Perché ci emozioniamo ascoltando la musica?

pubblicato in: AltroBlog 0

 

Perché ci emozioniamo ascoltando la musica?

 

Di tutte le arti la musica è quella che maggiormente suscita emozioni, ma cosa accade davvero nel nostro corpo?
 
 
di Marco Capozza e Laura Pieroni  

 

Di tutte le arti la musica è quella più capace di evocare emozioni. Che sia gioia, commozione, serenità, eccitamento, malinconia, nessuna emozione è assente dalla tavolozza della musica, e non vi è nessuno che non abbia provato uno speciale sentimento all’ascolto di uno speciale brano. La musica può arrivare a coinvolgere il corpo, a suscitare voglia di muoversi: il ballo, le marce militari, le danze tribali non esistono a caso. L’associazione di musica e poesia in una bella canzone può farci piangere come bambini. Nessun’altra arte – pittura, scultura, poesia o letteratura, per quanto apprezzata e seguita, s’avvicina neanche lontanamente alle capacità emotive della musica. Perché? Cos’ha di speciale questa arte? A quali parti di noi parla così forte? E come fa? Certi brani musicali suscitano emozione in quanto legati a momenti significativi della nostra vita. Questo caso è semplice da spiegare: la musica rievoca i ricordi e questi, a loro volta evocano le emozioni.

Sono i ricordi più che la musica, a suscitare l’emozione. Questo è facilmente comprensibile e non ne parleremo ulteriormente. Ma una musica può evocare emozioni anche quando la sentiamo per la prima volta: le evoca “per come è”, non perché già legata a nostre precedenti esperienze. Avviene anche spesso che ascoltatori diversi senza background comune giudichino nello stesso modo – allegra o triste, serena o angosciosa, consonante o dissonante, ecc. – una medesima musica ascoltata per la prima volta. Tutto ciò suggerisce che la musica “parla” a parti di noi che abbiamo in comune semplicemente in quanto esseri umani, indifferentemente dal sesso, esperienza, conoscenze, scolarità, censo, educazione musicale, gusti, tendenze, ecc. È questo il caso che riteniamo più interessante, e di cui parleremo in questo articolo. Cominciamo col parlare delle emozioni.

 

Emozioni
 
Non daremo qui una definizione o un elenco delle emozioni; chiunque ne ha una esperienza diretta ben superiore a qualsiasi definizione. Sottolineiamo invece alcuni aspetti che ci verranno utili in seguito. Le emozioni inducono modificazioni a tre livelli: 1) fisico-fisiologico (aumento o diminuzione del respiro, della pressione arteriosa, del battito cardiaco, della tensione muscolare, delle secrezioni ed escrezioni); 2) comportamentale (attacco, fuga, panico, “blocco”, approccio sessuale, variazioni della postura, della mimica e della voce); 3) mentale, consistente nell’esperienza soggettiva cosciente che abbiamo dell’emozione e nelle sue conseguenze sul nostro pensiero e cognizione. Le modificazioni fisiche e comportamentali sono automatiche, indipendenti dalla volontà e dalla coscienza, come quando accade di ridere o piangere ad onta di ogni sforzo per trattenersi. Quando l’emozione diventa cosciente parliamo di sentimento. Le emozioni più potenti, quelle con gli effetti fisici e comportamentali più forti, sono innate, universali, comuni a tutte le popolazioni umane, indipendenti dalla cultura e dall’esperienza di vita individuale. Queste sono comunemente dette emozioni primarie. Sono abbastanza poche: paura, tristezza, dolore, felicità, gioia, eccitamento, interesse, disgusto, sorpresa. La serenità/tranquillità spesso non viene inclusa fra le emozioni, e considerata piuttosto assenza di emozione; tuttavia è dotata di tutte le caratteristiche delle emozioni e dovrebbe essere considerata tale. Altre emozioni sono acquisite, apprese, legate all’esperienza individuale e alla cultura sociale, e hanno un connotato cognitivo e cosciente prevalente rispetto alle modificazioni fisiche e comportamentali automatiche. Di queste non ci occuperemo, poiché la musica riguarda essenzialmente le emozioni primarie. Tutte le emozioni si sono evolute in quanto favoriscono la sopravvivenza e/o la riproduzione dell’individuo.
 
