare il primo tenore, il baritono o il basso.
Cio’ è possibile grazie ad una sorprendente capacità della combinazione orecchio/cervello/osservatore, l’osservatore in questo caso corrisponde all’ascoltatore, che in definitiva è il nostro sé interiore (atman).
Nel canale uditivo tutti i suoni sono mescolati, come fa l’orecchio a distinguerli?
La superficie del mare può essere agitata da molti tipi di onde, uno dovuto al vento locale, uno ad una tempesta lontana, altri ancora creati dal passaggio di imbarcazioni, ma l’occhio, a differenza dell’orecchio, non è in grado di separare le onde più complesse. Un orecchio ben addestrato è invece in grado di ascoltare una esecuzione di violino di un brano musicale individuando le varie armoniche superiori, distinguendole dalla fondamentale.
Se si ascoltano contemporaneamente suoni a 1000, 1200, e 1400 Hz (Hertz), si percepisce anche un suono con frequenza di 200 Hz. Tale frequenza può essere interpretata come la fondamentale, con 1000 Hz come quinta armonica, 1200 Hz come sesta armonica ecc.
Questo effetto molto interessante ha spiegazioni controverse. Le ipotesi scientifiche più recenti suppongono che il sistema uditivo sappia riconoscere che i segnali superiori sono le armoniche di 200 Hz e che esso fornisca la fondamentale mancante che le avrebbe generate.
La distinzione tra misurazioni fisiche e sensazioni soggettive sembrerebbe escludere la possibilità di usare l’orecchio per misurazioni fisiche. E’ vero che non possiamo ottenere letture digitali fissando qualcuno negli occhi o… negli orecchi, ma questi ultimi sono pur sempre in grado di operare confronti molto precisi. Un ascoltatore può riconoscere differenze di livello sonoro di circa 1 dB per quasi tutta la banda udibile se il livello è ragionevole. In condizioni ideali si riesce a percepire anche un cambiamento di un terzo di decibel. A livelli ordinari, per frequenze inferiori a 1000 Hz, l’ascoltatore è in grado di avvertire differenze fra note separate in frequenza solo dello 0,3 %, ovvero di 0,3 Hz a 100 Hz e di 3 Hz a 1000 Hz.
Harvey Fletcher sottolinea come la straordinaria finezza dell’udito umano gli sia stato di grande aiuto nelle sue ricerche sulla sintesi dei suoni.
Studiando i suoni del pianoforte inizialmente pensò che fosse sufficiente misurare la frequenza e l’ampiezza della fondamentale e delle armoniche e poi combinarle con i valori di attacco e di caduta, ma il risultato fu deludente perché gli ascoltatori esperti all’unanimità rilevarono che i suoni sintetici non assomigliavano a quelli di un pianoforte, ma piuttosto alle note di un organo. Altri studi rilevarono il fatto, peraltro già noto da tempo, che le corde del pianoforte sono molto rigide e posseggono le proprietà sia di canne solide che di corde tese. La conseguenza di ciò è che le parziali del pianoforte hanno frequenze non armoniche. Correggendo le frequenze di quelle che si ritenevano essere armoniche (frequenze multiple intere della fondamentale) gli ascoltatori esperti non erano più in grado di distinguere fra il suono del pianoforte sintetizzato e quello reale.
La capacità critica dell’orecchio nel confrontare la qualità del suono aveva fornito la chiave per la soluzione del problema.
Le bande critiche dell’orecchio lo rendono un analizzatore del suono. Queste bande corrispondono approssimativamente a terzi di ottava.
La conoscenza delle bande critiche dell’orecchio con funzione di filtro potrebbe far scattare il desiderio di analizzare rumori con spettro ampio e continuo, come quello del traffico, del sottofondo subacqueo, della risacca del mare, del rumore del ruscello ecc. usando l’apparato uditivo invece di ricorrere ad attrezzature pesanti e costose per l’analisi del suono. E così sarà successo ad Harvey Fletcher, il primo a proporre l’idea delle bande critiche, e a molti studiosi in questo campo che hanno successivamente approfondito l’argomento.
L’approccio generale dell’esperimento è quello di far partire una registrazione del rumore da analizzare e miscelarla con un segnale proveniente da un oscillatore a frequenza variabile. La combinazione viene amplificata e ascoltata in una cuffia con risposta in frequenza piatta. L’oscillatore viene posizionato per esempio a 1000 Hz e l’ampiezza della sua uscita viene regolata fino a quando il segnale è coperto o mascherato dal rumore.
Soltanto il rumore nella banda critica centrata su 1000 Hz contribuisce a mascherare il segnale.
Se la registrazione e tutto il sistema di misurazione (compreso l’orecchio dell’osservatore/ascoltatore) sono calibrati, si possono ottenere livelli assoluti per lo spettro del rumore.
Ciò che conta veramente è avere la consapevolezza che nel nostro orecchio è presente una serie di filtri in grado di realizzare l’analisi del suono, al di là del fatto che questo metodo possa mai sostituire una buona attrezzatura per l’analisi del livello sonoro dotata di filtri da un’ottava e da un terzo di ottava.
Le bande critiche spiegano il fenomeno del “mascheramento“: se in un segnale si trovano più frequenze, tutte comprese in una di queste bande critiche, esso sarà percepito con la stessa intensità di un segnale contenente un solo tono puro di frequenza pari al centrobanda; se la distanza fra le componenti del segnale eccede la banda critica, l’intensità percepita sarà maggiore.
La larghezza di queste bande critiche è più o meno costante prima dei 1000 Hz e segue una legge lineare dopo i 1000 Hz; si va da 100-150 Hz con un centrobanda di 150 Hz a 1300 Hz con un centrobanda di 7 kHz.
Esiste ancora un profondo divario fra giudizio soggettivo sulla qualità del suono, l’acustica di un ambiente ecc. e una misurazione oggettiva. La questione è in continua evoluzione. Si considerino per esempio i termini descrittivi che vengono spesso usati per descrivere l’acustica di una sala da concerto: calore, chiarezza, brillantezza, definizione, risonanza, riverberazione, bilanciamento, pienezza di tono, miscelazione, vitalità, intimità, sonorità, scintillazione ecc.
Che tipo di strumento può misurare la “vitalità” o la “brillantezza”?
E come individuare un test per la loro “definizione”?
Per questo esame prendiamo in considerazione, appunto, la “definizione”, che corrisponde alla chiarezza e la distiguibilità di un suono. Essa può essere misurata considerando l’energia di un ecogramma durante i primi 50-80 ms (millisecondi) e rapportandola con l’energia di tutto l’ecogramma.
Ciò permette il confronto tra il suono diretto unitamente ai primi suoni riflessi, che vengono integrati dall’orecchio, e l’intero suono riverberante.
Questa misurazione relativamente diretta di un suono impulsivo generato da una pistola o da un pallone che scoppia, lascia intravedere concrete possibilità di mettere in relazione la definizione del termine descrittivo e una misurazione oggettiva. Ma, probabilmente, ci vorrà molto tempo ancora prima che tutti questi termini soggettivi possano tradursi in misurazioni oggettive, anche se si tratta di questioni fondamentali dell’acustica e soprattutto della psicoacustica.
A un certo punto dell’analisi anche le letture strumentali devono cedere il passo ad osservazioni fatte direttamente dall’uomo e gli esperimenti assumono allora una nuova qualità soggettiva.
Studiando la sensazione, per esempio, agli ascoltatori esperti vengono proposti suoni diversi e ad ognuno viene chiesto di confrontare la sensazione prodotta dal suono A rispetto a quella prodotta dal suono B o di esprimere giudizi critici in altri modi. I dati trasmessi dagli esperti vengono poi sottoposti ad analisi statistica, valutando così la dipendenza di stime umane, come la sensazione, da misurazioni fisiche del livello sonoro.
Se il test è stato condotto correttamente e se è stato coinvolto un numero sufficiente di esperti, i risultati sono attendibili. E’ in questo modo che possiamo venire a conoscenza del fatto che non c’è una relazione lineare fra livello sonoro e sensazione, fra altezza e frequenza, oppure fra timbro e qualità del suono.
Il nostro apparato uditivo integra le intensità sonore per brevi intervalli e funziona praticamente come uno strumento di misurazione balistico. In altre parole, se ci troviamo in una sala da concerti, l’orecchio e il cervello mettono in atto la sorprendente abilità di raccogliere tutti i suoni riflessi che arrivano entro 50 ms dal suono diretto e li combinano (integrano) dando l’impressione che tutti questi suoni provengano dalla sorgente originaria, anche se sono presenti suoni riflessi provenienti da altre direzioni. L’energia sonora che viene integrata durante questo periodo fornisce inoltre l’impressione di maggiore sensazione.
