Prima medita e poi cambia il mondo
di Cristiana Ceci
Sveglia alle quattro, un’ora di preghiere, frugale colazione a cui segue
l’uscita per la questua giornaliera. Riempite le ciotole, i monaci consumano
il loro ultimo pasto a mezzogiorno, dopo le offerte alle statue del Buddha,
un rito da compiersi anch’esso entro mezzogiorno: un dettaglio fra i tanti
per sottolineare come nella vita quotidiana i ritmi dell’Illuminato e quelli
dei monaci siano simbolicamente i medesimi.
Il resto della giornata è dedicato alla meditazione e alla recitazione dei
sutta.
Siamo nello Htan Taw Pariyati Sathin The’ik (letteralmente ‘il monastero per
lo studio della Legge del Buddha sotto le palme’), sulla collina di Sagaing,
una ventina di chilometri scarsi dalla città di Mandalay. Insieme, Mandalay
e la collina di Sagaing, costituiscono uno dei centri spirituale più
importanti della Birmania, con 23 mila monaci negli oltre 400 monasteri
concentrati nella zona. Ecco perché proprio a Mandalay un imponente corteo
color amaranto ha sfilato in strada, portando le statue del Buddha.
Il Buddha qui è ovunque ed è la chiave per comprendere il Paese. Il buddismo
birmano è il Theravada, la ‘dottrina degli anziani’, l’unica sopravvissuta
delle prime diciotto scuole che si diramarono dal buddhismo originario
intorno il III secolo a. C.: è quindi oggi la più antica. Scuola minoritaria
(diffusa solo in Birmania, Sri Lanka, Cambogia, Thailandia e Vietnam) è
considerata la più aderente all’insegnamento originario del Buddha storico.
Il Theravada è diverso dalle più tarde scuole Mahayana (‘Grande veicolo’),
ramificate in tutto l’Estremo Oriente. La differenza fondamentale sta
anzitutto nella figura di riferimento ideale. Per il Theravada, e dunque per
i birmani, l’enfasi è sulla responsabilità personale e la figura ideale è
l’Arhat, l’illuminato che ha raggiunto la liberazione come un alpinista
solitario raggiunge la vetta. Il Mahayana esalta invece la dimensione
collettiva. In entrambe le scuole di pensiero, però, il buddismo insegna la
fondamentale importanza della responsabilità verso tutti gli esseri viventi.
Il cammino verso la liberazione interiore comporta l’adesione è un codice
etico che implica, fra l’altro, l’azione non violenta. Ecco perché il
buddista non può essere indifferente al mondo, e tanto meno alla violenza.
Al monastero di Sagaing il Tipitaka, il Canone in lingua pali del buddhismo
Theravada, è vergato su foglie di palma, che dopo la lettura, ogni giorno,
vengono riposte in preziosi tessuti e custodite in grandi armadi in stile
coloniale. È la raccolta di testi base di tutti i buddisti in Birmania, dove
vengono descritte le regole di condotta della comunità monastica e riportati
i discorsi del Buddha.
E fra quei testi c’è il Metta sutta, il ‘Discorso sulla benevolenza
universale’, lo stesso intonato nei cortei di Rangoon.
Al termine della recitazione, l’abate ci mostra il dormitorio del monastero.
Perché, racconta, è stato costruito proprio sopra una trincea scavata dai
giapponesi durante l’occupazione. “Siamo sempre sulla storia”, commenta con
un sorriso. E’ vero, i monaci qui sono nella storia e non da oggi. Uno dei
grandi maestri birmani a cui si ispirano i principali centri di meditazione
è stato Sayagyi Ba Khin (1899-1971): laico profondamente buddista (come la
premio Nobel Aung San Suu Kyi), riuscì ad essere sia uno straordinario
insegnante di meditazione Vipassana (la tecnica più diffusa fra i buddisti
di scuola Therevada) sia un sensibile e incisivo funzionario governativo
nella Birmania democratica post-coloniale. Questo connubio di responsabilità
etico-sociale e di dottrina buddhista, evidente ora nei monaci della
rivolta, è visibile anche in tempo di pace: sono i monaci, ad esempio, ad
offrire vitto e alloggio agli anziani che non possono più lavorare, in un
paese in cui non esistono le pensioni. E sono i monaci a garantire
istruzione ai ragazzi in un paese dove la scuola è riservata ai ‘very rich’.
Il mix religioso e sociale è stato analizzato di recente da Paul R.
Fleischman, psichiatra americano e maestro di meditazione Vipassana vicino
al buddhismo Theravada, che ha scritto un libro dal titolo ‘Buddha Taught
Non Violence, Not Pacifism’ (pubblicato da Pariyatti), proprio per
sgomberare il campodalla confusione dei termini non violenza e pacifismo.
Non violenza, scrive, è sì uno dei concetti imprescindibili del buddismo. Ma
se è vero che nega ogni forma di guerra, non è altrettanto vero che coincida
con il pacifismo. Perché la via indicata dal Buddha storico è prima di tutto
quella della moralità, della responsablità individuale nei confronti di
quanto accade dentro e fuori di sé. È dunque impegno etico, non fuga da ogni
coinvolgimento, non acritica inazione.
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