di Paramahansa Yogananda -parte prima
(Introduzione all’Opera, tratta da “Il Sentiero” -autobiografia di swami Kriyananda, discepolo
vivente di Yoganandaji):
suo commento alla Bhagavad Gita. In tre mesi di dettatura ininterrotta aveva completato le
millecinquecento pagine del dattiloscritto. “Lo avevo detto alla signorina Taylor che le pagine
erano tante, ma lei le ha voluto contare ugualmente con cura per accertarsi che avevo ragione!”.
Il Maestro e io stavamo passeggiando attorno al suo eremo. Ora che il manoscritto era finito, mi
aveva finalmente mandato a chiamare perché lo aiutassi con i miei suggerimenti per la redazione
preliminare del testo.
“Una nuova scrittura ha visto la luce!”, ripeté. “Milioni e milioni troveranno Dio con l’aiuto di
questo libro; non solo migliaia, milioni! Lo so! Li vidi!”.
Il mio primo compito, ora che col suo permesso non ero più in ritiro, fu di leggere l’intero
manoscritto per avere un’idea esatta del suo contenuto. L’esperienza si rivelò quasi soverchiante;
mai prima d’allora avevo letto niente di tanto profondo e al tempo stesso tanto bello ed esaltante.
E pensare che solamente poco tempo prima avevo osato dubitare della saggezza del Maestro! Mi presi a
schiaffi mentalmente per essermi dimostrato tanto sciocco. Il libro era colmo della saggezza più
profonda che mai io abbia incontrato. Inoltre, a differenza della maggior parte delle opere
filosofiche, era fresco e vivo in ogni sua pagina come uno scintillante ruscello di intuizioni
originali. Col tocco sicuro di un vero maestro le verità più profonde erano alleggerite da
pennellate occasionali di garbato umorismo o dal racconto di aneddoti e parabole affascinanti e
istruttivi, oppure erano ravvivate con nuovi elementi di informazione, a volte davvero sensazionali.
(Rimasi senza fiato, per esempio, nell’apprender che gli yogi molto evoluti si reincarnano talvolta
in parecchi corpi contemporaneamente per liberarsi più alla svelta del loro karma). Quanto però
lasciava incantati era il fatto che ogni verità espressa nel libro veniva costantemente chiarita da
“esempi su esempi”, come il Maestro stesso affermò pieno di esultanza.
“Capisco adesso”, mi disse, “perché il mio maestro non mi permise mai di leggere altre
interpretazioni della Gita. Se lo avessi fatto, la mia mente sarebbe stata quasi sicuramente
influenzata dalle opinioni che esse esprimono. Ma questo libro proviene interamente da Dio; non è
filosofia, ma puro e semplice amore per la saggezza; è saggezza pura. Per essere certo che non avrei
scritto il libro a livello di opinione, prima di iniziare la dettatura mi sintonizzavo con la
coscienza di Byasa Nota: L’antico autore della Bhagavad Gita. Fine nota, affinché tutto fosse
esattamente conforme a ciò che egli aveva voluto esprimere.”
“Vi sono parecchi altri commenti della Gita”, continuò il Maestro, “alcuni di essi sono molto
famosi, però nessuno li sviluppò in forma tanto ampia quanto questa. Il commento è di Swami
Shankara, per esempio, sebbene profondo, prende in considerazione un solo lato della Scrittura, la
natura spirituale della realtà. Le Scritture devono essere commentate nella loro totalità, cioè ad
ogni livello. Devono cioè essere utili anche fisicamente e mentalmente, non solamente
spiritualmente, poiché la gente vive sul piano fisico e mentale oltreché spirituale. Le Scritture
sono state preparate per la gente comune, non per i santi.”
Con un sorriso beato il Maestro ripeté: “Ha visto la luce una nuova Scrittura!”.
°°°
(CON IL COMMENTO DI PARAMAHANSA YOGANANDA)
PREFAZIONE EDITORIALE
Ed. Vidyananda
(Parte prima)
Paramhansa Yogananda nacque in India il 5 gennaio 1893. Fin dall’inizio la
sua vita fu benedetta da santi genitori e precettori, discepoli del grande
Yogavatar di Benares Lahiri Mahasaya. Infine, l’ardente desiderio di conoscere
Dio gli fece incontrare il suo Guru, Swami Sri Yukteswarji, un grande discepoli
di Lahiri Mahasaya. Sotto la sua guida Yogananda raggiunse la realizzazione di
Dio, e la sua sete spirituale si placò per sempre alla fonte di vita eterna
dell’Infinito.
