Su Krishnamurti
C’è una foto di Jiddu Krishnamurti, a trentaquattro anni, seduto e
quasi di profilo, sul lato sinistro, ma è voltato appena da mostrare
anche le nere ciglia dell’occhio destro. Le mani, aggraziate, curate,
sono sollevate davanti al volto, le dita incrociate e i gomiti
appoggiati su degli immaginati braccioli, fuori dalla cornice della
foto. La foto mostra i bottoni di metallo sulle maniche della giacca e
polsini e colletto di una camicia candida e aperta sul collo,
elegante.
L’espressione è attenta a qualcosa che gli è di fronte, profondamente
attenta, attentamente attenta, viene da dire. Krishnamurti aveva un
naso vistoso, dritto e bello, e bello era tutto il suo viso, scuro,
forte e dolce al tempo stesso. In questa foto i capelli neri e lisci
sono pettinati con disciplina: Krishnamurti sembra un attore senza
tempo, un Andy Garcia degli anni Trenta, più affilato.
Al tempo della foto Krishnamurti aveva appena sciolto l’Ordine della
Stella, la congregazione religiosa che gli era stata costruita attorno
“per preparare il mondo all’avvento del Maestro”, quando aveva ancora
sedici anni.
A Ommen, in Olanda, davanti a tremila seguaci, e trasmesso dalla radio
olandese, disse, sconcertando l’uditorio, “non è possibile organizzare
una fede, la fede è una cosa individuale, se lo fate essa muore, si
cristallizza, diventa un credo, una setta, una religione da imporre
agli altri”, e proseguì, “io non voglio appartenere a nessuna
organizzazione di tipo spirituale: per favore, cercate di
comprenderlo”. Così si concluse la prima parte della vita del più
straordinario predicatore di questo secolo, e forse del più vero.
La madre di Krishnamurti era una fedele induista, particolarmente
devota a Krishna, una delle incarnazioni di Visnù, ottavo nato della
sua famiglia. Chiamò perciò Krishnamurti (Krishna in terra) il suo
ottavo figlio, nato a Madanapalle, tra Madras e Bangalore, l’undici
maggio 1895.
Poco lontano, ad Adyar, una dozzina d’anni prima, si era trasferita la
sede della Società Teosofica, “una sintesi di scienza, religione e
filosofia” creata nel 1875 con lo scopo di “favorire la fratellanza
universale dell’umanità” da una signora russa, spiritista,
chiaroveggente e mistica, di nome Helena Petrovna Blavatsky.
La signora Blavatsky aveva girato il mondo e osservato fedi e
occultismi, per approdare negli Stati Uniti, dove, assieme a un
veterano della Guerra Civile, il colonnello Olcott, aveva creato la
Società e una dottrina con forti riferimenti alle religioni indiane e
orientali e un concetto impersonale di Dio.
Derivate dalle religioni indiane erano anche la teoria della
reincarnazione in stadi di evoluzione crescenti e la fede nei Maestri,
figure divine e terrene al tempo stesso.
Dopo la morte della Blavatsky e di Olcott, la presidenza della Società
fu affidata ad Annie Besant, una londinese, moglie di un reverendo,
che aveva attraversato impegni socialisti, femministi e a favore
dell’indipendenza indiana, e che si trasferì in India assieme al suo
braccio destro, Charles Leadbeater, un ex pastore anglicano.
Fu Leadbeater a accorgersi di Krishnamurti, figlio di un impiegato ad
Adyar, e di suo fratello Nitya, poco tempo dopo essere stato riammesso
nella Società da cui l’aveva allontanato il grave scandalo sollevato
da due ragazzi americani di cui era educatore, che avevano raccontato
di esserne stati incitati alla masturbazione.
Allora, Krishnamurti aveva quattordici anni e dava alla sua famiglia e
agli insegnanti l’impressione di un ragazzo dolce, riservato, a volte
quasi ottuso e con grosse difficoltà di apprendimento, salvo una
grande passione per la meccanica.
