Perché medito?

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Perché medito?

di Stephen Batchelor

– Pratica e alienazione

In un racconto di Kafka si parla della Grande Muraglia, che correva
lungo il confine settentrionale e occidentale della Cina per
proteggerla dalle invasioni mongole. Nella storia – non so quanto
questo corrisponda al vero – si narrano le vicissitudini delle persone
che lavoravano alla costruzione del muro, costruzione durata anni e
anni, attraverso intere generazioni. A quel tempo, naturalmente, le
comunicazioni con la capitale erano difficili e lente. Non c’erano
aerei, telefoni o posta elettronica. Occorrevano giorni o settimane di
cammino per far pervenire un messaggio nelle lontane regioni dove si
svolgevano i lavori. Le direttive del governo centrale, così,
divennero sporadiche, finché in pratica a un certo momento cessò ogni
forma di comunicazione. Tuttavia le persone impegnate alla costruzione
del muro continuarono nella loro opera senza porsi troppi problemi,
interessati e affascinati dai particolari architettonici e tecnici,
colpiti dal modo in cui la Muraglia appariva esteriormente. E, in
generale, le popolazioni di quei luoghi periferici continuavano
tranquillamente la loro vita, occupandosi delle faccende di ogni
giorno, senza sapere neppure chi fosse l’imperatore regnante e a quale
dinastia appartenesse.

La parabola di Kafka porta con sé un tema che ricorre in tutta l’opera
dello scrittore: l’impegno in determinate attività senza un’idea
chiara del motivo per cui vengono svolte. Simili storie descrivono ciò
che oggi chiameremmo una condizione di alienazione. Mi sembra che
questa sia una tendenza così profondamente radicata nel comportamento
umano, almeno nel comportamento dell’uomo moderno, da rischiare di
coinvolgere anche la pratica della meditazione, che dovrebbe invece
essere un modo per superare l’alienazione.

Parecchi sono approdati al buddhismo in seguito ad alcune domande
molto profonde che cominciavano a nascere in loro e alle quali le
tradizioni della cultura occidentale non riuscivano a dare una pronta
risposta. Così sono arrivati a impegnarsi in una pratica come la
meditazione di consapevolezza, partecipando a incontri di gruppo e
diventando parti di una comunità che si riunisce regolarmente per
praticare questa forma di meditazione. Molti di noi si possono
riconoscere in questo tipo di percorso spirituale.

C’è però un pericolo: dopo un certo tempo ci si può abituare talmente
a questa attività — sedere sul pavimento di una stanza o camminare
lentamente su e giù oppure in circolo — che a volte l’attività stessa
finisce per diventare totalmente ‘autogiustificantesi’. Ci accorgiamo
a poco a poco, forse impercettibilmente, che non siamo più spinti
dalle motivazioni pressanti che ci hanno guidato nella fase iniziale,
ma frequentiamo il gruppo perché lo troviamo piacevole, perché vi
incontriamo cari amici, perché fa parte della routine settimanale. In
qualche modo ci troviamo distaccati dalle istanze primarie che ci
avevano indotto a cominciare la pratica. Possiamo diventare sempre più
competenti sia nella teoria che nella tecnica meditativa, possiamo
partecipare a interessanti discussioni con altri membri del gruppo
circa le differenze tra zen, vipassana, dzog-chen, diventare molto
abili nell’osservazione del respiro o delle sensazioni. Ma è possibile
che la nostra condizione sia per certi aspetti simile a quella delle
persone che, nel racconto di Kafka, hanno perso ogni contatto con il
comando centrale, e sono interessati solo ai dettagli e agli
abbellimenti della muraglia.