Nel 1920 Paramhansa Yogananda andò in America, in obbedienza al comando del
suo Guru e del Divino Babaji Maharaj. La sua missione fu quella di far conoscere
in occidente l’antica scienza spirituale dello Yoga (Kriya Yoga), e mostrare la
perfetta unità esistente tra il vero insegnamento di Gesù contenuto nel Vangelo
e il vero insegnamento della Bhagavad Gita, il Vangelo indù.
Per potere svolgere meglio la sua missione in America, Yogananda fondò
un’organizzazione religiosa, chiamata prima Yogoda Satsanga e quindi
Self-Realization Fellowship. Dopo la metà degli anni venti, stabilito il suo
quartier generale a Los Angeles, Yogananda diede vita alla pubblicazione di una
rivista spirituale che nel corso degli anni ebbe vari nomi: East-West, Inner
Culture, Self-Realization.
A partire dal 1932 cominciarono ad apparire regolarmente sulla rivista le
interpretazioni e i commenti di Yoganandaji sul vangelo di Gesù Cristo e la
Bhagavad Gita di Sri Krishna. In ogni numero c’era un articolo sul Vangelo e uno
sulla Gita. Il commento al Vangelo apparve regolarmente per vent’anni, dal 1932
al 1952. Il commento alla Gita, molto più esteso rispetto a quello sul vangelo,
continuò ad essere pubblicato regolarmente anche dopo la morte del grande Yogi.
Negli ultimi anni della sua vita, trascorsi ininterrottamente in nirvikalpa
samadhi (il più alto stato di estasi o coscienza divina), Paramhansaji passò
moltissimo tempo in ritiro (spesso nel deserto della ‘Valle della Morte’, in
California), lavorando giorno e notte per completare i suoi scritti, e
principalmente i commenti alla Bibbia (Genesi e Apocalisse) e alla Bhagavad
Gita.
Paramhansa Yogananda entrò in mahasamadhi (la cosciente uscita finale dal
corpo da parte di uno yogi) il 7 marzo 1952. Un avvincente resoconto di prima
mano della sua vita si può trovare nella sua ‘Autobiografia di uno Yogi’ (Ed.
Astrolabio).
Esistono molte interpretazioni della Bhagavad Gita, scritte nel corso dei
vari secoli da grandi santi, filosofi e studiosi. Ogni interpretazione
rispecchia il punto di vista e l’approccio spirituale del commentatore; così
abbiamo interpretazioni secondo il punto di vista della Saggezza (Jnana),
dell’Azione (Karma Yoga) e dei differenti approcci devozionali (Bhakti). Tra
tutte, l’interpretazione di Sri Shankaracharya secondo gli insegnamenti
dell’Advaita Vedanta è la più famosa e universalmente accettata.
Si sapeva di una profonda interpretazione esoterica, puramente yogica,
conosciuta da pochi e trasmessa oralmente da guru a discepolo, ma il primo a
sollevare il velo ‘misterico’ e a fare conoscere a tutti il vero significato
yogico della Gita fu Yogiraj Lahiri Mahasaya. Sri Sri Lahiri Baba sedeva spesso
con i suoi discepoli, spiegando il vero significato della sacre Scritture e
ponendolo sempre in relazione con le pratiche spirituali. L’enfasi maggiore era
posta sulla Gita, i cui ideali il Maestro voleva propagare con ogni mezzo; fece
perfino stampare alcune migliaia di copie della Gita (solo l’originale, senza
alcun commento) a sue spese, e le fece distribuire gratuitamente tra la gente.
Un grande discepolo dello Yogiraj, Srimat Panchanon Bhattacharya, prese nota
dei commenti orali del Maestro e in seguito li fece pubblicare a Calcutta. Altri
discepoli dello Yogavatar che scrissero un commento alla Gita seguendo
l’interpretazione del Maestro furono Swami Pranabananda, che scrisse la ‘Pranava
Gita’, e Srimat Bhupendranath Sanyal.
