Una recente ricerca getta nuova luce sui cambiamenti che avvengono nel nostro cervello nel corso
dellapprendimento e mette in dubbio la relazione tra il miglioramento di un’abilità e l’aumento
delle dimensioni delle aree cerebrali legate a quella abilità
di Jason Castro
Con l’età e l’esperienza, ognuno di noi diventa un conoscitore esperto di qualcosa. E quale che sia
la capacità di sentire, vedere o gustare in modo più sottile dei meno esperti è scritta nel nostro
cervello. Ma dove, e come?
Una linea di ricerca ormai classica ha affrontato questa domanda mappando i cambiamenti
dell’organizzazione cerebrale dovuti a intense e prolungate esperienze sensoriali. Molti di questi
studi confermano un modello di apprendimento che collima abbastanza con le nostre intuizioni: le
parti del cervello dedicate alle singole abilità sensoriali (sentire il Do centrale del pianoforte,
o percepire il relativo tasto sotto il polpastrello del pollice) si ingrandiscono quando queste
abilità sono ripetutamente chiamate in causa. O, per dirla rozzamente: l’esercizio ingrossa la
parte, e più grossa significa migliore.
Oppure no? Un recente studio, pubblicato su “Neuron” rimette in dubbio questa relazione tra aumento
delle dimensioni e miglioramento delle abilità. Studiando la corteccia uditiva dei ratti, i
ricercatori hanno trovato che l’espansione dovuta all’addestramento della regione cerebrale legata a
una certa abilità è di breve durata, anche quando questa maggiore abilità dura nel tempo. Invece di
funzionare come per i muscoli, in cui l’allenamento fa crescere le dimensioni e le maggiori
dimensioni danno migliori prestazioni, l’apprendimento sembra comportare anche una massiccia
attività di potatura.
Ridisegnare la mappa
La corteccia cerebrale uditiva è un tessuto largamente uniforme. Funzionalmente, però, somiglia di
più a un mosaico di territori neurali distinti, ciascuno dei quali “sente” solo una gamma limitata
di frequenze sonore. Immaginando di proiettare la corteccia uditiva sulla mappa degli Stati Uniti, è
come se le note di bassa frequenza fossero elaborate preferenzialmente in California, quelle acute a
New York, e le note intermedie nello spazio tra l’una e l’altra.
Una delle grandi scoperte delle neuroscienze degli scorsi decenni è che i confini che suddividono
la mappa uditiva (come molte altre mappe sensoriali) dopo l’addestramento risultano ridisegnati. In
particolare, gli studi di Michael Merzenich hanno rivelato che se si addestrano delle scimmie a
operare difficili discriminazioni sonore – diciamo tra due note di bassa frequenza assai vicine
tra loro – le regioni dedicate alle basse frequenze della mappa corticale uditiva diventano più
vaste. Una serie di altri studi ha preso l’avvio da questa idea di base, e si è visto che bloccando
l’espansione corticale si blocca anche l’apprendimento, e che spesso una maggiore espansione è
correlata a un apprendimento migliore. Espansione corticale e apprendimento di nuove abilità
sembravano dunque profondamente intrecciati.
Eppure, alcuni aspetti di questa teoria hanno provocato un certo scetticismo. Per imparare qualcosa
serve davvero un così vasto rimodellamento della corteccia cerebrale? E come facciamo a mantenere un
gran numero di abilità diverse visto che lo spazio per memorizzarle è limitato? Non dovrebbe venire
un momento in cui le cose nuove devono cancellare le vecchie e prenderne il posto?
Per affrontare questi problemi, Michael P. Kilgard, della University of Texas a Dallas, e colleghi,
hanno sottoposto la teoria delle dimensioni a una nuova verifica nei ratti. Invece di modificare la
mappa della corteccia uditiva mediante addestramento, hanno cercato di ristrutturarla per via
diretta. Sono così riusciti a isolare la questione delle dimensioni della mappa nell’apprendimento:
se si fa in modo che una mappa sensoriale diventi semplicemente più vasta, senza altri cambiamenti,
che cosa si guadagna in termini di prestazioni?
Alterare direttamente la corteccia uditiva è difficile, ma i ricercatori hanno trovato uno
stratagemma. Hanno stimolato elettricamente una regione cerebrale (il nucleo basale) coinvolta nella
motivazione dell’apprendimento. Accoppiando la stimolazione all’ascolto ripetuto di note basse, sono
riusciti a centrare la parte della mappa uditiva dedicata alle basse frequenze, incoraggiandone
l’espansione. Quando poi i ratti sono stati messi alla prova, inizialmente è parso che l’idea del
rimaneggiamento delle mappe avesse segnato un punto: i ratti la cui mappa delle basse frequenze era
più ampia imparavano a discriminare tra toni bassi in tre giorni, mentre i ratti di controllo ci
mettevano più di una settimana.
Tuttavia, seguendo i ratti nel tempo i ricercatori hanno visto che le aree espanse della corteccia
cominciavano a restringersi, e poi tornavano alla normalità: nel giro di 35 giorni le aree espanse
artificialmente erano tornate alle dimensioni originarie. La cosa importante, però, è che malgrado
fossero tornati alla situazione corticale precedente i ratti mantenevano le loro acuite capacità
percettive. Lo stesso fenomeno è stato osservato seguendo i cambiamenti nei ratti addestrati a
riconoscere le note nel modo normale, con settimane di lavoro e senza trucchi artificiali. Le mappe
si ingrandivano, la capacità di discriminare le note migliorava e perdurava, ma nel tempo le mappe
tornavano all’organizzazione iniziale. Quali che siano le qualità che distinguono un virtuoso della
musica da un individuo meno abile fra i ratti, probabilmente non stanno in una differenza negli
aspetti più ovvi dell’organizzazione del cervello.
Sbagliando si impara
E allora, cos’è che cambia? Anche se le nuove abilità percettive non appaiono evidenti a uno sguardo
d’insieme, una base neurologica devono pur averla. L’ipotesi di Kilgard è che l’apprendimento
potrebbe risultare da aggiustamenti che avvengono a livello più microscopico, e riguardano un numero
relativamente piccolo di neuroni e sinapsi.
In un certo senso, non è un’idea molto diversa da altre ipotesi correnti su apprendimento e funzione
neurale. La trama del cervello è estremamente fine, e molte delle sue funzioni sono regolate a una
scala fisicamente piccolissima, per cui non sarebbe sorprendente che una serie di cambiamenti
fisici, minimi e difficili da studiare, possa sommarsi fino a dar luogo a cambiamenti delle capacità
o del comportamento.
Rimane però una questione più grossa. Se un’abilità appena imparata lascia nel cervello solo una
minuscola impronta, perché il processo di apprendimento non può svolgersi in modo meno pesante?
Perché prendersi la briga di allargare e restringere ampie regioni funzionali della corteccia solo
per arrivare a quelle poche differenze neurali di cui è fatta una certa differenza percettiva?
Forse è perché il nostro cervello non è più bravo di noi. Se noi non sappiamo come trasformarci da
novellini a esperti in pochi passi ottimali e ben scelti, nemmeno il nostro cervello sa farlo.
Kilgard avanza un’idea stimolante, ipotizzando che l’espansione della mappa corticale sia un po’
come un comitato. Genera una gamma di possibili soluzioni al problema che sta di fronte al cervello,
ma che questo non sa ancora come risolvere. (Come faccio a distinguere tra questi due toni sonori?
Come faccio a lanciare la palla nel canestro? Come risolvo questo problema di calcolo integrale?).
Una volta trovata una buona soluzione, il comitato si scioglie. I cambiamenti validi, che si
traducono in abilità reali, si conservano, mentre quelli poco significativi sono eliminati, e la
mappa torna a restringersi.
C’è una sorta di conferma della nostra fiducia in noi stessi, nell’idea che l’apprendimento, “visto”
dall’esterno, possa svolgersi proprio come lo viviamo dentro di noi. Una volta arrivati in vetta, è
facile guardarsi indietro e dire qual è la via che porta direttamente a diventare esperti. Ma né noi
né il nostro cervello possiamo prendere questa strada senza pagare un pedaggio. Forse abbiamo solo
bisogno di fare un sacco di tentativi – che poi in gran parte saranno ridondanti, indiretti e
semplicemente sbagliati – per esser certi di imbatterci nelle poche mosse che veramente valgono
qualcosa.
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