Quanto possono influire la fede e la meditazione sui percorsi di guarigione?
(La scienza affronta il più controverso dei dilemmi. E spiega perchè
la religione aiuta)
Tratto da “L’ESPRESSO” del 23/02/2006 a firma di Ignazio Marino
(direttore del Centro Trapianti del Jefferson Medical College, Philadelphia)
E se pregare facesse bene alla salute? Gli interrogativi
sull’influenza delle azioni divine nel destino e nel benessere degli
uomini si perdono nella notte dei tempi e, quando la scienza prova ad
avvicinarsi alla questione affrontandola con i tradizionali metodi di
ricerca, le cose di complicano.
Eppure gli scienziati non si arrendono e continuano a studiare, e con
loro anche importanti istituzioni come il National Institutes of
Health (Nih), il più importante organismo di ricerca pubblico del
mondo, gestito dal governo federale americano. Proprio l’Nih negli
ultimi anni ha promosso numerosi studi sulla relazione che interrompe
tra la medicina, la preghiera e la spiritualità ed ha sostenuto, e
finanziato, la creazione di un centro totalmente dedicato a queste
ricerche: il Nccam (National Center for Complementary and Alternative
Medicine, che dal 1998 studia i meccanismi che intercorrono tra la
mente e il corpo e le reazioni, fisiologiche e psicologiche, che
vengono attivate grazie a pratiche spirituali come la preghiera ma
anche la meditazione, lo yoga, il tai chi e altre.
L’interesse verso questi temi è aumentato negli ultimi anni
soprattutto negli Stati Uniti, sulla spinta della New Age e di un
numero sempre più elevato di persone che si definiscono credenti e che
affidano alla loro fede grandi aspettative, certamente maggiori di
quelle che ripongono sui medici. Per quanto riguarda l’opinione
pubblica americana, i sondaggi stupiscono ma parlano chiaro. Il 79 per
cento della popolazione statunitense è convinta che la fede può
aiutare le persone a guarire da una malattia, il 63 per cento pensa
che i medici dovrebbero parlare di questi aspetti con i pazienti,
mentre il 48 per cento delle persone che sono state ricoverate in
ospedale, ammette persino che avrebbe apprezzato, in quella
circostanza, che il medico avesse pregato assieme a loro.
Queste convinzioni convivono con una medicina ipertecnologica e sono
molto diffuse non solo tra i cittadini che hanno una fede ma tra gli
stessi medici. Una ricerca condotta negli Stati Uniti dall’American
Academy of Family Phsicians, una delle principali società scientifiche
dei medici di medicina generale, ha messo in luce che il 99 per cento
dei medici di famiglia pensa che il credere in un Dio possa avere un
effetto benefico sulla guarigione e il 75 per cento ritiene utile la
preghiera, non solo se la richiesta di aiuto alla divinità viene
espressa dal malato ma anche per intercessione, ovvero da parte dei
familiari del paziente, dagli amici o da gruppi di preghiera.
Un’ulteriore testimonianza dell’interesse crescente attorno al tema
del rapporto tra religione e medicina si riscontra nel numero sempre
maggiore di università americane (ormai più di trenta, compresa la
prestigiosa Harvard Medical School), che negli ultimi dieci anni hanno
introdotto nei programmi di laurea delle facoltà di medicina anche
corsi di “Religione, spiritualità e salute”.
La questione non va considerata come una semplice moda passeggera
legata allo spirito del tempo, ma va affrontata da due diversi punti
di vista, quello strettamente scientifico e quello etico.
Un recente studio, pubblicato lo scorso luglio dalla rivista “Lancet”
si è occupato dell’impatto delle terapie noetiche, cioè che non
prevedono il ricorso a farmaci, alla chirurgia o ad altri interventi
tangibili, sul percorso di guarigione di pazienti con gravi problemi
cardiaci, come l’infarto. Una delle terapie analizzate è stata proprio
la preghiera nell’ambito di un’analisi condotta su 748 pazienti
ricoverati in unità coronarica. Tutti avevano firmato un consenso
informato in cui si spiegava che un gruppo di malati, pari circa alla
metà, avrebbe ricevuto oltre alle cure mediche, anche delle preghiere;
i nominativi di alcuni di loro sarebbero infatti stati consegnati a
gruppi di fedeli di varie religioni, cristiani, ebrei, buddisti e
musulmani, che avrebbero pregato per la loro guarigione. Per
assicurare l’obiettività dei risultati, i pazienti non sapevano a
quale gruppo erano stati assegnati e quindi nessuno poteva immaginare
se, al di fuori dell’ospedale, qualcuno pregava per il bene della sua
salute, oppure se la sua sorte era affidata esclusivamente alle
terapie mediche. Le valutazioni al termine della ricerca hanno
mostrato che il gruppo di pazienti che ha ricevuto le preghiere non ha
avuto un miglioramento immediato delle condizioni cliniche rispetto
agli altri, ma si è tuttavia osservata una riduzione del 36 per cento
delle complicanze e una minore mortalità a sei mesi dall’attacco di
cuore.
Risultati sorprendenti e controversi, accolti con grande prudenza
dalla comunità dei ricercatori, poco propensi a considerare come
attendibili dei dati che si prestano a facili interpretazioni e,
soprattutto, i cui meccanismi restano sconosciuti alla scienza.
Altre ricerche volte a scoprire un’eventuale relazione tra la fede, la
preghiera ed i processi di guarigione hanno fatto discutere e molte di
queste, condotte con metodi inattaccabili dal punto di vista delle
procedure e della rigorosità, sono state pubblicate da riviste mediche
autorevoli. L’attenzione si è concentrata soprattutto sui pazienti
oncologici oppure quelli con problemi cardiaci e ricoverati in unità
coronariche. Un gruppo di ricercatori della Duke University nel Nord
Carolina, per esempio, ha sostenuto il legame tra la pratica religiosa
e la pressione sanguigna, dimostrando che chi segue le funzioni
religiose, frequenta regolarmente la chiesa e legge la Bibbia con
assiduità mantiene la pressione bassa anche nella terza età, quando i
rischi di innalzamento dei valori sono molto frequenti, diminuendo di
conseguenza il pericolo di infarto o di altri problemi
cardiovascolari.
Gli effetti positivi dell’andare a messa sono stati osservati anche
nel percorso riabilitativo delle persone operate all’anca e c’è che si
è spinto ad individuare dei vantaggi anche sull’aspettativa di vita .
Due diversi studi, condotti su un vasto campione di persone, avrebbero
infatti messo in evidenza una minore mortalità fra le persone che
vanno a messa: un dato riscontrabile tuttavia solo tra le donne.
Certo, di fronte a risultati così poco scientifici, i dubbi si
moltiplicano eppure non bastano ad archiviare la questione. Per ognuno
degli studi esaminati, la scienza non riesce ad attribuire una
spiegazione univoca e a dare certezze, l’interpretazione si orienta in
base a chi analizza, se è laico o credente.
Nel primo caso si pensa che la preghiera, come anche la musica o la
pranoterapia possano indurre dei meccanismi fisiologici, come la
vasodilatazione o il rilassamento, che contribuiscono al generale
miglioramento delle condizioni di salute dei pazienti. Oppure c’è chi
sostiene che la preghiera potrebbe avere un effetto placebo, e indurre
benefici sulla salute di chi prega, dal momento che la sua azione
porterà a dei risultati positivi.
Per chi crede in un Dio, invece, è tutto più semplice e il merito va
attribuito all’appello rivolto alla divinità e alla sua risposta
positiva nel momento del bisogno.
Complessivamente comunque, il 57 per cento degli studi condotti su
questo tema dimostra che la preghiera, di qualunque religione si
tratti, esercita un ruolo positivo nel percorso verso la guarigione.
Tutti questi elementi, riscontrabili empiricamente, ma non spiegabili
scientificamente, conducono i medici a porsi degli interrogativi di
tipo clinico: se infatti è dimostrato, o per lo meno ampiamente
riconosciuto, che la preghiera può servire a migliorare le condizioni
di salute di un ammalato, allora il medico avrebbe il dovere di
includere nelle sue indicazioni al paziente oltre alla terapia anche
il suggerimento di determinati comportamenti? In altre parole, se i
medici hanno il dovere di suggerire ai pazienti che cosa mangiare, che
sport fare, quali comportamenti adottare, o evitare, per mantenersi in
buona salute o per guarire, perchè non dovrebbero prescrivere, ai
credenti, anche una discreta dose di preghiere?
Proviamo a fare un altro esempio: i dati della letteratura scientifica
dimostrano che chi si sposa, o chi conduce una vita di coppia stabile,
vive più a lungo rispetto a chi sceglie una vita da single.
Si potrebbe allora immaginare che il medico di famiglia suggerisca al
suo paziente arrivato in età da matrimonio, di mettere su famiglia per
il bene della sua salute e della sua vecchiaia? Dovrebbe forse
indirizzarlo ad un sito di incontri su Internet? Mi pare difficile, di
più, impossibile.
Sono questioni che riguardano la sfera personale di ognuno, come anche
la religione, in cui il medico non ha alcun diritto di intromettersi.
Esistono però delle circostanze che valgono come eccezioni.
Personalmente, reputo che se un medico ed un paziente, entrambi
credenti, si trovano a confrontarsi sul tema della fede, non ci sia
nulla di sbagliato dell’incoraggiare lui e la famiglia ad affidarsi
alla preghiera, anche come fonte di sollievo e conforto morale nel
momento di difficoltà. Io ammetto di farlo e di averlo fatto,
soprattutto quando vedo i limiti delle possibilità messe a
disposizione dalla medicina e quando sono consapevole che è stato
fatto tutto il possibile per curare un paziente. Ma parto dal
presupposto che questo tipo di dialogo può avvenire solo se entrambi,
medico e paziente, condividono la stessa convinzione sull’esistenza di
Dio. Non mi pare che in questo senso ci possa essere alcuna
controindicazione, anzi sono convinto che in alcuni casi un dialogo
sulla fede può rappresentare un elemento che avvicina il paziente al
suo medico, accresce la fiducia, diminuisce il senso di solitudine.
Un feeling positivo tra medico e paziente dovrebbe comunque stabilirsi
sempre, fede o non fede, sulla base del rispetto della dignità di chi
soffre.
Non si tratta dunque di dire sì o no alla preghiera o di sostituire
gli antibiotici con un brano della Bibbia o del Corano; le terapie
noetiche tuttavia non vanno eliminate dal percorso terapeutico ma
piuttosto affiancate alla medicina tradizionale, che invece spesso
tende a rifiutarle mostrando un senso di superiorità che forse invece
è solo arroganza.
La preghiera è a mio avviso un elemento di conforto che, da un punto
di vista clinico, aiuta il malato almeno quanto ascoltare una musica a
cui si è particolarmente affezionati; entrambe possono avere
un’influenza positiva sul cervello, i cui meccanismi ci sono ancora in
gran parte sconosciuti, e scatenare delle reazioni che aiutano nel
metodo di cura e nel percorso verso la guarigione.
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