Anche Sri Yukteswar – discepoli di Lahiri Baba e guru di Yogananda –
stimolato dal suo Maestro a leggere e a meditare le sacre Scritture, e
soprattutto la Gita, stabilì un ‘Gita Sabha’ a Serampore con alcune persone
entusiaste già iniziate al Kriya Yoga. Sri Yukteswar prendeva nota delle
discussioni condotte nel ‘Sabha’ (circolo), e ogniqualvolta si presentavano dei
punti complicati scriveva al suo Gurudeva. Gradualmente cominciò a pubblicare la
Gita con le sue dettagliate spiegazioni, basate sull’interpretazione spirituale
dello Yogiraj. In questo modo pubblicò fino al nono capitolo della Gita. Dopo la
pubblicazione di ogni singola parte, egli andava a Benares, da Lahiri Mahasaya,
che rivedeva lo scritto e dava le sue benedizioni all’opera.
Il primo capitolo della Bhagavad Gita è stato spesso considerato solo
un’introduzione corollaria all’insegnamento che viene dopo, e come tale è stato
sorvolato velocemente dai vari commentatori. Lo stesso Adi Shankaracharya non
scrisse alcun commento al primo capitolo. Nella profonda interpretazione yogica
di Lahiri Mahasaya, il primo capitolo è la base e la chiave dell’insegnamento
ulteriore. Egli disse che ciascuno di noi è come un regno in lotta con se
stesso: “duryodhana e i suoi seguaci sono simboli di grandi ostacoli nel
sentiero dell’autorealizzazione attraverso il Kriya Yoga; sono incarnazioni di
nemici lungo il sentiero dello Yoga, sia nel mondo esterno che dentro la mente
dell’uomo. Queste forze antidivine sono molto forti nelle loro inutili dispute e
devono essere vinte o distrutte prima che il sadhaka possa raggiungere il
Paramatman… Il Kriya è la battaglia contro le cattive tendenze nella nostra
natura, lungo il nostro cammino verso la realizzazione suprema…. Nella
battaglia spirituale, Bhima (vayu-tattva) e Arjuna (tejas-tattva) sono i
condottieri. Il Kriya è il sadhana del prana-vayu (respiro vitale) simbolizzato
da Bhima.. Se il devoto pratica il Kriya con devozione, e come Bhima combatte
sinceramente contro le difficoltà e si concentra sul pranayama nel sadhana del
prana-vayu, infine supererà tutti gli ostacoli lungo il sentiero dello Yoga e
conseguirà l’Autorealizzazione”.
Da questo punto di vista, ogni parola di Sri Krishna si riferisce
principalmente alla sacra ricerca interiore, alla nostra intima vita spirituale;
così la Gita rappresenta l’aspirazione del nostro essere verso il Divino,
dicendoci come vincere la battaglia contro la nostra natura inferiore e
ristabilire il Regno di Dio in noi.
L’interpretazione di Paramhansa Yogananda, pur seguendo le linee di quella di
Lahiri Baba e dei suoi discepoli, ha un respiro più vasto e universale in quanto
non è esclusivamente yogica, ma si rivolge all’uomo in una visione più
integrale. Pare che Yogananda abbia detto:
“Questo libro viene interamente da Dio. Non è filosofica, il puro amore della
saggezza: E’ Saggezza. Per esser certo di non scriverlo in alcun modo da un
qualche punto di vista, prima di cominciare la dettatura mi sintonizzavo con la
coscienza di Vyasa. tutto ciò che ho detto era quello che lui intendeva dire. Ci
sono stati molti altri commentari sulla Gita, ma nessuno è stato così integrale
nell’approccio come questo… le sacre Scritture devono occuparsi della Realtà
ad ogni livello; devono essere utili fisicamente e mentalmente, non solo
spiritualmente, poiché con questi livelli le persone devono combattere; ed è per
la gente comune, non per i santi, che sono state compilate le Scritture”.
La presente traduzione del commento di Yoganandaji ai primi due capitoli
della Bhagavad Gita è fedelmente basata sul testo originale apparso a puntate
sulle sue riviste dall’aprile del 1932 all’aprile del 1942. La disposizione del
testo ricalca la successione cronologica degli articoli, così come venivano
pubblicati nelle riviste. abbiamo preferito seguire di proposito una traduzione
il più letterale possibile, a volte anche a scapito della bella forma italiana,
proprio per cercare di mantenere al massimo il senso, lo stile, il tono e il
linguaggio dell’originale inglese.
