Praticare con un sacchetto di sassi
di Chandra Candiani
Ma noi, noi
quando siamo?
Rilke
C’era una volta un bambino con un sacchetto di sassi, dovunque il
bambino andasse il sacchetto andava con lui. Certe volte, il bambino
avrebbe voluto perderlo per essere leggero come gli altri nella corsa,
per saltare con le rane e i caprioli, per addormentarsi su un cuscino
qualunque.
Per anni, la mia pratica è stata leggera e gioiosa, quasi come un
gioco: sedersi per terra ed entrare in uno spazio fatato, camminare
piano piano, delicati con la terra già tanto ferita. E poi c’era il
resto: incubi notturni, relazioni difficili un po’ con tutti, vivere
nascosta come un clandestino, uscire di casa come un profugo
indesiderato, e soprattutto il tentativo di nascondere tutto questo, a
me stessa e agli altri. A poco a poco però, mi accorgevo che c’era, in
ogni seduta, in ogni camminata, in ogni momento di vita, uno sfondo
che io negavo o da cui distoglievo svelta lo sguardo. Oppure quello
sfondo ero assolutamente io e da quello sfondo osservavo tutto il
resto. E quello sfondo diventava poi l’orrore di tornare a parlare
alla fine di un ritiro, il dover parlare con i negozianti nella vita
di tutti i giorni, fare solo lavori umili e sottopagati, svegliarmi al
mattino e sentire: “Oh, no!” e scendere dal letto come si emigra in un
mondo di estranei. C’erano anche dei momenti in cui sentivo di entrare
in stati di shoc, di colpo sentivo che i miei occhi si irrigidivano
fissando un punto e poi tornavo, ma cosa ci fosse in mezzo non lo
sapevo. E più mi dedicavo alla pratica intensiva e più mi accorgevo
che c’era un’enorme differenza tra i miei giorni e le mie notti, come
se addormentarmi fosse aprire un vaso di incubi e di terribili
minacce. Poi arrivava il mattino e tutto si cancellava.
A un certo punto, ho dovuto smettere di non occuparmi dello sfondo, ho
dovuto incontrare le ombre che lo abitano, ho dovuto conoscere lo
spazio che si stendeva tra quando fissavo lo sguardo e quando
ritornavo, ho dovuto sentire la leggera inimicizia per gli altri
trasformarsi in panico e orrore, ho dovuto aprire la porta ai traumi
del mio passato, aprire il mio sacchetto di sassi. Ho dovuto solo
quando ho potuto, questa è l’affidabilità della pratica, siamo sempre
pronti a quello che ci propone di vedere, perché è il Risvegliato che
è in noi che vede e che ci fa vedere.
Ma altre volte, il bambino era felice del suo sacchetto di sassi.
Erano le volte in cui soffiava un vento forte e i sassi tenevano il
bambino ben attaccato a terra; nelle notti buie c’era sempre qualcosa
su cui contare e sotto la pioggia il sacchetto di sassi gli proteggeva
le spalle.
La pratica della meditazione mi sembra sempre di più una pratica del
diventare vivi, tutti vivi, o del sapere di essere vivi, del sottrarre
alla morte sempre più pezzi di noi, del risvegliare il cuore, fino a
essere tutti cuore, non dimenticando di conoscere cosa sia davvero il
cuore, quale spazio vuoto e silenzioso si riveli essere, talvolta
deserto, talvolta terrificantemente silenzioso, talvolta così celato
da sembrare sommerso, e non una casetta carina piena di emozioni e
sentimenti del tutto inaffidabili. E mi sembra che un momento
essenziale del processo di diventare vivi sia mangiare il Dhamma,
comprendere gli insegnamenti col cuore e con le viscere, sottraendoli
all’intelletto, per poi riportarglieli una volta assorbiti perché
diventino anche riflessione.
La prima nobile verità del Buddha è: “C’è la sofferenza”. E questo
c’è’ mi colpì fin dalla prima volta, con uno strano soffio di
esultanza che gli sentivo soffiare dentro. “C’è, c’è, c’è” mi
ripetevo. Assomigliava all’evidenza della neve, o del mare, o delle
montagne; la natura certe volte sembra esultare nell’imperfezione,
nella sofferenza, nella gioia, nel tutto insieme, perché accetta
tutto, è un c’è’. E che anche la sofferenza sia un c’è’ rende una
condizione personale qualcosa di comune, come la neve, il vento, la
pioggia; certo che ognuno li sente diversamente, ma ci sono per tutti.
E passano. E tornano. E passano di nuovo. E si può dire: “Riecco la
pioggia, riecco il vento” e sorridere, perché li abbiamo riconosciuti.
Ma la sofferenza va compresa, sottratta all’indeterminatezza
dell’intelletto, perché è vero che è una condizione di tutti, ma è
altrettanto vero che è la mia quella che devo riconoscere per
potermene liberare. E qui si apre per me uno spazio in cui la pratica
diventa molto personale, in cui diventa pericoloso praticare come si
pratica’, in cui la relazione con gli insegnanti si trasforma, perché
un nuovo insegnante, assolutamente privato e personale nasce nel mezzo
del vuoto del cuore e la pratica diventa creare uno spazio silenzioso
perché possa parlare il più spesso possibile e portare agli insegnanti
le intuizioni del proprio personale insegnante per verificarle con le
loro. Allora il dubbio sparisce e la pratica diventa personalissima e
quanto più possibile continua. Allora una notte di incubi è la
pratica, sedersi al ristorante e sentirci come se stessimo per essere
lapidati è la pratica, rivelarci a noi stessi è la pratica, e non c’è
più da essere carini, normali, meditativi, buoni, c’è da essere quello
che già c’è e da non agire quello che di brutto comunque c’è e vuole
essere riconosciuto.
Molta della mia pratica ora consiste nel lasciar affiorare i traumi
del mio passato nascosti nelle stranezze più banali del mio presente e
nel dare dignità a queste stranezze’, nello smettere di voler essere
come qualcun altro, chiunque sia, anche tutti, anche il Buddha. I
ricordi mi servono per comprendere e curare le difficoltà del
presente. Non vado a caccia di ricordi, non mi tuffo nel passato per
fuggire dalla responsabilità di questo attimo che può essere vissuto
con gentilezza o con astio, scorgo il passato per poter essere più
responsabile, non per giustificare la mia irresponsabilità o la mia
noncuranza. Ricordare i traumi del passato non serve a diventare
speciali per gli altri, ma speciali per se stessi, davvero
specialissimi, cari al cuore, così cari che durante una seduta sentii
di essere il mio angelo custode, e che tutti lo siamo, che è proprio
questa la vita e la creatura che ci è stata affidata.
Fa parte della mia pratica ascoltare i bisogni apparentemente folli di
una bambina cresciuta nel terrore e vissuta con un sacco di sassi
sulle spalle.
Dice Claude Thomas in Semi di pace:
In tutta la mia vita, quando cercavo di parlare di queste cose, le
persone se ne andavano sempre via dicendo: “Oh, tu sei ipersensibile.
Non posso avere a che fare con te. Devo andare”. Sono arrivato a
comprendere che ciò che realmente volevano dire era: “Relazionandomi
con te sto toccando parti di me stesso che non voglio toccare. E non
ti voglio intorno per ricordarmi quello che non voglio toccare”.
Da quando lascio parlare i miei sassi, apro il sacchetto e li guardo,
da quando l’insegnamento diventa un vestito assolutamente su misura,
mi accorgo di chi mi fa male e di chi mi fa bene. Di chi sono per me i
saggi che il Buddha invita a frequentare e i folli da evitare. Ci sono
folli che si lasciano stringere tra le braccia, con cui si può ridere
a crepapelle per un albero buffo o con cui ci si può intendere con
un’occhiata di sbieco che ride all’angolo e ci sono persone carine che
ti guardano e sei già fucilata, che con mani invisibili ti chiudono la
bocca, perché cose carine da te non vogliono uscire, che fingono di
non vederti perché non sei mai un noi’. Va tutto bene, basta saperlo.
E non sottovalutare l’amicizia di alberi e animali. Ci sono animali
che riconoscono al primo sguardo un bambino coi sassi e accorrono più
veloci di un pensiero e gli fanno festa. Me ne accorgo? E ci sono
alberi che non vedono l’ora di essere abbracciati e nell’abbraccio
assorbono tutte le pene e le malinconie e dopo non si sentono
importanti. Ci sono alberi che ascoltano per ore i racconti dei
bambini coi sassi, e poi come per caso lasciano cadere ai vostri piedi
una foglia o una bacca. Ci sono alberi che toccano e ci sono alberi
che fremono tutti quando si passa, dopo essere entrati in confidenza
con loro. Basta accorgersene e ricevere questi amori di altri regni e
non montarsi la testa, perché lo fanno con tutti, assolutamente con
tutti, purché siamo disponibili e ne abbiamo bisogno.
La pratica della meraviglia è una pratica che cura anche il bambino
più sanguinante della terra. “In ciò che è visto ci sia soltanto ciò
che è visto…” è pratica della meraviglia. Quando i traumi, le
ferite, i ricordi salgono alla gola, si può andare a trovare un
piccolissimo pezzo di prato, un pizzico di prato c’è sempre, anche in
città. E guardare. A lungo. Si apre un universo minimo. Infinite
vicende, mutamenti, arrivi, partenze, forme sempre più piccole man
mano che lo sguardo si limita a vedere. Esercitare la meraviglia cura
il bambino malato che ha potuto esercitare solo la paura. Avere amici
animali e vegetali, praticare la vista meravigliata e meravigliosa
introduce al sollievo dell’impersonalità. Perché andare in profondità
non è l’archeologia della storia personale, ma sentire che non c’è
persona, assaporare la sofferenza senza cadere nella rete del
raccontarsela, ma lasciare che sia lei a raccontare, se ha qualcosa da
rivelarci, e sentire che i suoi racconti servono solo a renderci più
precisi nella compassione verso noi stessi, più acuti nel riconoscere
il c’è’ della sofferenza in noi e attorno a noi. Impersonalità non è
diventare invisibili e innocui, ma innocenti, consapevoli della
propria fragilità, consapevoli del c’è’. Consapevoli anche di
splendere. E splendere. Perché c’è, perché i bambini guariscono in
fretta se sono compresi e curati, non gli piace essere malati.