Non dovrebbe sorprendere il fatto che l’apparato uditivo umano fonda tutti i suoni che arrivano entro un certo lasso di tempo perché, dopo tutto, anche l’apparato visivo al cinema o alla televisione fonde una successione di fotogrammi, dandoci l’impressione (illusione) di un movimento continuo. La velocità di scorrimento dei fotogrammi è importante: ce ne devono essere almeno 16 al secondo (uno ogni 62 ms) per evitare di vedere una serie di immagini ferme oppure un tremolio continuo. La fusione uditiva, invece, opera al meglio durante i primi 20/30 ms; oltre i 50-80 ms cominciano a dominare eco separate.
Il nostro apparato uditivo è in grado di localizzare con accuratezza la direzione di una sorgente sonora sul piano orizzontale, sul piano mediano verticale la capacità di localizzazione è meno accurata.
Durante un esperimento, Haas dispose degli ascoltatori a 3 m da due altoparlanti, collocati in modo tale da formare un angolo di 45°, con l’ascoltatore sulla bisettrice dell’angolo. Le condizioni erano pressoché anecoiche. Agli ascoltatori veniva richiesto di regolare un attenuatore finché il suono proveniente dall’altoparlante “diretto” pareggiasse quello dell’altoparlante “ritardato”. Haas passò poi allo studio degli effetti delle variazioni del ritardo e scoprì che, entro un ritardo compreso fra 5 e 35 ms, il suono proveniente dall’altoparlante ritardato doveva essere aumentato di più di 10 dB rispetto a quello diretto affinché suonasse come un’eco. Si parla in questo caso di effetto precedenza o effetto Haas.
In una stanza, l’energia sonora riflessa che giunge all’orecchio entro 35 ms viene integrata con il suono diretto e percepita come parte del suono diretto stesso piuttosto che come suono riverberante. Le prime riflessioni di un suono servono dunque ad aumentarne la sensazione, come ha detto Haas, danno luogo a “…una piacevole modificazione dell’impressione sonora nel senso che ampliano la sorgente sonora primaria, mentre la sorgente ecoica non è ancora percepita acusticamente in quanto tale”.
In precedenza, alcuni ricercatori avevano scoperto che solo i ritardi molto piccoli (inferiori a 1 ms) influivano sul discernimento della direzione di una sorgente attraverso tempi di arrivo ai due orecchi leggermente diversi. Ritardi maggiori di 1 ms non sembravano avere alcun effetto sul nostro senso direzionale.
La zona temporale di transizione tra l’effetto integrante per ritardi inferiori a 35 ms e la percezione del suono ritardato come eco distinta è graduale e, pertanto, in qualche modo indefinita. Alcuni studiosi ritengono più probabile l’intervallo di 1/16 di s (62 ms), altri quello di 80 ms e altri ancora quello di 100 ms, dopo che la manifestazione dell’eco separata non è più messa in discussione.
Sebbene l’apparato uditivo non sia uno strumento di misurazione oggettivo che fornisce valori assoluti, esso è comunque molto preciso nel confrontare frequenza, livelli e qualità del suono.
In ultima analisi il suono può essere percepito come un mero fenomeno estetico oppure come vibrazione capace di influire sulla natura fisica e psichica dell’ascoltatore. I mantra, per esempio, sono particolari vibrazioni sonore, spesso costituiti da Nomi sacri e divini. La focalizzazione, la concentrazione e la meditazione sui Nomi sacri purificano e “illuminano” la mente (manas) e consentono di entrare in dimensioni più sottili della realtà, facendoci giungere così a percepire la vera natura del sé interiore o spirituale, l’atman, e anche al più alto livello mistico, in comunione con la Divinità (Yoga), partecipando alla Sua natura.
Riferimenti web/bibliografici
– Michael Talbot – Smith, Manuale di Ingegneria del suono, Hoepli 2010
– F. Alton Everest – Manuale di acustica, Hoepli 2010
– fisicaondemusica.unimore.it/Bande_critiche.html
– www.maurograziani.org/text_pages/acoustic/acustica/MG_Acustica04.html
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