In conclusione, questa interpretazione spirituale della Bhagavad Gita non è
un libro da leggere velocemente, ma è piuttosto una Scrittura da meditare e
assorbire ogni giorno, per imparare a combattere e a vincere la battaglia contro
le forze asuriche della nostra natura animale, per poi ritornare a risplendere
gloriosi come effulgenti anime immortali, piene della Luce e della Gioia di
Dio.
——–
INTRODUZIONE
Interpretazione Spirituale delle Sacre Scritture
Tutte le sacre Scritture, come la Bhagavad Gita (la Bibbia indù) e la Bibbia
cristiana, hanno un triplice significato. In altre parole, le sacre Scritture si
occupano dei tre fattori che costituiscono l’essere umano, cioè, il materiale,
il mentale e lo spirituale. Perciò, tutte le vere Scritture sacre sono state
scritte per essere di beneficio al corpo, alla mente e all’anima dell’uomo. Le
vere Scritture sacre sono come pozzi d’acqua Divina, che possono placare la
triplice sete materiale, mentale e spirituale dell’uomo. Inoltre, le vere
Scritture devono aiutare realmente l’uomo d’affari, l’intellettuale e l’uomo
spirituale. Sebbene siano necessarie, sia l’interpretazione materiale che quella
psicologica delle sacre Scritture, bisogna ricordare che i loro autori
s’impegnarono con grande cura per mostrare all’uomo che l’interpretazione
spirituale è della massima importanza.
Un uomo materialmente, o intellettualmente, di successo può non essere l’uomo
veramente e scientificamente di successo che fa della vita una perfetta
vittoria; mentre l’uomo spirituale è il felice uomo ‘completo’, pieno di salute,
intellettuale, sempre contento e veramente prospero, in possesso della saggezza
che tutto soddisfa. Poiché, con l’intuizione, gli autori spirituali cercarono
prima di tutto di rendere l’uomo spirituale, io do l’interpretazione spirituale
inserendo nel mezzo anche l’interpretazione psicologica e materiale. Queste
interpretazioni aiuteranno ugualmente l’aspirante spirituale, l’intellettuale e
l’uomo che lavora.
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INTERPRETAZIONE SPIRITUALE
DELLA BHAGAVAD GITA
La Bhagavad Gita dice: “Combatti la battaglia della vita, altrimenti farai
peccato”. (Capitolo 2:33).
L’interpretazione psicologica di questo passo è che l’uomo deve sforzarsi
duramente e sinceramente fino a quando non conquisterà la vittoria. Nè la lotta,
nè le sconfitte devono scoraggiarlo. Egli deve continuare a combattere malgrado
gli insuccessi perché arrendersi vuol dire morte, mentre morire lottando per la
vittoria gli dà soddisfazione anche nella morte. Se non moriremmo combattendo
prima di raggiungere la fine del sentiero saremmo destinati ad avere successo,
ma se non lottiamo non possiamo usare i poteri datici da Dio e siamo destinati a
peccare o soffrire. Saremmo peccatori anche perché non saremmo riusciti a
dimostrare che siamo fatti ad immagine di Dio, e perché per vincere non avremmo
esercitato tutta la nostra eredità Divina, la nostra potente volontà.
L’interpretazione psicologica del suddetto passo è che i poteri mentali
dell’uomo diventano più forti quando combattono continuamente e consecutivamente
contro le prove, contro le tentazioni che tempestano la vita. La legge della
vita dà all’uomo il potere di resistere, affinché possa dimostrare la sua
figliolanza Divina tirando fuori i suoi poteri immortali nascosti. Perciò,
psicologicamente, è un peccato contro le leggi del progresso dell’anima
ammettere la sconfitta senza lottare energicamente contro tutti i tipi di prove.
Abbandonare la lotta continua contro l’avidità dei sensi vuol dire diventare
loro schiavo e vittima della sofferenza, poiché solo chi è padrone dei sensi può
essere veramente felice, mentre l’uomo dominato dai sensi è molto infelice.
L’interpretazione spirituale di questo passo è che finché un’anima non
combatte continuamente per sopraffare la coscienza della carne, facendo
l’esperienza della coscienza dell’anima in meditazione, quell’anima fa peccato.