Accorgersi che anche la gioia è un c’è’, che è diversa dall’allegria:
non vuole essere dimostrata; se a un animale viene da sorridere,
sorride anche se è nel deserto, non vuole essere visto, non vuole
essere non visto. Dunque la gioia c’è ed è una gioia che tiene conto
del nostro dolore, non un’allegria che lo cancella. E’ una gioia su
misura, che ci conosce bene.
Così il bambino prese a rispettare e a custodire i suoi sassi, ad
amarli. E i sassi sentirono il loro cuore diventare leggero e in una
sola notte divennero piume.
Per i bambini la loro famiglia è l’unica che c’è, per quante cose
mostruose possano vedere pensano che siano le cose di tutti e si
assuefanno a sofferenze estreme e così diventano bambini coi sassi.
Allora, diventa pericoloso sentirsi dire: “soffriamo tutti” o
“anch’io, sai” e dover ascoltare per ore i racconti degli altri. Non è
questo il cè’ e bisogna scappare. La sofferenza è di tutti, ma ci
rende unici. E va compresa. Da noi. Chi si è assuefatto a sofferenze
estreme rischia di non saper stare coi momenti neutri, di non poter
vivere cose tiepide o normali. E non è solo, come credevo, un bisogno
di intensità, è che nei momenti neutri i sassi si fanno sentire di
più, sono più evidenti e pesano di più. Le vacanze, una festa, la
normale convivialità, i luoghi deputati al divertimento possono essere
delle vere torture, perché i sassi sono lì a dirci che siamo diversi,
che per noi non c’è levità. Ma non è vero, è solo che i sassi vogliono
essere visti e ascoltati, e perfino amati. Dopo aver compreso la
sofferenza, bisogna sapere di averla compresa e ci vuole coraggio,
perché allora si è anche più esposti di prima. Se so che andare al
ristorante per me è una tortura, se ho compreso che un cibo cotto
senza amore non può essere il cibo di cui ho bisogno, che non voglio
stare tra persone che parlano forte e non si ascoltano, che vieni
guardata e già liquidata, poco importa che questa sia solo la mia
esperienza, è stata compresa e va manifestata. Poco importa che non
sia normale, la follia è l’unica cura alla pazzia, non la normalità:
me l’hanno insegnato i sassi. Si perdono degli amici. Se ne trovano di
nuovi. E mica tutti sono bambini coi sassi, certi sono così leggeri
che vi aiutano a portare i vostri sassi, certi hanno sassi diversi,
così ci si dà una mano a vicenda, al ristorante porto i tuoi, in
macchina tu porti i miei. E si ride. Tirare fuori i propri sassi e
mostrarli agli altri è spesso comico. Certe volte tragico, allora si
piange, magari abbracciati, magari ognuno per conto suo. Vivi. E vivi
anche i sassi. E si può anche andare a pezzi.
Ci sono tanti modi per andare a pezzi. Io mi sdraio sul pavimento,
possibilmente di legno, o su un tappeto, ma è importante essere a
terra. Allargo le braccia e lascio che la disperazione mi passi sopra,
come una montagna, mi lascio squassare. E poi: “Finito!” dicono certi
bambini dopo aver pianto e urlato di disperazione. Niente spettatori,
solo noi, l’angelo custode di questa vita, quello che è già sveglio,
che sceglie già l’impersonalità della gioia.
E si può anche chiedere aiuto, sostegno. Lavorando nel giardino delle
verdure a Gaia House, ho notato quante piante hanno bisogno di
sostegno e quanti sostegni vengono loro offerti, di tutte le misure e
di diversa robustezza. E nessuna pianta si vergogna.
Allora, il bambino con quel leggerissimo carico sulle spalle, poté
finalmente inchinarsi fino a terra, riconoscente.
Emily Dickinson ha scritto:
Dove l’Amore si ritira
avanza la Morte Giardiniera.
Be, non ritiriamo l’amore, non ritiriamolo dai sassi, amare solo i
fiori è troppo facile e sentimentale.
Il Buddha ha detto: “Le porte del Senza Morte sono aperte”. Anche
adesso? Proprio in questo momento? Proprio qui? Possiamo entrare?
Davvero? Anche con i sassi? “La felicità è a disposizione, servitevi
pure!” dice Thich Nhat Hanh.
Oh, grazie!
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