Quanto piccola può essere la vita?
di: Alessio Mannucci
Nel 1600, il telescopio di Galileo cambiò radicalmente la nostra visione del cosmo e più in generale
della realtà esterna (outer space). Oggi, all’opposto, più aumentano le capacità dei microscopi a
scansione elettronica, e più ci rendiamo conto di quanto piccola può essere la vita (inner space).
Ad ogni nuovo progresso, le tecnologie della visione artificiale ci spalancano nuove porte. Aldous
Huxley le chiamava porte della percezione, riferendosi ai suoi esperimenti con la mescalina che ha
descritto nell’omonimo saggio che ha ispirato Jim Morrison nello scegliere il nome da dare al suo
gruppo di artisti psichedelici. Così come la sostanza psicotropa usata da Huxley, la tecnologia è
in grado di svelare nuovi mondi, nuove dimensioni, nuovi stati di coscienza alterata. Con la
differenza che oggi queste visioni, un tempo riservate agli sciamani, agli stregoni, ai maghi, ai
poeti e agli artisti, sono a disposizione delle masse, visibili a tutti sullo schermo di un
computer. Con l’improvvisa comparsa dei nanoorganismi, siamo di fatto partiti per un nuovo
viaggio allucinante: nel regno della nanosfera.
ROBERT FOLK, I TRAVERTINI ROMANI E LE TERME DI VITERBO
Nel mondo microbiologico, le forme più minute sono definite comunemente ultramicrobatteri,
considerate come residui delle forme superiori, rare e latenti. Sebbene siano abbondanti nel
suolo, nei sedimenti, in rocce e minerali e rappresentino una forma di vita intermedia tra i normali
batteri e i virus, che misurano dai 0.01 ai 0.02 micrometri (un micrometro è un miliardesimo di un
metro). Oggi, quando gli scienziati si riferiscono al nanocosmo, parlano di nanostrutture
inferiori a 100 nanometri, o a 0.1 micrometri (per cercare di rendere l’idea, un capello umano ha un
diametro di circa 100 micrometri, quindi è mille volte più grande di una nanostruttura).
La parola nanobacteria è stata introdotta ufficialmente nel mondo accademico nel 1988 dal
ricercatore Richard Y. Morita. Ma la scoperta dei primi nanoorganismi è stata compiuta nel 1987
dal geologo Robert Folk, della University of Texas di Austin. Folk si trovava in Italia per studiare
i travertini romani, un calcare biancastro poroso che si forma presso laghi, fiumi, e sorgenti
termali, usato dai romani per circa 2000 anni come materiale per le proprie costruzioni. Insieme al
Prof. Henry S. Chafetz della University of Houston, Folk studiava il travertino dal 1979. Nel corso
delle sue ricerche, ha scoperto che i batteri di taglia normale, soprattutto di tipo
solforo-ossidi, hanno giocato un ruolo sostanziale nella condensazione della pietra dalle calde
acque termali di Tivoli. Nel 1988, Folk è tornato in Italia per studiare la formazione dei
travertini nelle sorgenti termali di Bullicame, nei pressi di Viterbo.
Un particolare curioso: la leggenda attribuisce la creazione di queste sorgenti all’opera di Ercole
che con la sua lancia conficcata nella terra avrebbe liberato queste miracolose polle solfuree
sgorganti da una montagna sacra di color bianco (per l’accumulo di concrezioni calcaree). Il
Bullicame è stato descritto anche da Dante nel suo Canto dell’Inferno. Chissà se Folk ne era al
corrente.
Fatto stà che Folk torna in Italia più agguerrito che mai, dotato di un potente microscopio a
scansione elettronica, capace di uno sguardo più approfondito della materia in questione, simile
ai moderni SEMs (Scanning Electron Microscopes). Mentre, nel frattempo, l’evoluzione degli studi
microbiologici aveva decretato ufficialmente l’esistenza degli ultramicrobatteri. Folk si spinge
oltre, scoprendo l’esistenza di nanoorganismi intombati in cristalli di calcite e aragonite, come
arachidi nel proprio guscio. Folk osserva nei mitici travertini termali di Viterbo dei
nanobatteri di circa 100 nanometri. Dopo ulteriori ricerche, rende pubblica la sua scoperta al
meeting annuale della Geological Society of America del 1992.