Suo fratello Nitya era spesso costretto ad andarlo a cercare dopo il
calar del sole per trovarlo imbambolato in un posto o nell’altro dei
dintorni. Ciò nonostante, dopo i primi incontri, Leadbeater convinse i
membri della Società teosofica e Annie Besant che il ragazzo possedeva
un’aura straordinaria e che era destinato a essere il messaggero
terreno della volontà dei Maestri, licenziando così un suo coetaneo di
Chicago, che Leadbeater stesso aveva prescelto pochi anni prima per lo
stesso ruolo (Hubert divenne avvocato e non gliela perdonò mai).
Negli anni della sua adolescenza, Krishnamurti fu educato alla
teosofia, alla sua responsabilità e ai costumi inglesi, e crebbe un
attaccamento filiale nei confronti di Annie Besant. Lei e Leadbeater
investirono nel ragazzo tutte le loro energie e percepirono da subito
i segni dell’esattezza della loro fede: i Maestri parlavano per bocca
di un sedicenne indiano un po’ spaesato.
Così, al tempo della foto, Krishnamurti era diventato un fenomeno
culturale, religioso e di costume straordinario. Il tipo di pubblico
dei suoi incontri (ricche nobildonne, artisti, persone in vista, le
cui donazioni hanno permesso fino ad oggi di finanziare fondazioni,
scuole e pubblicazioni) lo portava nel Kent, a Taormina, Biarritz,
Gstaad, in castelli olandesi, ville californiane, colline fiorentine.
L’Ordine della Stella aveva cinquantamila membri. I giornali parlavano
di lui, gli attribuivano fidanzate, e lo chiamavano “il messia in
abito sportivo” e “la divinità in calzoni alla zuava” o “un bel
ragazzo indiano timido e spaventato”.
Frequentava Aldous Huxley, per cui aveva un’enorme ammirazione,
Leopold Stokowski, Greta Garbo e George Bernard Shaw, che lo definì
“il più bell’essere umano che abbia mai visto”. John Barrymoore lo
voleva per la parte di Buddha in un film. Il presidente del Costarica
annunciò che il suo governo avrebbe seguito il pensiero di
Krishnamurti (quindi, ci fu una specie di sommossa cattolica culminata
nel rogo della sede della Società teosofica).
In Nuova Zelanda i suoi discorsi erano seguiti da migliaia di persone,
ma il governo ne vietava la trasmissione per radio. Chi lo ascoltava
parlare a braccio, malgrado non avesse delle vere doti da oratore, si
innamorava del fascino dei suoi modi e della leggerezza delle sue
risposte.
In lui convivevano personalità contraddittorie e capaci di annullarsi
ai piedi della sua filosofia. Era ancora indiano, soprattutto nel viso
e nel carattere, ma era diventato vistosamente inglese (dopo aver
sofferto terribilmente il primo paio di scarpe, non avrebbe più
perduto una pignola attenzione all’eleganza e al suo aspetto, che
giustificava col rispetto per le persone che incontrava).
Mostrava una maturità e un distacco eterei, ma nel poco tempo che
aveva si appassionava alle automobili e al golf. Aveva costruito una
profonda conoscenza di se stesso e una dottrina di grande completezza,
ma aveva mantenuto una grandissima ignoranza nei confronti di tutto
quello che era la cultura intorno a lui (leggeva solo romanzi gialli).
E dove lo trovava il tempo per imparare qualcos’altro? Quando non era
in giro per il mondo a diffondere il suo pensiero, si recludeva in una
casa della campagna californiana ed era abbattuto da periodi di
devastanti crisi “magiche”: veniva bloccato a letto da dolori
fortissimi e perdeva il contatto col mondo e con se stesso in una
trance da cui si sentiva arricchito spiritualmente, senza riuscire a
ricordarne quasi niente, ma col risultato di terrorizzare e convincere
della sua semidivinità chi gli stava vicino.
Poi, nella sua calligrafia rotonda e femminile, cercava di
ricostruirne le fasi. Il povero Krishnamurti faceva una vita
d’inferno, ma il bello è che non gliene importava niente: la sua
filosofia lo possedeva interamente. Ed era una filosofia che gli
diceva di rinunciare a se stesso, di eliminare il passato e la
memoria, che sono le fonti essenziali del dolore, di trovare Dio in
ogni manifestazione che osservava.
Si innamorò, una volta, di una giovane violinista americana
diciassettenne, lui ne aveva ventisei. Ma una volta passata, il suo
giovanile ed imbarazzato distacco dalle cose del sesso, si trasformò
pian piano in un distacco maturo e riflettuto nell’ambito del suo
stile di vita.
Al tempo della foto, però, Krishnamurti aveva superato una fase della
sua vita. Già a vent’anni si era sentito “privo di responsabilità e
trascinato di qua e di là come un bambino”, e questa riflessione sul
suo ruolo e sul suo messaggio si era via via evoluta.
Nel 1925 era morto l’inseparabile Nitya, abbattendo la sua fiducia
nella protezione dei Maestri. Nello stesso anno, in sua assenza,
alcuni membri dell’Ordine della Stella avevano sostenuto pubblicamente
di aver compiuto dubbie iniziazioni mistiche e si erano attribuiti
forti responsabilità religiose all’interno dell’ordine.
Il trentenne Krishnamurti stava perdendo la pazienza. Già al campo di
Ommen del 1926 (quindici anni dopo sarebbe diventato un lager
nazista), proprio mentre i suoi collaboratori preparavano nuove
strutture e prospettive per l’Ordine, alluse ai suoi dubbi: “voi non
dovete elevarmi ad autorità, alcuni di voi mi pensano un’acqua
miracolosa che vi renda liberi, ma non è così. La verità viene di
soppiatto, quando meno ve l’aspettate. La liberazione non è per i
pochi, i prescelti, gli eletti”.
Due anni dopo parlò all’Hollywood Bowl di Los Angeles davanti a
sedicimila persone e al campo olandese del 1929, infine, ruppe gli
indugi del suo attaccamento ad Annie Besant per sciogliere l’Ordine
della Stella e rinnegare la sua funzione:
– “A che serve avere dietro migliaia di persone che non ascoltano,
imbalsamate nel pregiudizio, che non vogliono il nuovo, ma
preferiscono adattarlo al proprio sterile, stagnante io? Dipendete da
qualcun altro per la vostra spiritualità e la vostra felicità, e
dovreste cercare dentro di voi. Quindi, a che serve
un’organizzazione?”
Inderogabilmente, Krishnamurti concluse così quel seguitissimo intervento:
– “Ho deciso di sciogliere l’ordine. Voi potete creare altre
organizzazioni e aspettare qualcun altro. Questo non è affar mio. La
mia unica preoccupazione è che gli uomini siano assolutamente,
incondizionatamente liberi. La verità è una terra senza sentieri”.
L’organizzazione attorno a lui collassò, chi gliene disse di cotte e
di crude, chi entrò in crisi, chi si adeguò ai suoi nuovi progetti.
Krishnamurti non smise infatti di andare raccontando la sua visione
del mondo e degli uomini, l’abbandono dell’Io e l’amore
incondizionato, e le sue mete si moltiplicarono (gli anni successivi
fu a Istanbul, Budapest, in Jugoslavia, ad Atene, Vienna, Oslo,
Parigi, Francoforte e Bucarest, dove incontrò la regina Maria; e poi
Brasile, Uruguay, Messico, Argentina, dove la stampa cattolica chiese
che venisse espulso, Cile, Australia e Nuova Zelanda).
Nel 1937 venne a Roma e parlò a casa di una contessa, perché ogni
discorso pubblico era vietato. Negli anni successivi soggiornò spesso
nella villa di un’amica, a Fiesole. Da Leadbeater, Krishnamurti si era
andato distaccandosi sempre di più, a partire dal processo a cui era
stato sottoposto dopo le accuse del padre di avergli sottratto
illecitamente e per scopi “innaturali” i figli, che egli aveva
consegnato invece alla Besant.
Dopo sentenze contraddittorie e rimbalzate tra l’India e
l’Inghilterra, Krishnamurti divenne maggiorenne e la questione si
perse. Dopo il discorso di Ommen, poi, Leadbeater disconobbe
completamente le tesi del suo discepolo. Annie Besant godette ancora
di tutto l’amore del suo figlioccio e non potè preoccuparsi a lungo
della sua defezione: morì nel 1933.
Nel 1956 Krishnamurti incontrò il Dalai Lama. Lo stesso anno conobbe
Bernard Berenson, che ne scrisse
– “Gli ho chiesto se non stesse inseguendo qualcosa di puramente
verbale. Lo ha negato fermamente, ma senza scaldarsi”.
La sua testa aveva cominciato a imbiancarsi, ma era sempre molto
elegante, sia nei vestiti occidentali (aveva un sarto di fiducia,
Huntsmann, a Saville Row) che in quelli del suo paese, che portava
ogni volta che tornava in India. Scriveva libri di riflessioni che si
univano alle pubblicazioni dei suoi discorsi: la bibliografia di cui è
autore è sterminata, anche in italiano.
Coi finanziamenti ottenuti fondava scuole in California, India e
Inghilterra, in cui pretendeva di liberare gli allievi dal male della
competizione, ma da molti anni soffriva fortemente di dolori al petto
e alla testa, che lo costringevano a pesanti periodi di riposo.
Continuava a vivere momenti di dissociazione estatica, che lo
stremavano nel fisico e lo riempivano di gioia (una volta ebbe la
compagnia di un altro se stesso mentre era sotto i ferri del
dentista).
Nei decenni successivi il suo discorso si andò ancor più raffinando e
sintetizzando. I cardini erano la liberazione dal pensiero sedimentato
(“Dio è una nostra invenzione”), la perdita del legame col passato e
la conseguente liberazione dal dolore, l’amore privo di condizioni nei
confronti del prossimo, la consapevolezza di se stessi, l’inutilità di
qualsiasi rito, studio e tecnica ai fini della crescita spirituale: la
vera meditazione è “fare scoperte inattese e stupefacenti al proprio
interno, non la formula ripetitiva del mantra, del respirare con
regolarità, del sedere in una qualche postura” (Van Morrison dedicò a
Krishnamurti una canzone e il titolo di un album, No guru, no method,
no teacher).
E ancora il superamento della paura della morte, e di “tutta la
tiritera della reincarnazione”.
Ed era impressionante l’apparente completa aderenza della sua persona
a questo pensiero, la sua capacità di svuotarsi e liberarsi di legami,
ricordi, atteggiamenti. A quasi ottant’anni dava ancora l’impressione
di “un essere del tutto straordinario, dai modi principeschi”.
Già molto anziano incontrò una volta in aereo il Maharishi Mahesh, ma
ne fu infastidito (“vorrei vedere i suoi registri contabili”). La sua
salute era sempre più malandata, ma non smetteva di appassionarsi a
macchine ed elettrodomestici.
Quando Indira Gandhi andò a trovarlo, gli fece l’impressione di una
donna molto infelice. A ottantasette anni parlò davanti a duemila
persone ad Amsterdam e a tremila alla Carnegie Hall di New York.
Quando gli chiedevano che pensava di questo perdurante successo, si
metteva a ridere sbalordito e rispondeva “è una cosa da pazzi!”. Un
giornalista gli chiese se sentiva di aver cambiato in qualche modo il
modo di vivere delle persone: lui rispose “un po’, ma non molto”.
“Se sto per morire, ti telefono immediatamente”, disse all’amica Mary
Zimbalist, che voleva accompagnarlo nell’ultimo viaggio in India,
all’inizio del 1986, dove tenne ancora una serie di discorsi.
Rientrato in California, fu presto ricoverato e si appassionò al
meccanismo di sollevamento della barella sull’ambulanza. Chiese che le
sue ceneri fossero disperse, senza “un luogo sacro dove la gente va a
venerare e tutto quell’orrore”. Malgrado questo, la sua inclinazione
alla chiaroveggenza continuò a dirgli fino a poco prima della fine che
sarebbe vissuto ancora qualche anno, per portare a termine i suoi
progetti.
Morì il 17 febbraio 1986.
Lascia un commento