Qual è il vero successo?

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Qual è il vero successo?

di MARCO FERRINI

(Parte I)

La conoscenza di noi stessi e dell’altro è il primo passo necessario da compiersi se vogliamo
evolvere, progredire, star bene e realizzare lo scopo della vita.

Tale conoscenza si acquisisce se prestiamo attenzione al piano intellettuale-razionale ma allo
stesso tempo anche a quello emozionale, e soprattutto se andiamo alla ricerca dell’identità
spirituale profonda di una persona.

Emozioni e pensieri sono come due correnti di acque psichiche che dovrebbero trovare una loro
integrazione sul piano spirituale, essenziale per acquisire una conoscenza profonda di noi stessi e
dell’altro e per armonizzare le varie componenti della personalità facendone un modello evoluto e
piacevole, capace di interagire costruttivamente con il mondo e con i vari soggetti.

Uno dei principali temi che mi ha da sempre stimolato nella vita è come entrare in rapporto con gli
altri, con i nostri compagni di viaggio nel percorso della vita, offrendo a ciascuno un contributo
di valore, la possibilità di esprimersi e realizzarsi anche attraverso di noi….

Diventare dunque strumenti di evoluzione, come scale che aiutano le persone ad innalzarsi e a
spiccare il volo, mezzi attraverso i quali gli altri possono esprimere il meglio di loro stessi.

Questa è stata una delle mie prime più grandi ambizioni, che risale ai ricordi più lontani della mia
gioventù: come aiutare le persone che incontravo a realizzare il livello più alto di libertà, di
felicità e soprattutto di creatività, aspetto quest’ultimo che ancora per me rappresenta, dopo 60
anni da allora, ovvero dalle mie prime esperienze relazionali, il traguardo più grande cui mirare.

Nella mia professione, nei miei vari impegni sociali e culturali, il fil rouge, il tratto fondante
che ha da sempre caratterizzato ogni mio sforzo, è stata l’attenzione e la cura rivolta alle
persone. Il più grande capitale è infatti quello delle relazioni, dei sentimenti genuini di amicizia
vissuti in piena consapevolezza e in libertà.

E’ infatti fondamentale aiutare le persone a riappropriarsi della propria autonomia, della libertà
di essere se stesse, secondo la propria originaria natura. Aiutarle a non aver paura
dell’imperfezione, dell’insuccesso, del fallimento, a non avere paura neanche della paura.

Per stimolare a credere in se stessi non c’è modo più efficace e più proficuo che aiutare a
sperimentare gocce di successo e queste gocce di successo sono veramente tali quando si nutrono
dell’esperienza dell’amore. Solo chi ha sperimentato l’amore – anche se solo in piccola misura – può
donarlo agli altri.

Nella mia vita ho avuto esperienze di grande successo professionale, conseguendo risultati che visti
dall’esterno erano sicuramente apprezzabili, ma io non consideravo quello il vero successo. Più
l’apparente successo cresceva, più io mi sentivo deluso e inappagato.

Ero arrivato a perdere interesse per qualsiasi valore convenzionale, proprio perché quei valori
convenzionali erano collegati ad uno pseudo-successo. Mi sono ritrovato nel “mezzo del cammin di
nostra vita” con la forte necessità interiore di rivedere a fondo le mie priorità, di ripensare ai
miei obiettivi, di riesaminare quel modello convenzionale di successo che agli occhi degli altri era
la mia vita ma che per me, vista dall’interno, era una plaga deserta, una corsa verso il fallimento,
ed il timore più grande era che il mio diventasse un fallimento strutturale: l’accettazione di una
serie di stereotipi sui quali adattarsi in maniera ipocrita scambiando l’insuccesso per successo o
almeno dandolo a credere.

Tutti gli oggetti che mi circondavano e che erano esteriormente il segno del mio successo mi davano
molto da pensare: io in realtà non li riconoscevo come tali e sapevo che attaccandomi ad essi in
verità mi sarei attaccato al mio insuccesso, ad una immagine di me stesso che mi piaceva sempre meno
perché legata a pseudo-valori.

Da qui è cominciato il mio viaggio di ricerca intenso, anche duro inizialmente, ma sempre
affascinante per i preziosi risultati che ha prodotto permettendomi di avvicinarmi alla mia natura
profonda, alla mia identità vera.

(Parte II)

IL FILO CONDUTTORE DEL MIO VIAGGIO INTERIORE

Avevo intorno ai trent’anni quando ho fatto la scelta risoluta, molto sentita interiormente, di
andarmi a ricercare in profondità, per dismettere una ad una le maschere che fino ad allora si erano
stratificate sul volto della mia vera identità. Avevo testimoniato i moti del ’68 e il tentativo
fallimentare di applicarne i valori; cercavo matrici sia culturali che spirituali cui riferirmi per
fare un percorso di conoscenza interiore alla ricerca di me stesso e con questo obiettivo cominciai
a viaggiare verso est.

Man mano che proseguivo nella ricerca emergevano illuminanti anche le scoperte, che avvenivano
puntualmente sempre in concomitanza di incontri con persone speciali.

Attraverso questi incontri facevo la scoperta di mondi interiori che si rivelavano per me
affascinanti, anche quando all’esterno queste persone portavano il segno del fallimento sociale,
politico od economico.

Nei loro racconti di vita usciva la parte migliore del loro essere, le loro aspirazioni ideali, il
desiderio di evolvere, di realizzare la migliore versione di se stessi anche quando essa contrastava
con chi erano al secolo, con il loro io storicizzato. In gran parte le loro crisi derivavano proprio
dalla tensione, dal conflitto tra ciò che erano e ciò che avrebbero desiderato essere…

Vivevo in mezzo ad una umanità sofferente, ma anche affascinante perché ricercava la perfezione e
l’idealità, sapendo benissimo di non essere né perfetta né ideale. Questi incontri sono stati molto
importanti per la mia crescita, così come poi è stato determinante, di importanza unica e
imparagonabile, l’incontro con il mio maestro, Bhaktivedanta Svami Prabhupada, autorevole
rappresentante della tradizione spirituale dello Yoga della Bhakti. L’incontro avvenne in India
nell’agosto del 1976.

Il mio viaggio interiore ha sempre avuto un filo conduttore: la psicologia e la filosofia
dell’essere ricercata nei testi sapienziali, nelle opere antiche, con la sfida di tradurre i loro
insegnamenti universali ed il loro portato di esperienze in un linguaggio moderno e attualizzato che
potesse essere comprensibile e utile ai miei contemporanei, prima ancora che a me stesso, perché
ormai avevo capito che il compito cui dovevo assolvere era aiutare gli altri, chiunque essi fossero,
ad esprimere al meglio le proprie potenzialità.

Sentivo, se vogliamo egoisticamente, che il mio benessere era il loro benessere, che il mio successo
era il loro successo; percepivo che la mia vita prendeva senso nella misura in cui aiutavo le
persone che incontravo a scoprire il loro senso del vivere.

Sono passati quarant’anni da allora e sempre più si è intensificata e affinata la mia ricerca che ha
come primario obiettivo aiutare le persone a realizzare la propria felicità. Che parola difficile ed
impegnativa: essere felici. La utilizzo con parsimonia, usando spesso al suo posto termini come
lietezza, contentezza, benessere, perché la parola felicità indica un livello molto superiore e
assai raro: essa indica quella beatitudine che nei testi vedici è definita ananda ed attiene a
sentimenti sul piano puramente spirituale, inerenti il vero sé, che non dipendono da quel che accade
all’esterno. Non è infatti tanto importante quel che succede quanto come noi rispondiamo agli
eventi. Quante centinaia di migliaia di persone hanno risolto i loro problemi semplicemente
sviluppando distacco emotivo da quel che stava loro accadendo, rompendo le catene della dipendenza
psicologica, pseudo-culturale, pseudo-religiosa.

Essere distaccati da quel che accade non significa diventare fatalisti; il fatalismo è anzi un grave
difetto della personalità perché implica un atteggiamento di rinuncia negativa passiva ed in ultima
analisi distruttiva. Essere distaccati emotivamente significa invece imparare ad individuare le
dinamiche che muovono gli eventi per dare risposte costruttive, evolutive, progettuali, affinché
ogni accadimento possa diventare un’occasione preziosa di crescita, un’opportunità di rinnovamento
interiore…

(Parte III)

LA LEZIONE PIÙ IMPORTANTE

Il mio percorso di vita e di ricerca spirituale ha sempre avuto come fondamento e filo conduttore
gli insegnamenti degli Shastra, i testi che rappresentano le fonti della filosofia perenne dello
Yoga della Bhakti, in primis Bhagavad-gita e Bhagavata Purana.

In questo percorso, iniziato nel 1976 con l’incontro con il mio Maestro, Bhaktivedanta Svami
Prabhupada, una realizzazione si è sempre più stagliata, impressa e definita nella mia coscienza: la
realizzazione della necessità e urgenza di elaborare il rapporto con la morte, propria e altrui,
poiché non ci può essere prospettiva di serenità, e che dire di felicità, fintanto che tale rapporto
rimane oscuro, tormentato, irrisolto.

Aiutare se stessi e gli altri in un autentico processo di evoluzione significa in prima istanza
favorire la comprensione e realizzazione del perché della malattia, della vecchiaia, della morte e
ancor prima significa saper rispondere alla domanda: chi muore? Cosa muore?

In occidente la morte viene generalmente intesa come dissoluzione, scomparsa, fine di tutto, termine
irrevocabile della vita, mentre nella cultura indovedica essa rappresenta il termine di un segmento
di vita nel fluire eterno dell’esistenza e prelude ad altre esperienze. Secondo quest’ultima
prospettiva, nell’esperienza dei vari cicli di vita, la morte è considerata l’esame più importante
che, se superato, consente di accedere a dimensioni più evolute. Nel momento della morte risultano
determinanti le varie esperienze di vita: ognuno alla fine muore come ha vissuto, con la stessa
qualità e livello di coscienza.

Quando una persona entra nella traiettoria accelerata verso la morte, come possiamo aiutarla
interiormente a superare la “crisi”, ad affrontare la paura della morte, la desolazione dell’ignoto,
il distacco da tutto ciò per cui ha vissuto e che le è caro? Come possiamo aiutare i suoi familiari,
parenti o amici ad elaborare la sofferenza del lutto?

Ognuno dimostrerà la sua propria capacità di tenuta in proporzione a quanto ha scoperto se stesso in
profondità, e il nostro contributo può essere importante per stimolare ciò.

Le lotte furibonde che il soggetto fa con i brandelli della propria personalità, con i fantasmi
della memoria che celano pesanti sensi di colpa, rendono difficile il rapporto con il processo del
morire e complicano notevolmente il passaggio per quella tappa cruciale e inevitabile nella vita di
ogni essere incarnato. Talvolta in questa delicata e sofferta fase tornano alla memoria esperienze
dell’infanzia o dell’adolescenza, amori vissuti e naufragati, persone che apparivano dimenticate ma
che ritornano alla ribalta come figure inquietanti, minacciose, per cui fintanto che non è avvenuta
una rappacificazione con loro non si riescono a placare angoscia e tormento.

Tante esperienze vissute di accompagnamento al morire mi hanno formato, modellato, mettendomi in
crisi, facendomi piangere ma anche gioire assieme a chi si stava preparando all’ultimo viaggio in
questo segmento di esistenza. Ho incontrato persone che all’inizio di questo percorso si sentivano
disperate, perse, oscurate interiormente, ma che nel corso di questa esperienza si sono arricchite
in maniera straordinaria scoprendo il giusto rapporto con loro stesse e con la morte. Imparando a
fare i conti con la propria morte s’impara a fare i conti anche con la propria vita, si fanno
bilanci di quel che è stato fatto per mettere a punto progetti evolutivi. S’impara a ben dialogare
con la propria coscienza elaborandone i contenuti, perché essa nel suo profondo ha registrato ogni
esperienza vissuta: immagini, volti, nomi, emozioni, sentimenti, circostanze dimenticate o rimosse
ma che improvvisamente possono riaffiorare alla soglia della coscienza creando stupore, talvolta
sgomento o paura. In questi momenti in particolare è importante aiutare la persona a riconoscere gli
errori compiuti senza perdere coraggio e fiducia in se stessa e a trovare dentro di sé quella
riserva spirituale inesauribile dalla quale può sempre attingere, fino a percepire il proprio
originario, eterno e sublime rapporto d’amore con Dio e con ogni sua creatura.

Gli individui agiscono e interagiscono a seconda del proprio livello di consapevolezza ed è tale
consapevolezza che dovrebbe essere coltivata sopra ogni altra cosa come il patrimonio più prezioso e
salvifico anche nelle circostanze più temibili. L’accresciuta consapevolezza ci aiuta a vivere ogni
crisi, anche la più cruciale rappresentata dalla malattia incurabile e dalla morte, come occasione
di evoluzione e superamento dei propri limiti. Anzi, la crisi più grande, quella collegata al
morire, può svelarci il bene più grande, il più grande segreto della vita: la realtà oltre
l’illusione, il permanente oltre l’effimero, il sé oltre l’ego. In ciò consiste il più alto e
autentico successo che si possa conseguire.

Marco Ferrini

da www.marcoferrini.net/

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