Pregare, meditare… guarire

pubblicato in: AltroBlog 0
Pregare, meditare… guarire

9 agosto 2010

La fede religiosa e la spiritualità possono influire sullo stato di salute di una persona? Almeno
l’80% dei pazienti intervistati in uno studio multicentrico pubblicato in questi giorni
sull’Australian Health Review ne è convinto. Il campione indagato è particolarmente interessante
perché composto da australiani in buona parte non nativi, provenienti da 35 diversi paesi del mondo,
rappresentanti dunque di un ampio ventaglio di culture e fedi. Fra loro vi sono cattolici,
protestanti, ortodossi, buddisti, musulmani, ma anche chi si dichiara «spirituale, non religioso».
Tutti sentono il bisogno di poter attendere alla proprie pratiche devozionali anche durante il
periodo del ricovero: pregare, partecipare a cerimonie, leggere testi sacri, ascoltare musica,
meditare, accendere candele e incensi, conversare con religiosi su temi spirituali e via dicendo.
Queste abitudini sono considerate «un valido aiuto, in particolare durante gli stati di malattia,
perché aumentano il senso di benessere, danno forza e conforto, rinfrancano l’appartenenza alla
comunità, offrono una guida sicura, facilitano la riflessione sul significato della propria
condizione, riducono ansia, paura e sconforto».

E i medici cosa pensano in proposito? Sembrano lontani i tempi in cui Freud paragonava la religione
a una nevrosi… Dei 2.000 intervistati in uno studio dell’Università di Chicago, il 56% ritiene
infatti che l’influsso di religione e spiritualità sulla salute sia «generalmente positivo» e
consenta ai pazienti di fronteggiare al meglio la malattia (76%), anche se – come precisa l’82%
degli psichiatri – a volte può essere causa di emozioni negative che ne accentuano la sofferenza. Al
termine di un’ampia rassegna, Harold Koenig della Duke University è giunto a questa conclusione:
«Delle migliaia di studi scientifici che hanno indagato i rapporti fra religione e salute, la gran
parte riporta associazioni positive”.
Una ricerca della California Public Health Foundation di Berkeley, che ha seguito 5.000 adulti per
30 anni, ha dimostrato ad esempio che un’assidua partecipazione alle funzioni religiose può ridurre
il rischio di mortalità del 36%. Lo stesso è emerso da una indagine dell’Università del Texas su
20mila americani, il cui impegno nei servizi religiosi avrebbe concesso loro fino a 14 anni di vita
in più. Una meta-analisi di 42 studi condotta dall’Università di Miami su un campione di 126mila
persone ha messo in luce che «quelle religiosamente attive avevano il 29% di probabilità in più di
sopravvivenza nel periodo considerato, rispetto al resto della popolazione». Il rapporto positivo
fra spiritualità ed esiti di trattamento (“outcome”), in particolare nell’ipertensione, nei disturbi
cardiovascolari, nelle complicazioni chirurgiche, nei disturbi endocrini e immunitari, nelle
tossicodipendenze, nei disturbi mentali e nel dolore cronico è stato evidenziato in più occasioni
dalla rivista dell’Associazione dei medici di famiglia americani.

L’Università di Boston ha dimostrato l’efficacia delle pratiche orientali su un campione di 30
pazienti sofferenti di dolore cronico che, a 12 settimane, riuscivano a fare minor uso rispetto ai
soggetti di controllo di analgesici (13% contro il 73%) e di oppiacei (0%-33%), con un miglioramento
delle condizioni mediche generali (73%-27%). Una recente ricerca condotta in California su un
campione di 1.844 sopravvissuti al cancro ha dimostrato una elevata adozione da parte loro (66%) di
forme religiose e spirituali nel contesto della medicina complementare alternativa. All’Università
del Texas sono stati riscontrati in un gruppo di 84 donne con carcinoma mammario effetti positivi
della preghiera sul benessere fisico, non solo psicologico, delle pazienti. E il sorprendente
risultato a cui è giunto il professor Candy Gunther Brown del Dipartimento di Studi religiosi della
Bloomington Indiana University è che pregare per la guarigione di un’altra persona, specialmente se
lo si fa a stretto contatto con il malato, provoca un inspiegabile, effettivo, tangibile
miglioramento delle sue condizioni di salute, miglioramenti molto più rilevanti di quelli tipici da
suggestione o ipnosi.

Una rassegna di studi realizzata dalla Stanford University ha documentato l’effetto della
musicoterapia nella riduzione del dolore legato a interventi oncologici invasivi e al trattamento
con chemioterapia. Nel nostro Paese, uno studio pilota coordinato dall’oncologo Paolo Lissoni e
pubblicato sulla rivista “In Vivo” ha dimostrato che «L’approccio psicospirituale al trattamento del
cancro è stato in grado di aumentare l’efficacia della chemioterapia migliorando il decorso clinico
della neoplasia e la probabilità di sopravvivenza a 3 anni in un gruppo di 50 pazienti con tumore al
polmone, riuscendo a stimolare significativamente la risposta immunitaria anticancro mediata dai
linfociti».

Nuove evidenze sperimentali dell’effetto delle pratiche spirituali sul cervello arrivano anche dalla
disciplina emergente delle neuroscienze contemplative: «È stato dimostrato che i sistemi biologici
periferici con un ruolo decisivo nella salute di un individuo possono essere modulati dai circuiti
cerebrali sui quali agisce la meditazione», spiega Richard Davidson, ricercatore dell’Università del
Wisconsin. La meditazione, sperimentata nel contesto sanitario sin dai primi 60 a opera di Herbert
Benson, cardiologo dell’Università di Harvard, sarebbe in effetti in grado di influire sui ritmi
elettrici del cervello, sulla frequenza cardiaca e respiratoria, finanche sul metabolismo. Negli
anni è stata utilizzata con successo in sede di trattamento del dolore cronico, dell’insonnia, degli
stati ansioso-depressivi, della sindrome premestruale, dell’infertilità e nell’ambito della terapia
oncologica complementare. In Italia la meditazione è stata recentemente adottata come strumento
d’elezione in un «percorso di riduzione degli effetti collaterali della chemioterapia destinato a
pazienti con carcinoma mammario». Messo a punto dall’Ospedale Bellaria di Bologna, il progetto sarà
attivato a breve anche al San Carlo di Milano e alle Molinette di Torino.

E per le malattie che ancora non possiamo curare, come l’Alzheimer? «Dove non c’è cura, può esserci
spazio per l’accettazione della propria condizione, in vista di una pacificazione con se stessi e
con il mondo – sottolinea Christina Puchalsky della George Washinghton University – ed è proprio la
dimensione spirituale a consentirci di mantenere un senso di vita e di coerenza personale di fronte
a cambiamenti drammatici». Dal canto suo il professor Giorgio Lambertenghi, presidente
dell’Associazione medici cattolici di Milano, pur lontano dall’approccio anglosassone che, a suo
dire, «utilizzerebbe la spiritualità alla stregua di un antibiotico, di un salvavita, agente al
massimo come un placebo», si dice convinto che «la formazione del medico dovrebbe essere completata
anche da una adeguata preparazione filosofica, in modo da riuscire a prendere in carico la persona
nella sua integrità fisica, psicologica e spirituale».

Marco Mozzoni

da avvenire.it

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *