Quando dimenticare aiuta a ricordare

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Quando dimenticare aiuta a ricordare

08 novembre 2018

Poter dimenticare in modo selettivo eventi già consolidati nella memoria a lungo termine, ma
diventati di scarso interesse, è essenziale per mantenere l’efficienza di elaborazione del cervello.
Questa capacità richiede l’intervento attivo delle aree superiori del cervello, ha un elevato valore
adattativo e si è conservata per milioni di anni di evoluzione (red)

da lescienze.it/news

Esiste una forma di dimenticanza che è ben distinta dal semplice “non ricordare”, si tratta di una
vera e propria attività che interessa ricordi specifici e che per essere realizzata richiede
l’impegno di aree superiori del cervello. Questo tipo di dimenticanza ha un’importante funzione
adattativa, e si è conservata nel corso dell’evoluzione per milioni di anni. A confermare quello che
era un sospetto da tempo nutrito dai neuroscienziati è uno studio effettuato da ricercatori
dell’Università di Buenos Aires, in Argentina, e dell’Università di Cambridge, in Regno Unito, che
firmano un articolo su “Nature Communications”.

Avere una buona memoria conferisce sicuramente un vantaggio e l’evoluzione ha sicuramente favorito
questa capacità. Tuttavia, la quantità di stimoli che riceviamo continuamente è impressionante, e se
li ricordassimo tutti le pur enormi capacità di elaborazione del nostro cervello – che si stima
abbia oltre 86 miliardi di neuroni e almeno 150.000 miliardi di connessioni tra neuroni per
elaborarle e archiviarle – rischierebbero di essere sopraffatte. Per questo il cervello non si
limita a “non registrare” molte informazioni di scarso interesse, ma è costantemente impegnato anche
a eliminare specifiche informazioni già registrate.

Il meccanismo di non registrazione è quello per cui un’esperienza appena avvenuta non viene
trasferita dalla memoria a breve termine – che ha una persistenza di secondi o al più pochi minuti e
si sostanzia nella formazione di contatti (o sinapsi) fra neuroni molto labili – nella memoria a
lungo termine, che ha durata indefinita ed è caratterizzata da un consolidamento delle sinapsi.

“Le persone pensano al dimenticare come a qualcosa di passivo. La nostra ricerca – dice Michael C.
Anderson, che ha diretto lo studio – rivela che siamo invece costantemente impegnati nel plasmare
ciò che ricordiamo della nostra vita. L’idea che l’atto stesso di ricordare può causare l’oblio è
sorprendente, ma potrebbe dirci di più sulla capacità delle persone di amnesia selettiva”, e può
anche essere di aiuto sia quando questa è espressione di uno stato patologico, sia quando sarebbe
utile stimolarla, come nel caso del disturbo da stress post-traumatico.

L’esistenza di un meccanismo di questo tipo era in realtà già accettata dai neuroscienziati sulla
base di precedenti studi effettuati per spiegare fenomeni anche di vita quotidiana: per esempio il
fatto che uscendo dal lavoro ricordiamo dove abbiamo parcheggiato la mattina senza essere sommersi
dal ricordo di dove l’avevamo parcheggiata nei giorni precedenti, ricordo che pure nei giorni
precedenti doveva essere stato trasferito alla memoria a lungo termine.

Ora, con esperimenti sui topi, Anderson e colleghi hanno dimostrato che questo meccanismo di
rimozione attiva di specifiche memorie divenute inutili, e potenzialmente dannose (in quanto
potrebbero minare l’efficienza di elaborazione cerebrale), funziona solo se è attivato da un’area
del cervello, la corteccia prefrontale mediale; questa area partecipa a svariate attività cerebrali
superiori, dalla previsione dell’esito delle azioni all’integrazione fra gli input emotivi
provenienti da altre aree cerebrali e le azioni con cui rispondere a quegli stimoli.

Inoltre, il fatto che questo tipo di rimozione sia attivo anche nei topi, prova che si tratta di un
meccanismo che, in virtù del suo valore adattativo, si è conservato nel corso dell’evoluzione almeno
a partire dal nostro antenato comune con i roditori, circa 100 milioni di anni fa.

dx.doi.org/10.1038/s41467-018-07128-7

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