L’annuncio provoca una reazione a catena. Altri nanobatteri vengono alla luce sulle Dolomiti da
pietre calcaree vecchie 2 miliardi di anni. Si comincia a considerarli come elementi chiave nella
produzione di complessi minerali argillosi, nell’arruginimento del ferro, nell’ inverdimento del
rame, e nella solubilizzazione dell’alluminio, e si ipotizza un loro coinvolgimento nella formazione
del guscio delle vongole, dei crostacei foraminiferi, e perfino dell’uovo. Ma allora, se i
nanobatteri sono così abbondanti in natura, come mai sono stati scoperti così in ritardo?
Il motivo principale è che nessuno ne aveva sospettato l’esistenza, dato che prima di scoprire
qualcosa è necessario immaginarlo (teoria delle forme di Platone). Inoltre, dettaglio tecnico, non
esistevano ancora gli strumenti necessari per poter vedere ciò che si poteva solo immaginare. Il
massimo del minimo visibile attraverso i microscopi ottici per molto tempo è stato di circa 0.2
micrometri, almeno era quanto aveva stabilito paradigmaticamente la comunità scientifica
internazionale; ogni volta che si osservava qualcosa al di sotto si tendeva ad ignorarlo. Dopo
l’improvvisa comparsa dei nanobatteri, qualcuno ha anche avanzato l’ipotesi che fossero la materia
oscura del bio-universo.
L’INVASIONE DEI NANOCORPI
Galvanizzato dalla scoperta della nanosfera, un ricercatore della NASA, Chris Romanek, si mette alla
ricerca di nanoorganismi nel meteorite marziano ALH84001. Nel 1996, la notizia della scoperta
all’interno del meteorite di nanobatteri di natura aliena provocò grande scalpore infuocando il
dibattito esobiologico sulla possibile presenza di vita primordiale sul Pianeta Rosso. Nel tardo
1998, su pressioni della NASA, il National Research Council della National Academy of Sciences
pubblica un rapporto dal titolo Size Limits of Very Small Microorganisms, cercando di stabilire un
nuovo paradigma per la definizione di vita organica nel mondo dell’ infinitamente piccolo.
Un organismo in grado di vivere e auto-riprodursi, necessita di un certo equipaggiamento. Ad
esempio, un singolo ribosoma, una specie di minuscola fabbrica usata dalle cellule per produrre
proteine, è grande circa 25-30 nanometri. Una tipica cellula moderna, può contenere qualche
centinaia di migliaia di ribosomi.
Basandosi su questi dati, i 18 esperti che hanno steso il rapporto, hanno stabilito che la nuova
misura limite della vita micro-organica dovesse essere di 200 nanometri. Tutto ciò che scende sotto
questa soglia, non può (e non deve) essere considerato vita, almeno così come la conosciamo.
Andrew Knoll, paleobiologo alla Harvard University, membro del NASA Astrobiology Institute, uno dei
18 esperti, ha dichiarato: È molto probabile che siano esistite forme primordiali di vita
micro-organica del diametro di 50 nanometri, ma il problema è distinguere tra cellule con una
struttura biochimica a noi familiare e cellule primitive che non abbiamo mai osservato in
precedenza.
Folk ha mostrato un forte scetticismo riguardo le conclusioni del rapporto. Secondo lui, le
nanostrutture batteriche, che misurano in media dai 50 ai 100 nanometri, sono assolutamente da
considerare forme di vita, non importa quanto piccole esse siano: Il limite adottato di 200
nanometri si basa sul fatto che micro-strutture molecolari debbano essere abbastanza grandi da
contenere una molecola di DNA o RNA, e i ribosomi necessari al metabolismo, dice Folk, ma è un
limite puramente arbitratrio. Ricordiamoci che prima di Pasteur si ignorava perfino l’esistenza dei
germi, e prima del 1890 si ignoravano anche i virus.
Secondo Folk, i fossili nanobatterici rinvenuti sul meteorite marziano sono la prova di una vita
organica primitiva sconosciuta. È convinto che altre tracce di simili forme di vita siano presenti
anche sul meteorite marziano Dhofar 019, scoperto nel 2000 nel deserto dell’Oman, così come nelle
condriti carbonacce non-marziane di Allende e Murchison. Il problema, per Folk, non è tanto nelle
ultra-ridotte dimensioni di queste strutture, quanto piuttosto nell’impossibilità di definirne la
specificità organica: Il problema è che non ne conosciamo le reali proprietà biologiche, ma non per
questo possiamo definirle come non-vita.
