Perché quando ascoltiamo musica non siamo mai davvero soli

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Perché quando ascoltiamo musica non siamo mai davvero soli

di Claudia Bertolini

23/03/2016

Una delle prime cose che faccio la mattina dopo il caffè, è pensare alla canzone che voglio
ascoltare per iniziare la giornata. La scelta non è mai troppo immediata ed è influenzata da
un’infinità di fattori: arrivata a un compromesso più o meno accettabile indosso le cuffie e
schiaccio play. Uscendo di casa, camminando e viaggiando sui mezzi pubblici mi rendo conto che tutte
le persone attorno hanno probabilmente compiuto la stessa operazione immergendosi in una sorta di
bolla comunicativa che li isola dal mondo. Descritta così sembrerebbe una situazione di volontaria
alienazione, in realtà se osservata da un altro punto di vista ascoltare musica da soli non è
necessariamente un’attività che ci isola, anzi, diversi studi dimostrano che non lo è praticamente
mai.

Qualsiasi innovazione tecnologica nella storia (radio, tv, etc) è stata accusata di influire
negativamente sulla società, sulle relazioni fra persone, rendendola sempre più atomizzata e
individualista. Nel campo musicale, scienza e sociologia hanno dimostrato che tutto questo non è
vero: la musica è per sua natura sempre legata a un aspetto sociale, fa parte del nostro linguaggio
e del nostro sviluppo cognitivo. Anche se stiamo indossando le cuffie soli nella nostra stanza, con
Spotify possiamo ascoltare quello che sta ascoltando un nostro amico a centinaia di chilometri di
distanza, possiamo sapere quale musica preferiscono i nostri artisti preferiti, condividere le
nostre playlist con gli altri e così via.

Istvan Molnar-Szakacs, neuroscienziato del Semel Institute di Los Angeles, conferma la cosa in modo
più scientifico: il potere sociale della musica è dovuto ai neuroni specchio perché quando
ascoltiamo una canzone si attivano le stesse regioni cerebrali di quando suoniamo, guardiamo
qualcosa o compiamo un’azione. Grazie ai neuroni specchio è come se ci identificassimo con l’altro,
in questo caso il musicista, riconoscendo e mappando a livello neurale la rappresentazione delle sue
azioni. Quando ascoltiamo una sequenza organizzata di suoni, nel nostro cervello si attivano una
moltitudine di associazioni: memoria, emozioni e programmi motori per suonare la musica. Il cervello
interpreta la struttura della musica come intenzionalmente prodotta da un umano, avvicinando
l’ascolto a qualcosa di molto simile a un’esperienza sociale. Insomma, è come se per il nostro
cervello il musicista fosse platonicamente con noi mentre lo ascoltiamo.

La tecnologia non ha imposto dei confini e dei limiti di socializzazione nell’ascolto solitario, ma
ha piuttosto creato nuovi modi di farlo, anche perché, se siamo davvero intenzionati a parlare e
condividere musica con qualcuno, lo facciamo nonostante le cuffiette.

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