Lo fanno producendo una risposta-comportamento adatta a situazioni (stimoli) importanti per la vita e/o la riproduzione dell’individuo, e predisponendo il corpo a fornire quella risposta nella maniera più efficiente. Alcune (poche) associazioni stimolo-risposta sono innate, impresse geneticamente dentro di noi: essenzialmente le risposte di paura (blocco, evitamento, fuga, panico) evocate da forti rumori, grandi oggetti in movimento, rapidi movimenti verso di noi e/o vicino a noi, il suolo che si muove o ci manca sotto i piedi, la mancanza d’aria. Di segno opposto, ma ugualmente innata, è la risposta di accudimento evocata dai segnali di sofferenza di un cucciolo (particolarmente potente, ma non esclusiva, quando il cucciolo è della medesima specie). Altre associazioni stimolo-risposta sono invece apprese: ad esempio la nostra risposta emotiva ai cani sarà probabilmente diversa a seconda che, il primo cane che vediamo, morda o manifesti affettuosità. Queste associazioni stimolo-risposta si formano grazie a circuiti nervosi fra cui è particolarmente importante la struttura nervosa chiamata amigdala: è grazie a questa che “impariamo” quale risposta innata è più adatta a un certo stimolo-situazione (ed è per questo che l’amigdala è stata variamente interpretata quale “centro” del piacere o della paura o di altre emozioni). L’amigdala è un centro evolutivamente antico, sicuramente presente già nei pesci teleostei, e che abbiamo ereditato attraverso gli anfibi, i rettili, e i vari mammiferi. Essa “lavora” a livello inconscio e non richiede alcuna partecipazione della consapevolezza o elaborazione cognitiva delle emozioni, elaborazione che avviene invece in altre strutture nervose più recenti.

 

Comunicazione emotiva

 

Oltre al “compito” di produrre in modo rapido ed efficiente una risposta adatta in situazioni critiche, negli animali sociali (uomo incluso) molte emozioni hanno anche lo scopo di suscitare negli altri emozioni e, quindi, azioni di risposta vantaggiose. Così, ad esempio, l’espressione dell’emozione tristezza è per suscitare compassione e possibili azioni di accudimento; la rabbia è per suscitare attenzione e azioni di correzione; la paura è per suscitare azioni di protezione; la gioia è per suscitare espressione del piacere, che rassicura sull’assenza di emozioni negative nell’altro e rinforza il legame sociale. Questa comunicazione interindividuale a doppio senso avviene a un livello non verbale, non volontario e non conscio, che “passa” attraverso la postura, la mimica, e i suoni non verbali. Attraverso queste vie le amigdale di due individui comunicano direttamente e indipendentemente dalla coscienza, evocandosi reciprocamente emozioni e relativi comportamenti. I contenuti veicolabili da una tale comunicazione sono naturalmente pochi e necessariamente importanti: essenzialmente cosa vorremmo dall’altro, cosa possiamo aspettarci da lui, e cosa lui può aspettarsi da noi. Pochi e importanti come le emozioni primarie. Questo collegamento non verbale ha rappresentato un mezzo di comunicazione essenziale per centinaia di migliaia d’anni d’evoluzione umana, e per milioni d’anni d’evoluzione animale che li ha preceduti. Gli effetti emotivi dei suoi suoni, e di suoni della natura, sono quelli su cui si basano gli effetti emotivi della musica.