Circa 4 anni fa, scienziati della University of Queensland scoprirono dei nanobatteri in antiche
pietre arenarie australiane. Sebbene alcune di queste strutture misurassero circa 20 nanometri, si
presentavano come un groviglio indistinto di filamenti fungosi. Posti in delle capsule di Petri e
esposti ad ossigeno alla temperatura di 22 gradi Celsius, cominciarono a riprodursi molto
velocemente formando dense colonie di viticci (a forma di ramo di vite) che mostrarono ripetutamente
segni di DNA. Secondo Philippa J.R. Uwins, a capo del team, tutti i nanobatteri scoperti
presentavano caratteristiche enzimatiche e genetiche considerate essenziali per la vita biologica.
Ulteriore conferma, per Folk, che la vita può svilupparsi a qualsiasi dimensione.
NANOSYSTEM
Si deve all’americano Eric Drexler, fondatore del Foresight Institute, ex ricercatore del MIT, la
paternità del termine nanotecnologia (Nanosystem, 1982). Drexler era già arrivato ad immaginare
schiere di minuscoli nanobots, robot in grado di costruire in poche ore oggetti complessi e
costosi come aerei e automobili, microsonde che navigano nel flusso sanguigno per compiervi analisi
e nanomacchine che riparano i denti in maniera completamente indolore. Finanche a costruire copie di
sé stessi, come i costruttori universali di Von Neumann.
Nel 1989, presso i laboratori dell’Almaden Research Center di San José in California, il fisico Dan
Eigler perfeziona il microscopio elettronico a effetto tunnel. Grazie al suo STM modificato, per la
prima volta non solo gli atomi si possono osservare ma si possono anche spostare. Eigler dimostrò il
funzionamento del suo strumento depositando alcuni atomi di xenon su uno strato di nichel. Ma non in
modo casuale: essi, infatti, formavano la scritta IBM. Si realizza la visione di Richard Feynmann.
VISIONI ARTIFICIALI
Per oltre 2000 anni, i dotti, non abbastanza ignoranti, hanno litigato sull’esistenza degli atomi.
Finché, un giorno, non li hanno potuti vedere direttamente attraverso il microscopio elettronico a
effetto tunnel creato dai fisici Gerd Binning e Heinrich Rohrer. Oggi è impensabile che si possa
fare a meno di questa meravigliosa tecnologia psichedelica che dischiude visioni sempre nuove nel
mondo dell’ infinitamente piccolo, e nello stesso tempo ci conduce, letteralmente, fuori di testa.
Ma come funzionano?
La chiave di tutto è un sottile ago metallico, con cui si tasta la superficie da osservare,
collegato ad una serie di diversi microscopi a scansione elettronica (SEM), a seconda del processo
fisico che si sfrutta nell’interazione punta-superficie, collegati a loro vota ad un computer.
Il microscopio elettronico a effetto tunnel viene attraversato da una corrente debole la cui
variazione di forza permette di definire la forma della superficie. Ciò avviene senza che la punta
entri in contatto con la superficie proprio grazie all’ effetto tunnel, di natura quantistica,
ovvero la capacità di un elettrone di superare una barriera dielettrica (l’aria, il vuoto o un
liquido anche debolmente conduttore) anche quando la sua energia è più piccola della barriera
stessa. Il principale limite di questo microscopio con sonda di scansione elettronica è che il
campione da esaminare deve essere un conduttore elettrico.
Per studiare campioni che non sono conduttori, si possono sfruttare altri tipi di interazione come
ad esempio la forza atomica. L’uso integrato di microscopi ad effetto tunnel (STM) e a forza atomica
(AFM) ha reso possibile osservare e manipolare sistemi su scala atomica. Più recentemente si sono
aggiunti anche il microscopio misuratore di forze (RKM), che misura le varie forze di attrito tra la
punta e la superficie, il microscopio misuratore di capacità, che misura le forze elettrostatiche
della superficie, e il microscopio a campo magnetico, che misura l’energia elettromagnetica.
Mediante un sofisticato sistema di controllo e micromovimentazione, e grazie alla lettura tramite
computer delle grandezze fisiche legate all’interazione punta-superficie, è possibile ricostruire
via software un’immagine topografica (anche tridimensionale) della superficie su cui la punta ha
effettuato la scansione.
Le possibilità applicative di questi sistemi integrati a scansione elettronica sono molteplici: si
possono esaminare materiali immersi in liquidi, globuli rossi e bianchi, enzimi e anticorpi. Si
possono afferrare e spostare, come con una pinzetta, singoli atomi e singole cellule. I biologi, per
esempio, possono manipolare parti integranti dei cromosomi. Si può cioè osservare e modificare
artificialmente la materia a dimensioni ridottissime.
Sono questi gli strumenti che hanno rivoluzionato le tecniche di ingegneria genetica (ogm), di
ingegneria elettronica (microchips), ingegneria molecolare (designer drugs) e hanno aperto la strada
alla nanobiotecnologia. Ad esempio, è stato realizzato il più piccolo transistor al mondo che misura
circa 200 nanometri. E perfino un nano-ascensore molecolare di due nanometri e mezzo. Anche se
ancora non si sà bene come costruire, ma soprattutto controllare, un nanocomputer, una nanomacchina
o un nanorobot.
Le applicazioni più pratiche investono il campo della chimica combinatoria, utilizzata
industrialmente per lo sviluppo delle designer drugs solo dal 1998. Mediante l’uso congiunto dei
microscopi a scansione elettronica con sistemi completamente automatizzati si possono testare
giornalmente alcune migliaia di composti – 10 volte tanti che con i processi convenzionali. Sebbene
sul mercato non ci sono ancora, almeno ufficialmente, sostanze attive ricavate da questo tipo di
sintesi combinatorie, molte vengono già testate clinicamente, ad esempio vari prototipi di sangue
artificiale.
Oltre a ciò, i ricercatori sperano di trovare tramite questi metodi ricombinatori anche nuovi
principi terapeutici, magari arrivando a comprendere i compiti specifici dei vari geni che nel
frattempo vengono scoperti senza sosta dai sequenziatori genetici, e, ovviamente, subito
brevettati. La chimica combinatoria può inoltre condurre anche alla scoperta di nuovi materiali.
Questo perché ciò che finora era limitato essenzialmente a sintesi tra carbonio, idrogeno e
ossigeno, è ormai stato esteso anche a tutti gli altri elementi del sistema periodico di Mendeleyev.
Ad esempio, una ditta americana ha ottimizzato molecole di fosforo rosso e blu per l’illuminazione
degli schermi piatti. Mitsbishi sta lavorando su LCD ad altissima definizione, piccoli, efficienti,
poco costosi. Philips e Intel puntano sulle tecnologie wireless ultraveloci. Texas Instruments sui
nanochip. Diversi nuovi materiali nati nei laboratori di ricerca DuPont sono già utilizzati in
telefoni cellulari, pannelli con display al plasma, PDA, video camcorder, computer e camere
digitali. In ognuna delle due sonde, Spirit e Opportunity, che in questo momento si trovano su
Marte, si utilizzano 64 metri di circuiti flessibili realizzati con sottili laminati compositi
Pyralux(R) che offrono una riduzione di ingombro tra il 60 e il 70%.
Mentre ricercatori dell’azienda canadese Nexia Biotechnologies, modificando geneticamente le cellule
delle ghiandole mammarie di una mucca e introducendo in esse il gene del ragno che produce la
proteina necessaria alla fabbricazione della sua nota tela, sono riusciti a ottenere una fibra
superresistente. In un prossimo futuro contano di commercializzare il prodotto su grande scala
utilizzando delle capre GM.
P.S.
Di tutto ciò, l’unica cosa che riesce a divertirmi è l’idea che a innestare questo processo
tecno-apocalittico siano state le terme di Viterbo dove mi è capitato di andare a bagnarmi, così
come fanno tradizionalmente molti romani, senza aver mai nemmeno lontanamente immaginato di essere
in compagnia di brulicanti forme di vita aliena, che magari a mia insaputa si sono intrufolate nel
mio organismo, fino a penetrarmi nel cervello, e magari è proprio sotto il loro comando, più che
della mia reale coscienza, che in questo momento stò scrivendo queste righe apparentemente
deliranti. Se veramente l’invasione dei nanocorpi è già cominciata, bè, speriamo che abbiano almeno
un po’ di buon nanosenso, perché gli umani se lo sò bevuto…
Alessio Mannucci
E-mail: hugofolk@ecplanet.com
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