– La spinta a praticare

Facciamo un esempio per capire meglio. Immaginate di uscire per la
strada domani verso l’ora di pranzo e di fermare delle persone a caso,
raccontando loro ciò che abbiamo fatto qui stasera, descrivendolo
così: “Sono entrato in una stanza, mi sono seduto, ho osservato il
respiro, ho camminato in giro molto lentamente assieme ad altri che
facevano le stesse cose”. Che cosa capirebbero le persone a cui lo
dite? Quale sarebbe la loro reazione? Per quanto sia difficile
oggigiorno fare delle previsioni, suppongo che molti penserebbero che
siete un po’ matti, o che forse appartenete a qualche strana setta. Ma
il punto che mi interessa sostenere è questo: il significato della
meditazione non si trova in realtà nelle attività esterne a essa
connesse. Si trova invece nel contesto più ampio che la comprende, che
la precede o che la segue. Fondamentalmente il significato che diamo
alla meditazione si trova nella risposta alla domanda: “Perché
medito?”. Anche le persone che abbiamo ipotizzato di incontrare per
strada ci chiederebbero probabilmente: “Ma perché lo fai?”. Quando
cominciamo a rispondere a questa domanda, allora cominciamo a scoprire
che il suo vero significato e la sua giustificazione si trovano nella
relazione tra la pratica e la nostra vita nell’insieme, con le sue
aspirazioni più profonde. Suppongo che tutti noi, se ci chiedessero:
“Perché mediti, perché siedi qui osservando il respiro o cammini
lentamente intorno alla stanza?” avremmo una risposta – che peraltro
sarebbe diversa per ognuno – e potremmo dare un senso all’attività
svolta.

Guardando alla meditazione in questo modo, mi sembra che emergano due
punti importanti. Da una parte essa, come ogni tipo di pratica
spirituale, è la risposta a una domanda che la vita ci pone. Forse la
vita che facciamo ci rende agitati, disturbati, preoccupati, e la
meditazione ci può sembrare un modo di affrontare l’agitazione e la
preoccupazione. D’altra parte, forse essa risponde a una domanda più
religiosa, o filosofica, come: “A che serve la mia vita? Chi sono?”. È
probabile che la maggior parte di noi, che ci troviamo impegnati in un
gruppo di meditazione, sia qui proprio in virtù di domande come
queste, sia che siamo riusciti a formularle espressamente o meno. Solo
in collegamento con domande fondamentali come queste la pratica
mantiene un significato nel senso più profondo del termine. Infatti
noi potremmo anche diventare estremamente esperti in ogni esercizio
che ci viene insegnato: potremmo ad esempio sedere e osservare il
respiro per dieci ore di seguito; potremmo essere del tutto
consapevoli di ogni cosa che accade intorno a noi. Ma se una tale
abilità è distaccata dalle domande vitali, essa resterà un’attività
insensata.

– Restare in contatto con la domanda fondamentale

Conosco persone che si sono trovate a frequentare un centro di Dharma
per motivi diversi, come il fatto che il proprio partner lo
frequentava, e avevano una buona capacità di mettere in pratica con
successo le istruzioni date. Ma questo non significava in realtà
ancora nulla. Soggettivamente, quando perdiamo il contatto con le
domande fondamentali, sperimentiamo di solito un appiattirsi della
pratica, che diventa meccanica e abitudinaria. E sebbene possiamo
avere la soddisfazione di far parte del gruppo, di sentirci rilassati,
di vedere le cose con maggior chiarezza, scopriamo che gli esercizi
diventano un esempio di alienazione piuttosto che un modo per tenerci
in contatto con ciò che realmente conta nella vita. Una situazione del
genere diventa a volte un vero problema, se abbiamo investito molto in
questo tipo di vita. Potrebbe darsi che nel gruppo ci siano i nostri
migliori amici o che ci siano stati affidati incarichi di
responsabilità, come suonare la campana o scrivere articoli per il
bollettino. Esistono molti modi in cui il nostro ego viene rafforzato
dalla nostra appartenenza a questo gruppo. Così ci troviamo in
conflitto tra il desiderio di conservare alcuni vantaggi personali e
sociali, e il fatto che la nostra attività non sia più un sostegno e
una risposta alle domande esistenziali primarie. Al limite, possiamo
ipotizzare una situazione come la mia: io ho fatto di questa attività
la mia professione e sono per converso assolutamente ‘inimpiegabile’
al di fuori del contesto buddhista. Capite bene come sarebbe
problematica una crisi come quella che ho descritto!

Tutto ciò ci richiama alla sfida di essere onesti con noi stessi.
L’onestà principale sta proprio nel chiederci, mentre stiamo seduti
qui o camminiamo nella stanza: “Perché lo sto facendo?”. E nel
risponderci in modo da toccare le questioni veramente fondamentali.
Anzi, per rendere più pratico questo suggerimento, vi propongo, se
sentite che la meditazione sta diventando troppo meccanica o
routinaria, di estendere la domanda all’intera seduta.

Quando avevo da poco compiuto vent’anni e praticavo con i maestri
tibetani, mi si insegnava a meditare tutti i giorni sulla mia morte.
Potrebbe sembrare una specie di autoflagellazione monastica. In realtà
questo veniva inteso come un esercizio per tenere viva la domanda sul
perché stavamo facendo quello che facevamo. Riflettendo sul fatto che
la sola certezza davanti a noi è la nostra morte, e che essa può
capitare in qualsiasi momento, riusciamo a focalizzare meglio
l’attenzione su ciò che conta veramente. Possiamo riflettere un poco
su questo punto, in modo da evocare un senso molto forte della nostra
fragilità, della debolezza ed evanescenza della vita. Pensieri del
genere potrebbero farci affondare nella depressione e nello sconforto,
ma il paradosso è che invece ci procurano una specie di shock nel
riconoscimento che siamo vivi.

È interessante anche chiedersi perché la gente creda che meditare e
riflettere sulla morte sia un atteggiamento pessimistico, una
negazione della vita. In realtà man mano che diventiamo più coscienti
del fatto che la nostra vita finirà, la nostra consapevolezza che ora
stiamo vivendo, respirando, provando sensazioni, diventa più acuta. E
invece di pensare alla morte come a qualcosa che esiste separatamente,
indipendentemente, riconosciamo che la vita e la morte sono
semplicemente parte, in modo inestricabile, dello stesso fenomeno.
Quando riconosciamo questo, possiamo chiederci con maggior chiarezza
mentale: “Come mai sono qui? A che cosa serve che io stia qui?”.
Nell’ambito buddhista, la pratica della meditazione è un modo molto
diretto di rispondere a tali domande fondamentali sulla vita e sulla
morte. Perciò, quando la nostra pratica diventa piuttosto meccanica,
può essere utile sederci e chiederci: “Perché lo sto facendo?”. E
forse dietro a questa domanda ce ne possiamo porre un’altra: “A che
serve la mia vita, che senso ha la mia vita?”. Si può allora tenere
viva la meditazione mantenendola costantemente collegata con la
domanda che l’ha provocata inizialmente.

– Il rischio del ‘tecnocentrismo’

Il secondo punto, a cui avevo accennato, è il contesto in cui
inseriamo la pratica della meditazione. Credo sia molto comune in
Occidente, ma anche in Asia, pensare alla meditazione come a una
tecnica. Soprattutto in una società tecnologica è una tentazione
forte. Sembra in un certo senso ovvio che la meditazione sia una
tecnica con cui risolvere i nostri problemi. È interessante notare –
non so se sia il caso anche nella lingua italiana, ma certo lo è in
quella inglese – come i termini meditazione e pratica siano sinonimi.
Guardare la meditazione in questo modo ci tenta, perché è tipico della
nostra società contemporanea rapportarsi alle cose con un approccio di
problem solving, mettendosi nella posizione privilegiata di chi
appunto per mezzo della tecnica risolve le difficoltà. Per renderci
conto meglio di questo atteggiamento mentale, possiamo considerare le
fantasie su ciò che intendiamo con “avere successo nella meditazione”.

Naturalmente quando sediamo in meditazione dobbiamo solo osservare ciò
che sorge nel momento presente e lasciar andare il resto, essere
interamente qui e ora. Ma vi accorgerete che la mente genera ogni tipo
di sogni ad occhi aperti: una delle fantasie più frequenti verso cui i
frequentatori di centri spirituali possono essere trascinati è la
fantasia dell’illuminazione. Immaginiamo di raggiungere una qualche
grande visione mistica. Possiamo avere l’idea, magari solo
inconsciamente, che se conseguiremo un grado sufficiente di esperienza
nella tecnica meditativa, a un certo punto, improvvisamente, troveremo
la soluzione definitiva per tutti i problemi della vita.

Non voglio peraltro essere troppo radicale: certo, c’è un importante
elemento tecnico nella pratica, che possiamo imparare a sviluppare e
in cui possiamo diventare esperti. Il pericolo è un’identificazione
riduttiva della meditazione con questa abilità tecnica, ossia
un’equazione in cui il lato tecnico esaurisca la meditazione. Se
vogliamo capire meglio e dare un senso diverso alla nostra pratica,
possiamo leggere alcuni dei primi discorsi del Buddha. In questi
discorsi non vengono affrontati singoli problemi personali, non si
dice: “Osservate il respiro, fate questo e quest’altro, uno, due, tre,
centro!”. Invece il Buddha risponde alla molteplicità dell’uditorio
con un linguaggio molto ricco e complesso, aiutando le persone,
attraverso discussioni e descrizioni, a entrare in contatto con il
proprio mondo interiore. Egli non si presenta come una sorta di
tecnico spirituale. Quando descrive la pratica, che naturalmente
equivale al sentiero, non parla di diventare esperti in un’area
specifica della vita, ma di sviluppare una gamma di atteggiamenti e
riflessioni e talenti riguardanti tutto ciò che si fa nella vita
quotidiana.

La più famosa descrizione della pratica che fa il Buddha è
l’enunciazione dell’ottuplice sentiero. Gli otto fattori si
riferiscono al modo in cui vediamo noi stessi e il mondo di cui
facciamo parte, sono il nostro fondamentale “essere nel mondo”, la
nostra Weltanschauung. Essi hanno anche a che fare con il modo in cui
formuliamo idee, specialmente con il modo in cui perveniamo a fare
delle scelte etiche. Hanno a che fare con il coltivare ciò che è
chiamato ‘retta parola’ e ‘retta azione’, e con tutto il nostro modo
di interagire fisicamente con gli altri. Hanno a che fare col modo in
cui usiamo le nostre risorse, con cui manteniamo la nostra famiglia.
Comprendono le motivazioni che ci portano ad aderire a un certo modo
di vivere. Solo a questo punto il Buddha menziona la consapevolezza,
la concentrazione, lo sforzo eccetera. E la parola che noi traduciamo
con ‘meditazione’, o almeno una delle parole che traduciamo così,
bhavana, si riferisce al modo di comportarci in tutte le aree della
nostra vita. Come si suole dire, la pratica, nel senso più ampio, non
è riducibile a qualche sorta di tecnologia spirituale, ma riguarda
l’educazione a vivere in un certo modo. Il che ci riporta ancora al
punto da cui siamo partiti: il significato della meditazione, della
consapevolezza, della concentrazione e così via si trova nel più vasto
contesto di un modo di vivere. Il modo in cui vediamo noi stessi, il
modo in cui agiamo nel mondo, il modo in cui parliamo, in cui ci
guadagniamo da vivere: tutti questi fattori contribuiscono a far sì
che la meditazione e la consapevolezza siano per noi significative.

Guardando le cose in quest’ottica, ci sono due modi per ricordarci
come possiamo evitare che la meditazione diventi un altro aspetto
della nostra condizione alienata. Il primo è continuare sempre a porci
la domanda: “Perché lo faccio?”. Il secondo è chiederci: “In che
misura la pratica meditativa è integrata con gli altri aspetti della
mia vita?”.

La meditazione tende a diventare per noi alienante se perdiamo il
contatto con la domanda da cui ha avuto origine o se non riusciamo a
collegarla al contesto più ampio della nostra esistenza.

°°°

DOMANDA Potresti dirci qual è la tua risposta personale alla domanda:
“Perché medito?”.

RISPOSTA È un’ottima domanda, ma sono riluttante a fornire una
risposta semplicistica. Suggerisco piuttosto che ciascuno di noi
faccia questa domanda a se stesso. A dire il vero, credo che la
risposta per me vari continuamente. La cosa singolare, e forse un po’
strana, è che mi rendo conto di come tenere viva la domanda sia più
importante che avere una risposta.

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