Se il Figlio di Dio – o l’immagine di Dio che dimora nella carne – non lotta
contro le limitazioni della carne, ma s’identifica con esse, allora invita il
dolore.
Essere nella coscienza dell’anima vuol dire ricordare lo Spirito, ma essere
nella coscienza del corpo vuol dire dimenticare il potere dell’anima di
percepire l’Onnipresenza. L’anima identificata con le esperienze corporee e le
limitazioni della coscienza entro i confini del corpo fisico ha conoscenza della
solidità, della fragilità delle ossa, ha paura degli incidenti, ha paura della
vita e della morte, dipende dalle esperienze per accrescere la sua conoscenza, e
ha paura della malattia, della povertà e dell’ignoranza. Ogni anima deve
combattere continuamente contro limitazioni corporee come queste.
Attraverso la meditazione l’anima ricorda la sua dimora nell’onnipresente,
assoluto e beato Spirito, ma dopo una breve meditazione l’anima torna nuovamente
a ricordare le dolorose limitazioni del corpo. Perciò l’anima, attraverso il
fuoco ardente della meditazione, deve combattere continuamente contro
l’ignoranza e la coscienza corporea per distruggere l’intossicante influenza
dell’illusione cosmica e del peccato. Questa peccaminosa illusione cosmica, che
produce la coscienza corporea, è la causa basilare che sottostà al triplice
dolore fisico, mentale e spirituale dell’uomo.
La ‘Bhagavad Gita’ si trova in una delle Epiche degli Indo-Ariani, il
‘Mahabharata’. Uno dei più grandi saggi dell’India, Vyasa, scrisse la ‘Bhagavad
Gita’ o ‘canto dello Spirito’ sotto forma di un dialogo tra il re
guerriero-profeta, Sri Krishna, e il suo discepolo Arjuna. Il dialogo ebbe luogo
sul campo di Kurukshetra, in India, alla vigilia di una battaglia. Questo Sacro
Testamento degli Indù (la Bhagavad Gita) si compone di settecento versi ed è
incluso nel sesto parva o ‘Bhishma Parva’ dell’Epica ‘Mahabharata’ dal
venticinquesimo al quarantaduesimo verso. La Bhagavad Gita è uno dei più grandi
libri sull’arte del supervivere e i suoi lettori possono applicare le sue verità
con grande vantaggio pratico.
Le più grandi sacre Scritture indù sono i quattro Veda. Quindi furono scritte
centootto Upanishad, che contengono l’essenza dei quattro Veda. I sei sistemi
filosofici indiani, Smkhya, Yoga, Vedanta, Mimansa, ecc., contengono l’essenza
dei Veda e delle Upanishad; e la Bhagavad Gita è l’essenza dei sei sistemi
filosofici, delle centootto Upanishad e dei quattro Veda. Attraverso lo studio
intuitivo dei Veda, delle Upanishad e dei sei sistemi filosofici indù, oppure
contattando la Coscienza Cosmica, uno può spiegare la Bhagavad Gita.
Qui viene data per la prima volta l’interpretazione della Bhagavad Gita ricevuta
dal di dentro. La Bhagavad Gita fu scritta molto intelligentemente dal saggio
Vyasa, che intrecciò verità storiche e psicologiche. Così la Gita è vera
storicamente, ma nello stesso tempo è una descrizione psicologica della
tumultuosa vita interiore dell’uomo. L’obiettivo principale del saggio Vyasa
nell’intrecciare verità storiche e psicologiche era quello di celare profonde
verità spirituali dentro il guscio dei fatti storici, affinché solo le persone
veramente sagge potessero aprirsi un varco attraverso il guscio e trovare dentro
il cibo spirituale. Il guscio dei fatti storici serviva anche a proteggere i
significati interiori (profonde verità spirituali interiori) dallo sguardo di
occhi ignoranti. Lo scopo di Vyasa è chiaramente visibile in quanto egli
menziona l’effettiva battaglia sul campo di Kurukshetra soltanto un poco, qua e
là, nel primo e nel secondo capitolo, e quindi s’immerge profondamente nelle
discussioni spirituali.
Antonino
Mi piacerebbe capire che differenza c’è tra il libro “Dio parla ad Arjuna” di yogananda e l interpretazione spirituale di cui tu hai parlato, sempre di yogananda.
Grazie
admin
Non siamo noi gli autori degli articoli, per cui non possiamo rispondere per essi.