Perché mai ipotechi il tuo presente per qualche labile promessa futura?
di J. Kabat Zinn
Lavare i piatti
Avete notato con quale frequenza ipotechiamo i momenti presenti per qualche promessa futura? Prendiamo il lavare i piatti, per esempio. Quando siamo nella modalità del lare, laviamo i piatti per toglierceli di mezzo appena possibile, così da poter passare all’attività successiva. Con tutta probabilità, la nostra mente è occupata in altre cose, perciò non dedichiamo la nostra piena attenzione ai piatti. Forse speriamo di avere un momento per noi, per poterci finalmente rilassare. Forse stiamo pensando a prendere una tazza di caffè e a quanto sarà rilassante. Se poi troviamo una pentola sporca che in qualche modo ci era sfuggita (o, ancora peggio, se qualcun altro trova una pentola sporca che ci è sfuggita), può darsi che ci irritiamo, perché la pentola incriminata ha temporaneamente frustrato il nostro desiderio di finire al più presto possibile. Poi finalmente terminiamo e magari ci sediamo per un momento, a bere quella famosa tazza di caffè. Ma è probabile che la nostra mente sia ancora bloccata nella modalità del fare, assorbita dai suoi vari piani e obiettivi. Perciò, anche mentre beviamo il caffè, è molto probabile che stiamo già pensando al compito sue-‘ cessivo che ci aspetta (fare alcune telefonate, controllare l’e-mail, pagare le bollette, scrivere una lettera, fare qualche commissione, ritornare a studiare o qualsiasi altra cosa).
Per un istante, magari all’improvviso, riprendiamo i sensi e ci sorprendiamo della tazza vuota che abbiamo in mano. L’ ho già bevuto? Evidentemente sì, ma non mi ricordo di averlo bevuto. Ci siamo persi il caffè che non vedevamo l’ora di gustare mentre stavamo lavando i piatti, proprio come ci siamo persi l’intera gamma di esperienze sensoriali legate al lavare i piatti: la sensazione dell’acqua, la vista delle bolle di detersivo, il suono della spazzola sul piatto o sulla scodella.
In questo modo, a poco a poco, momento per momento, la vita può passare senza che noi siamo veramente presenti a essa. Preoccupati come siamo di arrivare sempre da qualche altra parte, non siamo quasi mai dove ci troviamo effettivamente e non prestiamo quasi mai attenzione a ciò che si sta effettivamente manifestando in questo momento. Immaginiamo che saremo felici soltanto quando arriveremo in qualche altro luogo, ovunque esso sia e quando ciò potrà mai avvenire. A quel punto avremo “tempo per rilassarci”. Così rimandiamo la nostra felicità, piuttosto che aprirci alla qualità dell’esperienza che stiamo facendo proprio in questo momento. Di conseguenza, può darsi che ci sfugga la qualità dei momenti che si manifestano nella nostra giornata, proprio come non ci siamo accorti di lavare i piatti e di bere il caffè. In questo modo, se non facciamo attenzione, possiamo perderci gran parte della nostra stessa vita.
OLTRE LA CONSUETA ATTENZIONE AGLI OBIETTIVI
La modalità del fare è volta a conseguire obiettivi prefissati, concentrandoci sulla discrepanza tra la nostra idea di dove ci troviamo in questo momento e le nostre idee di dove desideriamo essere. La modalità dell’essere, per contro, non si occupa del divario tra il modo in cui stanno le cose e il modo in cui vorremmo che fossero. Almeno in linea di principio, non c’è nessun attaccamento ad alcun obiettivo da conseguire. Questo orientamento a “non lottare” contribuisce di per sé a liberarci dalla rigorosa concentrazione sull’obiettivo che è tipica della modalità del fare…
Pace
La pace è solo qui e adesso. È ridicolo dire: “Quando questo sarà a posto, allora potrò finalmente vivere in pace”. “Questo” cosa? La laurea, il lavoro, una casa, il pagamento di un debito? Pensando così, non avrai mai pace. C’è sempre un altro “questo” che viene dopo. Se non sei in pace in questo preciso momento, non lo sarai mai. Se vuoi davvero essere in pace, devi esserlo adesso. Altrimenti, ti culli nella vaga speranza di avere pace “un giorno o l’altro”.
Thich Nhat Hanh, Il sole, il mio cuore
Momento per momento
… Siamo prefissati. Ciò si rispecchia nel nostro modo di fare attenzione, che non giudica ed è improntato all’accettazione. Nella modalità dell’essere, scopriamo che possiamo sospendere la valutazione della nostra esperienza, non abbiamo bisogno di pensare a come “dovrebbe” essere, di chiederci se sia “corretta” o meno, se sia “abbastanza buona” o meno, se stiamo “riuscendo” o “fallendo”, persino se ci sentiamo “bene” o “male”. Ogni momento presente può essere accolto così com’è, in tutta la sua profondità, ampiezza e ricchezza, senza “secondi fini”, senza un costante giudizio su quanto il nostro mondo sia distante da come vorremmo che fosse. Che sollievo! Ma è molto importante avere chiaro che quando smettiamo di valutare costantemente la nostra esperienza in questo modo, non ci ritroviamo ad andare alla deriva, senza uno scopo o un obiettivo per le nostre azioni; possiamo ancora agire con intenzione e in modo mirato. Il lare compulsivo, abituale e inconscio non è l’unica fonte di motivazione disponibile. Infatti possiamo agire anche nella modalità dell’essere. La differenza è che non siamo più concentrati in modo così limitato sui concetti legati ai nostri obiettivi, né così attaccati a essi.
Questo significa che forse non saremo così turbati o paralizzati quando la realtà non si conforma alle nostre aspettative o agli obiettivi che abbiamo concettualizzato, quali che siano. In alternativa, in alcuni momenti potremmo essere molto, molto turbati e forse persino paralizzati. Tuttavia, consentendo alla nostra consapevolezza di includere anche quei sentimenti, questo semplice gesto di consapevolezza, come vedremo nei capitoli successivi, porta con sé nuovi livelli di libertà, che ci permettono
di essere con le cose così come sono (compreso il turbamento che proviamo) senza che debbano essere diverse da come sono effettivamente in questo momento.
Abbiamo già accennato a una seconda e profonda implicazione del prendere consapevolezza del nostro attaccamento endemico, seppure inconscio, agli obiettivi, quando passiamo alla modalità dell’essere. Il fatto, cioè, che forse non vivremo più nello stesso modo l’intera gamma di sentimenti ed emozioni sgradevoli che vengono generati automaticamente ogni volta che ci concentriamo sulla discrepanza tra come ci sentiamo e come vorremmo sentirci. Quando passiamo dalla modalità del fare alla modalità dell’essere, il conseguente cambiamento della nostra consapevolezza può estirpare alla radice molta dell’infelicità aggiuntiva che proviamo quando “rincariamo la dose”, diventando infelici della nostra infelicità, temendo la nostra paura, arrabbiandoci con la nostra rabbia o sentendoci frustrati per il fallimento dei nostri tentativi di superare la sofferenza tramite i pensieri. In questo modo eliminiamo una delle fonti primarie dell’escalation dei cicli di insoddisfazione e depressione ai quali siamo vulnerabili. Non occupandoci più costantemente di ciò che non va nella nostra esperienza, possiamo aprirci alla possibilità di provare un maggiore senso di armonia e di unità con noi stessi e con il mondo.
Ci è stato insegnato che prefiggerci degli obiettivi e lavorare per conseguirli è il modo per arrivare dove vogliamo: alla felicità. Quindi ci può risultare difficile credere che non aggrapparci agli obiettivi, per quanto meritevoli, possa essere la via d’uscita dall’infelicità. Abbiamo visto, però, che aggrapparci all’obiettivo di “riparare” ciò che possiamo facilmente considerare il nostro inutile sé ci trascina nella spirale discendente della ruminazione e della depressione; quindi forse riusciremo anche a vedere come l’orientamento della consapevolezza, improntato al non lottare, ci possa aiutare a evitare del tutto quella trappola. Ci consente di astenerci dal giudicare e dal condannare il nostro umore e dal tentare di fuggire da emozioni che non vogliamo provare. Di conseguenza, possiamo “staccare la spina” alla ruminazione depressiva e abbiamo la possibilità di liberarci dal suo inesorabile richiamo
AVVICINARE ANZICHÉ EVITARE
Come abbiamo già detto, “non lottare” non significa lasciarsi gal leggiare e andare alla deriva. Significa estendere la nostra sfera d’attenzione oltre a quanto è necessario per conseguire un particolare obiettivo. Significa anche che, anziché mettere in atto tenaci sforzi per respingere le emozioni “inaccettabili” che ci attraversano, andiamo loro incontro con un senso di accettazione. Ma la consapevolezza è ben lungi da una rassegnazione passiva. E un atteggiamento grazie al quale andiamo incontro a qualsiasi cosa ci si presenti e l’accogliamo intenzionalmente, comprese le esperienze interiori che normalmente combatteremmo o alle quali cercheremmo di sfuggire. I meccanismi di avvicinamento e di evitamen*Momento per momento sono fondamentali per tutti i sistemi viventi e per la sopravvivenza dell’organismo. In aree specifiche del cervello ci sono circuiti deputati a queste funzioni. La consapevolezza incarna l’avvicinamento: interesse, apertura, curiosità (dal latino curare), benevolenza e compassione. Come dice l’insegnante di meditazione Christina Feldman:
La consapevolezza non è una presenza neutrale o vuota. La vera consapevolezza è impregnata di calore, compassione e interesse. Alla luce di questa attenzione impegnata, scopriamo che è impossibile odiare o temere qualsiasi cosa o chiunque noi capiamo veramente. La natura della consapevolezza è l’impegno: laddove c’è interesse, segue un’attenzione naturale e non forzata.
L’approccio della consapevolezza è improntato all’apertura e alla sincerità e rappresenta un antidoto all’evitamento istintivo, che può alimentare la ruminazione. Ci offre un nuovo modo di relazionarci con noi stessi e con il mondo, anche di fronte alle minacce esterne e allo stress interno. Recuperando il controllo intenzionale della nostra attenzione, possiamo evitare di restare intrappolati nell’infelicità e nella depressione.
L’esercizio dell’acino d’uva passa era un accenno di come possiamo percepire questo spostamento intenzionale dell’attenzione. Che cosa potrebbe succedere se estendessimo l’approccio che abbiamo adottato nel mangiare un acino d’uva passa alla nostra vita quotidiana?
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