 

La Musica e le Emozioni

 

Gli effetti emotivi della musica sono prodotti, con meccanismi diversi, dalle note e dal ritmo. Gli effetti del ritmo sono semplici, e dipendono essenzialmente dalla velocità (in termini musicali il “tempo”) della musica. Questa si misura in battiti al minuto, dove, per dirla nel modo più semplice e meno esatto possibile, i battiti sono quelli con cui batteremmo le mani ascoltando la musica. Tempi inferiori a 60 battiti al minuto hanno effetto tranquillizzante, che sotto i 30-40 diventa addirittura rattristante/deprimente, tanto da essere utilizzato per marce funebri. Al contrario, da 80-90 battiti al minuto in su l’effetto è attivante. La musica da discoteca si situatipicamente da 120 in su, con una “fascia bassa”, da 107 a 120, per una disco dance “tranquilla”. Perché questi valori, e non altri? Perché l’attività cardiaca umana normale, in veglia a riposo, si aggira fra i 60 e gli 80 battiti per minuto, tipicamente 70-72. La frequenza cardiaca di una mamma ha effetto sullo stato d’animo del bambino che tiene abbracciato al petto, e che ode il cuore di lei.
 
Il bambino è tranquillizzato da frequenze normali, o lievemente più lente, che gli comunicano che la mamma sta bene ed è tranquilla, o addirittura dorme, e tutto va bene. Frequenze più alte indicano che la mamma è all’erta, o in ansia, e il bambino risponde con analoga attivazione. Questa risposta emotiva alla frequenza di suoni ritmati, in particolare quando ricordano il suono dei battiti del cuore come i tamburi, il contrabbasso e il basso elettrico, ce la portiamo appresso per tutta la vita. Gli effetti emotivi delle note sono un poco più complicati, e per cercare di comprenderli dobbiamo innanzitutto chiederci perché certe note suonate insieme (armonia, “accordi”) o una dopo l’altra (melodia) le troviamo gradevoli, o addirittura allegre, e certe altre sgradevoli o tristi (come vedremo meglio in seguito, i cosiddetti accordi “maggiori” sono generalmente percepiti come “allegri” e quelli “minori” come “tristi”). Questo è di origine in parte culturale, ma in altra parte innata, e quest’ultima è interessante nel rapporto fra musica ed emozioni. Approcciare questi argomenti presume però qualche nozione di fisica e fisiologia acustiche, che per chi non le possiede già cercheremo ora di fornire nel modo più semplice possibile.
 
Ciò che sentiamo come suono sono onde di compressione- rarefazione dell’aria (“onde sonore”) prodotte dalla vibrazione dell’oggetto che produce il suono (“sorgente sonora”). Le corde vocali e gli strumenti musicali sono fatti per questo, ma praticamente ogni oggetto può vibrare e produrre suono, come l’aria stessa nel vento e nel tuono, il suolo e gli edifici che tremano per un terremoto, e persino il nostro torace e addome quando il medico visitandoci li “bussa” con la punta delle dita. La velocità di vibrazione (frequenza) determina l’acutezza del suono: tanto più veloce la vibrazione, tanto maggiore la frequenza ed acuto il suono. La forza della vibrazione (ampiezza) determina il volume. Una nota musicale è un suono di frequenza definita: ad esempio un suono a 262 oscillazioni al secondo è un Do, uno a 440 è un La. Una frequenza doppia dà la medesima nota, ma più acuta; una frequenza dimezzata ancora la medesima nota, ma più grave. L’intervallo di frequenze fra una nota e la stessa nota a frequenza doppia è detto ottava, e contiene tutte le note intermedie. Un punto cruciale per spiegare parte degli effetti emotivi dei suoni è che, come osservato fin dall’antichità, due o più note diverse suonate insieme o una dopo l’altra ci piacciono tanto più (le troviamo più “consonanti”) quanto più è semplice il rapporto fra le loro frequenze.
 
Se dividiamo l’intervallo di un’ottava in modo da avere sette note che siano il più equidistanti possibile, ma le cui frequenze stiano anche con la prima nel rapporto più semplice possibile, abbiamo, dalla prima alla settima nota, i seguenti rapporti: 1/1, 9/8, 5/4, 4/3, 3/2, 5/3, 15/8 (e l’ottava è ovviamente a 2/1). Note così disposte costituiscono la cosiddetta scala naturale. È facile constatare che i rapporti più semplici corrispondono alle minori somme tra numeratore e denominatore nelle dette frazioni. Il rapporto più semplice di tutti è 3/2, cioè quello fra la nota fondamentale e la quinta, pertanto detto intervallo “di quinta”. La fondamentale e la quinta sono le due note che, se suonate insieme o una subito dopo l’altra, sentiamo più consonanti (esempi: Do-Sol, Mi-Si, Sol- Re). Il rapporto che si situa secondo nella scala delle consonanze è quello di quarta, 4/3 (Do-Fa, Mi-La, Sol-Do). È interessante a questo punto notare che la maggioranza delle canzoni popolari di successo “facili” e orecchiabili, è costruita proprio sui tre accordi le cui fondamentali stanno fra loro in rapporto di quinta e di quarta (es. Do, Sol e Fa; Mi, Si e La; La, Mi e Re; ecc.). Se passiamo a tre note suonate insieme (“accordo”) il principio rimane lo stesso: le tre note stanno tanto meglio insieme quanto più semplici sono i rapporti fra loro; ma la faccenda si complica perché occorre considerare tre rapporti anziché uno.

 

Se suoniamo insieme le tre note più consonanti, la fondamentale la quarta e la quinta, ci accorgiamo che il risultato non è molto gradevole. Questo avviene perché la quinta è seconda rispetto alla quarta, sicché il rapporto fra loro è 9/8. Un risultato migliore, anzi il migliore possibile, l’abbiamo prendendo come nota intermedia non la quarta, ma la terza (esempi: Do-Mi-Sol, Fa-La-Do, Sol-Si-Re). In questo caso infatti la quinta è terza rispetto alla terza, per cui i tre rapporti sono 5/4, 4/3 e ancora 5/4. Così l’accordo più gradevole di tre note è quello “fondamentale + terza + quinta”, e tale triade rappresenta l’accordo per antonomasia. Fino a questo punto abbiamo considerato un’ottava divisa in sette note; ma per una maggiore ricchezza espressiva della musica si può dividere in più note. La scala naturale di cui abbiamo finora parlato, quella più “naturale” e consonante per l’orecchio, utilizza in effetti 13 note, in rapporto con la fondamentale rispettivamente 1/1, 16/15, 9/8, 6/5, 5/4, 4/3, 45/32, 64/45, 3/2, 8/5, 5/3, 9/5, 15/8. Negli ultimi due secoli la musica occidentale utilizza invece quasi esclusivamente una scala di 12 note ottenute suddividendo l’ottava in 12 parti logaritimicamente uguali, detta scala equabile 12-TET, che presenta il vantaggio che qualsiasi strumento può suonare in tonalità differenti (utilizzare come nota fondamentale della scala una qualsiasi delle 12 note) senza doverlo ri-accordare. Nessuna delle 12 note della scala 12-TET coincide esattamente con una delle 13 note della scala naturale; tuttavia per alcune (la seconda, la quarta e la quinta) la differenza è talmente piccola che l’orecchio umano non è in grado di avvertirla, e restano valide tutte le considerazioni che abbiamo fatto circa la gradevolezza o meno degli intervalli nella scala naturale. Per le altre note, quelle della scala 12-TET si situano lievemente sopra (sono crescenti) o sotto (calanti) rispetto alle corrispondenti note naturali.
 
Queste differenze non sono tali da invalidare quanto detto finora, ma sono tali da aggiungere invece un ulteriore elemento importante rispetto agli effetti emotivi della musica: infatti le note crescenti suonano allegre, ravvivanti; quelle calanti suonano tristi, deprimenti. È questo il motivo per cui, nella musica a cui siamo oggi abituati, certi accordi hanno effetto rallegrante, attivante, e altri rattristante: la nota intermedia dell’accordo, quella dell’intervallo di terza, è crescente (“accordo maggiore”) o calante (“accordo minore”) rispetto alla nota che il nostro orecchio inconsciamente sente come “naturale” per quell’accordo, e questo ha effetti psicologici significativi. A questo punto abbiamo elencato praticamente tutte le più importanti relazioni fra le caratteristiche fisiche della musica e suoi effetti sulle emozioni. Quello che resta da chiederci è: perché? Perché le note che sono in rapporti di frequenza semplici fra loro ci risultano più gradevoli di quelle con rapporti complessi? E perché una nota crescente rispetto a una nota “naturale” ha effetto rallegrante e attivatore, e una nota calante effetto rattristante e deprimente? Per la prima domanda dobbiamo considerare le armoniche. In quasi tutte le vibrazioni naturali, alla vibrazione fondamentale che definisce la nota si sovrappongono anche vibrazioni a frequenze più alte, multiple della prima, dette armoniche, di ampiezze relative diverse secondo l’oggetto che produce il suono. In altri termini, la nota fondamentale è sempre accompagnata da altre note più acute, in proporzioni differenti secondo i differenti oggetti che producono i suoni. Sono queste – insieme alla variazione d’ampiezza del suono nel tempo, anch’essa caratteristica di ciascun oggetto e detta inviluppo – a dare ad ogni diversa sorgente sonora il suo timbro (o colore) caratteristico, a rendere diverso il suono di una chitarra da quello di un flauto.
 
I suoni che ci provocano istintivamente paura sono rumori prodotti in natura da eventi potenzialmente pericolosi come terremoti, frane, fulmini, esplosioni. Tutti questi sono suoni che contenengono un gran numero di armoniche, note che stanno fra loro in rapporti di frequenza qualsiasi, quindi anche in rapporti molto complessi e disordinati. Viene naturale ipotizzare che il nostro sistema nervoso sia predisposto a considerare allarmanti, sgradevoli, da fuggire, i suoni di questo tipo; e che, per contrasto, trovi gradevoli i suoni che stanno fra loro in rapporti semplici e/o le cui armoniche siano semplici o comunque ben caratterizzate, non caotiche. È come se suoni di questo tipo dicessero “nessun pericolo”. Per ipotizzare una risposta alla seconda domanda dobbiamo ricordare quanto visto nel paragrafo sulle emozioni circa i suoni non verbali nella comunicazione primordiale. I suoni calanti sono tipicamente emessi da animali sofferenti o moribondi; lo spegnersi del lamento nel rantolo è tipico della situazione agonica. È probabilmente su questo che il nostro sistema nervoso, prima d’imparare a parlare, ha imparato a utilizzare i lamenti per comunicare sofferenza, lamenti che tipicamente hanno una tonalità calante. Per il solito meccanismo del contrario, fonazioni gioiose, eccitate, attive, hanno tipicamente un andamento crescente. Anche nel canto una stonatura “calante” è più avvertibile e meno tollerata di quella “crescente”. È quindi probabile che gli accordi maggiori e quelli minori abbiano effetti emotivamente opposti in quanto rievocano a livello inconscio le emozioni connesse a questo tipo di comunicazione non verbale, spontanea e involontaria.

 

Conclusioni
 
In tutti i casi che abbiamo esaminato sono naturalmente l’amigdala e gli altri centri e circuiti “delle emozioni”, il cosiddetto sistema limbico, a reagire istintivamente ai messaggi impliciti contenuti nella musica. I rapporti fra sistema limbico ed emozioni, emozioni e musica, sistema limbico e musica, sono ormai accertati e rappresentano un importante campo di ricerca in neuroscienze. Tuttavia, pur accertati e diffusamente considerati, restano ancora largamente oscuri nei loro meccanismi. In questo articolo abbiamo quindi descritto conoscenze e proposto ipotesi d’interpretazione di alcuni di questi meccanismi alla luce delle attuali conoscenze in fisica acustica, neurofisiologia e psicologia.

 

Questo articolo è tratto dalla rivista:
Scienza e Conoscenza – N. 42
Editore: Scienza e Conoscenza
Data pubblicazione: Novembre 2012
 
approfondimento su www.sublimen.com 
 
Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *