QUATTRO SALTI CON LA MUSICA MYSTERIOSA (TERZA PARTE)

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QUATTRO SALTI CON LA MUSICA MYSTERIOSA (TERZA PARTE)

ENTRA IN SCENA IL DIAVOLO

“Diabolus in musica, Studien zur Ikonographie der Musik im Mittelalter.” Questo è il titolo di un
erudito studio di Reinhold Hammerstein (1974) sui rapporti tra il diavolo e la musica tra il XV e il
XVI secolo. Già i filosofi greci, già Boezio, già Sant’ Agostino, parlavano di modi musicali in
grado di educare e di altri modi assolutamente diseducativi, e il loro pensiero continua ai giorni
nostri. Se si accetta che un certo tipo di musica possa avere influenze positive, va da sè che “un
altro tipo” di musica non potrà che condizionare negativamente chi la ascolta.
Quale tipo di musica? Tralasciando il contenuto dei testi (che possono spingere all’odio, al
razzismo o altro), e la destinazione (musica realizzata a fini guerreschi, licenziosi, e via
dicendo), i sostenitori della presenza del “Diabolus” ritengono pericolose sia certe strutture
(quella “ossessiva”, caratterizzata dalla ripetizione senza “novità” di cui abbiamo parlato
poc’anzi) sia, addirittura, certi accordi musicali. I cosiddetti “accordi di triade” (vedi glossario
nella 4a parte) erano considerati il simbolo della trinità divina e perciò benefici; i tempi ritmici
ternari venivano definiti perfetti, mentre imperfetti erano quelli binari. Il tritono (intervallo
melodico di difficile intonazione formato da tre toni interi), interpretato come “il pervertimento
della triade” non poteva che essere considerato una manifestazione diabolica: esso fu vietato già
nel medioevo da trattatisti come Guido d’Arezzo, e, nel non poi troppo lontano 1725, J.J. Fux (che
per primo parlò di Diabolus in musica) ne stigmatizzò duramente l’uso addirittura in un intero
trattato, Gradus ad Parnassum. Successivamente questo intervallo fu utilizzato dai compositori per
la sua particolare durezza, estremamente efficace per esprimere musicalmente l’angoscia, il
turbamento, la morte.

Il “Rock satanico”. Nella nostra epoca la “musica satanica” per eccellenza è il rock (ma ricordiamo
che, all’inizio del secolo, questa definizione venne affibbiata prima al blues, poi al Jazz, il che
fa pensare che ogni manifestazione musicale “fuori canone” sia subito oggetto di attacchi
moralistici). L’ argomento è di portata troppo vasta per liquidarlo in poche righe, e ci limiteremo
quindi ad alcune considerazioni. Il presunto “satanismo” del rock può essere rilevato su due piani,
il primo se si considera la tematica di molti testi, il secondo analizzandone la struttura musicale.
Di quest’ultima abbiamo già parlato, anche in relazione all’harmonia mundi.
Non c’è dubbio che esistano testi (rock, ma di qualunque altre genere letterario) che invitano più o
meno esplicitamente al male (“Odia il prossimo tuo”), così come è scientificamente provato che un
certo tipo di musica (ad altissimo volume, con ritmi ossessivi, eccetera) eserciti una sorta di
effetto stordente su chi ne fruisce, soprattutto se l’ascolto è accompagnato dall’assunzione di
droghe e di alcol. Skrjabin era convinto che i messaggi della musica avrebbero raggiunto più
intimamente l’animo umano se accompagnati da colori, profumi o altro; Jimi Hendrix affermava che con
la musica si può ipnotizzare il pubblico, inserire nel suo subconscio qualsiasi cosa: quindi, senza
stare a scomodare il diavolo, non è azzardato dire che un bombardamento di messaggi musicali
“negativi” in un atmosfera frastornante potrebbe generare effetti almeno momentaneamente non
positivi. C’è da stupirsi, anzi, che le critiche di questo tipo alla musica rock vengano di solito
ridicolizzate dagli stessi media pronti ad accanirsi contro la “nefasta influenza” esercitata sui
giovani da altre forme espressive. Qualche tempo fa, un dibattitto nella fascia pomeridiana di RAI 3
presentato da Marta Flavi titolava “Possono i fumetti indurre al suicidio?” (!), e sia spettatori,
sia conduttrici sembravano molto propensi a rispondere affermativamente alla domanda. Il fatto è che
la musica rock muove giri di miliardi, ed è molto più facile accanirsi contro mezzi più “poveri” che
coinvolgono pochi interessi.

Sull’altro punto di vista – quello sostenuto, per intenderci, da Padre Balducci – ovvero che la
musica rock costituisce, di fatto, un rito in grado di evocare presenze sataniche, preferiamo non
pronunciarci. E’ certo che gli stessi compositori rock hanno alimentato di proposito questa teoria.
Jimmy Page, leggendario chitarrista dei Led Zeppelin, era certo che alla produzione dei loro dischi
collaboravano niente di meno che alcuni demoni; Mick Jagger confessava che ogni volta che il suo
gruppo iniziava a suonare il brano Sympathy for the Devil (“Simpatia per il diavolo”) accadeva
qualcosa di inquietante, e la musica diventava un tramite per avvicinare entità non terrene. Gli
Slayer ed altri complessi hanno fatto del numero 666 (l’apocalittica Bestia) il loro simbolo; nel
repertorio dei gruppi “Heavy metal” trovano ampio spazio i testi che citano il Libro dei Morti e le
idee ed alcuni frammenti di testi di Aleister Crowley; il nome Iron Maiden si riferisce a uno
strumento di tortura medievale…

A testimonianza dell’interesse che i musicisti rock nutrono per il carattere misterioso del mondo
dei suoni ricordiamo la vicenda di Brian Jones, fondatore con Mick Jagger dei Rolling Stones. Gli fu
concesso di assistere ad una celebrazione del rito pagano del dio Pan, a Joujouka, paesino sulla
catena dell’Atlante, in Marocco. Durante questo rito cinquanta suonatori di flauto di Pan intonarono
melodie circolari, ripetitive, per entrare in contatto con Bou Jeluod, incarnazione di Pan sulla
terra e loro protettore. Jones, munito di magnetofono, registrò più di un’ora di “trance music” (che
diventò il disco Brian Jones plays with the pipes of Pan at Joujouka), ma in seguito si accorse che
la voce della solista e del coro non erano state impresse sul nastro: un suonatore spiegò a Jones
che la loro voce non era destinata alle orecchie degli uomini, bensì a un’altra dimensione.

A voci scomparse fanno contrappunto quelle “apparse” mysteriosamente solo a Charles Manson mentre
ascoltava Helter Skelter dei Beatles, le quali gli commissionarono il massacro di Sharon Tate e dei
suoi amici. Insomma, gli episodi inquietanti (veri o inventati che siano) si moltiplicano, sicché a
Washington si è costituito un comitato di madri preoccupate dai possibili rischi corsi dai loro
figli rockettari (il temuto Parents Music Resource Center).
Nel caso voleste affrontare accuratamente l’argomento rock satanico e affini, vi consigliamo quattro
volumi: il già citato Adoratori del diavolo (Piemme) di padre Calducci, Guida ai messaggi
subliminali nel rock (Piemme) di Carlo Climati (con tanto di audiocassetta allegata), Il dizionario
dell’horror rock (Sugarco) e Autostrada per l’inferno (Sperling & Kupfer) entrambi scritti da
Stefano Marzorati.

MANDANTE: HELTER SKELTER.

Charles Manson, hippy californiano, poeta e musicista rock, è il capo della “famiglia” che nel 1969
massacrò Sharon Tate, moglie del regista Roman Polanski, e altri amici della coppia riuniti in una
villa di Bel Air. Manson non era presente durante l’omicidio, ciònondimeno, secondo l’accusa, era il
mandante del delitto. L’ordine di uccidere gli sarebbe stato “imposto” dal brano Helter Skelter dei
Beatles, il quale conteneva, sotto forma di voci che solo lui poteva sentire, inequivocabili
istruzioni su come demolire il sogno americano.
Il 24 luglio 1970, a Los Angeles, di fronte ai reporter delle televisioni di tutto il mondo, ebbe
inizio il processo contro la famiglia. Manson si produsse in una serie di dichiarazioni deliranti,
in cui si identificava tra l’altro con Gesù Cristo, ma non emerse alcuna prova del suo
coinvolgimento nell’omicidio. Eppure, per la prima (e fortunatamente ultima) volta nella storia
degli Stati Uniti, violando il fondamentale diritto di “presunzione di innocenza” dell’imputato,
l’allora presidente Nixon dichiarò in una conferenza stampa che Manson era colpevole; la sua
interferenza nel processo fu aspramente condannata da capi di stato e personalità politiche di tutto
il mondo.

Il “processo del secolo” – definito anche “The most grotesque trial of the century” si concluse il
25 gennaio 1971 con la condanna a morte dei tre esecutori materiali del delitto e quella di Manson
come colpevole di cospirazione in omicidio; la condanna fu poi commutata in ergastolo.
Anche se è difficile definire Manson come un tipo particolarmente raccomandabile, e – almeno a chi
scrive – pare esagerato considerarlo una sorta di idolo (ormai Manson è entrato nella leggenda del
rock, e diversi gruppi gli hanno dedicato molto spazio nelle loro canzoni: gli Psychic TV, gruppo di
“trance music”, sono ritratti sulla copertina di un LP con addosso magliette con il suo nome), è
certo che non è stato trattato secondo giustizia. Il suo nome può essere a buon diritto annoverato
tra quelli delle vittime del rock: una vittima dell’intolleranza nei confronti di questo genere
musicale.

Diavoli e fantasmi. Non sono solo i rockettari a essere accusati di “commercio con il maligno”.
Giuseppe Tartini (1692-1770) è passato alla storia come compositore, violinista e teorico (fu lui a
scoprire che intonando due suoni vicini se ne sviluppa un terzo generato dall’interferenza dei primi
due); ma, soprattutto, per il Il trillo del diavolo, uno dei suoi pezzi più famosi.
Nel 1713 confidò a un amico che: “… una notte sognai d’aver patteggiato col diavolo, a prezzo
della mia anima. Tutto andava secondo i miei cenni: il mio servitore preveniva ogni mio desiderio.
Tra le mie idee, vi era stata anche quella di dargli il mio violino, per vedere se fosse stato
capace di suonare qualche pezzo grazioso. Ma grande fu il mio stupore quando udii una sonata così
meravigliosamente bella, eseguita con tanta arte e perizia che il più ardito volo di fantasma non
avrebbe potuto raggiungerla. Talchè ne fui così trascinato, rapito, incantato che mi arrestò il
fiato e mi svegliai: afferrai subito il mio violino per fermare nella realtà una parte almeno dei
suoni che avevo udito in sogno, ma invano. Allora composi una musica, la migliore che abbia scritto
nella mia vita e la chiamai e la chiamo Sonata del diavolo. Ma la distanza tra essa e quella che mi
aveva tanto preso è sì grande che avrei fatto a pezzi il mio strumento, rinunziando per sempre alla
musica, se mi fosse stato possibile privarmi delle gioie che essa sempre mi ha dato…”.

Il violino è considerato lo strumento musicale demoniaco per eccellenza (a questo proposito esistono
due bei saggi, Devil’s Instrument, di Mary Elizabeth Neal, 1992 e The Devil at the Dance: Variations
on a Theme, di Robert Rodriguez, 1993), cosicché la tradizione popolare attribuì a un patto con il
maligno anche le origini delle strabilianti capacità tecniche di Niccolò Paganini (1782-1840).
Secondo la leggenda, durante durante i concerti, Satana in persona avrebbe guidato la sua mano;
Paganini – il cui fisico e i cui inquietanti lineamenti parevano avallare una parentela demoniaca –
si guardò bene dallo smentire la diceria, che costituiva un’ottima pubblicità. Il Maestro possedeva
in effetti un diabolico talento per fare parlare di sé: durante i suoi concerti, spesso (troppo
spesso) le corde del suo violino si rompevano, e lui continuava imperterrito a suonare prima su tre,
poi su due, poi su una sola corda. L’effetto era, ovviamente, preparato, anche se nessuno ha mai
scoperto con quale strumento nascosto Paganini riuscisse a rompere le corde al momento opportuno.

I FANTASMI DI BEETHOVEN

Almeno un brano musicale è stato ispirato, anziché dal diavolo, dagli altrettanto tenebrosi
fantasmi: il Trio in Re Maggiore per pianoforte, violino e violoncello, opera 70 di Beethoven
(composto nel 1808 circa), noto in tedesco come Geistertrio, ovvero “Terzetto dei fantasmi”.
Beethoven, appassionato cultore di Shakespeare, lo compose subito dopo aver letto il Macbeth.

La dodecafonia “luciferina”.
“Metodo di composizione con 12 note non imparentate tra loro”: questa è la definizione che ne diede
l’ideatore Arnold Schoenberg (1874-1951).
Questo metodo si serve di tutta la scala cromatica temperata (per intenderci, tutti i tasti bianchi
e neri del pianoforte), definendola “totale cromatico”.
E’ un sistema compositivo che rivoluziona completamente il panorama musicale del novecento, pur
registrando qualche anticipazione in alcuni compositori del passato (come in Bach nel Preludio in la
minore del secondo volume del Clavicembalo ben temperato, in Mozart nella scena del commendatore del
Don Giovanni, in Liszt nel Faustsymphonie, in Wagner).

Le composizioni dodecafoniche si basano su procedimenti di carattere matematico, a partire dai quali
il compositore dispone i dodici suoni (7 note “bianche” del pianoforte + 5 “nere”) in una certa
successione, definita serie (da cui anche la cosiddetta musica seriale). Il brano è costituito da
una successione di serie, all’interno delle quali non è possibile ripetere una stessa nota: per
riascoltarla bisogna attendere la serie successiva. Da queste poche righe si può già intuire che
questo tipo di musica non si prefigge lo scopo di dilettare il pubblico, perché i compositori non
ragionano in termini di bellezza estetica ma di correttezza matematica. Anzi proprio a causa della
matrice totalmente razionale e priva di spiritualità di questa musica, è da qualcuno considerata
emenazione di Lucifero, così come sono luciferine tutte le attività umane che rifiutano a priori la
componente spirituale del mondo, esaltando il “lume della ragione”. Non è un caso che l’Illuminismo
fu un feroce avversario dell’alchimia, e della spiritualità in genere. Bisogna ricordare che in
alcune antiche rappresentazioni del maligno, esso appare in forma di bestia con le corna, in mezzo
delle quali c’è una candela accesa.
Secondo le teorie appena descritte rock e dodecafonia stanno quindi come Satana e Lucifero: il primo
agisce sui livelli inferiori di razionalità, coinvolgendo anche fisicamente la sua “vittima”, il
secondo cerca di circuire l’uomo da un punto di vista esclusivamente intellettuale.

Fantasmi dell’opera. Non hanno nulla a che vedere con il loro famoso collega, frutto della fantasia
di Gaston Leroux, ma sono quelle entità che hanno infestato il mondo della lirica durante tutta la
sua ormai secolare storia, creando incidenti, imprevisti, disgrazie. A volte questi “simpatici”
spiritelli sono aiutati dalla distrazione di qualche macchinista, ma nella maggior parte dei casi si
tratta di scherzi di pessimo gusto. Nell’ambiente del teatro, infatti, ogni errore si paga caro a
tutti i livelli – dall’attrezzista al tenore solista – perciò non di rado capitano “incidenti”
perché qualcuno vuole danneggiare un collega, magari per prenderne il posto.
In un allestimento di Tosca negli anni venti al Metropolitan di New York, il ruolo di Scarpia fu
interpretato dal baritono Antonio Scotti, il quale venne regolarmente pugnalato da Floria Tosca,
come impone il copione. Salvo che quella sera in scena era stata sistemata un’arma vera e propria,
senza che Tosca se ne accorgesse. Risultato: ferite sparse, ma per fortuna non gravi per Scotti, e
accuse al sostituto del baritono.

Ancora Tosca. Nel 1965 al Covent Garden, con la regia di Zeffirelli, a un certo punto la parrucca
della Callas prese fuoco, ma fu spenta con notevole prontezza di riflessi dall’improvvisato
“pompiere” Tito Gobbi. Esiste persino una Tosca che si getta da Castel Sant’Angelo e rimbalza come
una palla magica sul materasso salvavita (opportunamente sostituito da qualcuno con un telo
elastico) almeno una quindicina di volte. E’ accaduto a New York nel 1960.
Più recente è l’incidente occorso al giovane Fabio Armiliato, interprete di Cavaradossi nella Tosca
allestita a Macerata nel 1995: il tenore è stato ferito a una gamba dal plotone di esecuzione, a
causa di un proiettile a salve che conteneva cera troppo compressa (un’esecuzione altrettanto
realistica si era già vista a Buenos Aires negli anni settanta. Ferito: Gianni Merighi). L’armiere
che si doveva occupare dei fucili di scena – non responsabile dell’accaduto – dopo l’ “esecuzione”
di Armiliato fu ricoverato all’ospedale a causa di un malore provocato dallo spavento, e in ospedale
rimase più dello stesso Armiliato, il quale si rimise rapidamente in piedi e tornò a cantare… O
almeno così avrebbe voluto: la sera del suo rientro, sempre in Tosca, durante la pausa tra il primo
e il secondo atto, cadde dalle scale fratturandosi una gamba.

Anche il Don Giovanni di Mozart vanta uno spettacolare incidente. Nel 1958, a New York, in uno di
quei disguidi che piacciono tanto ai direttori di scena, tutta la scenografia venne alzata
contemporaneamente per un cambio di scena, ma qualcuno si era dimenticato di chiudere i portelloni
in fondo al palcoscenico, e qualcun’altro di chiudere il sipario. Effetto: per una decina di secondi
l’incredulo pubblico non si trovò di fronte ad un ambiente tipico della Spagna del ‘700, ma alla
East 55th Street, con tanto di automobili sfreccianti, rumori di clacson e persino due ancor più
increduli poliziotti che passavano di là, e che poterono inoltre sincerarsi che in sala tutto
procedeva tranquillo.

Tocchiamo ferro. Il mondo musicale è costellato di superstizioni pittoresche. I cantanti posseggono
innumerevoli portafortuna (pupazzi, cornetti) contro la cattiva sorte (ed i colleghi…); molti di
essi, prima dello spettacolo mangiano per scaramanzia, altri bevono, altri zoppicano per tre passi
prima di entrare in scena, altri bussano per tre volte sulle quinte e altri ancora vanno alla
ricerca di chiodi storti che gli operai hanno dimenticato sul palco: valgono come quadrifogli. In
tutta questa varietà, qualche superstizione in comune, ce l’hanno: detestano il colore viola. Come
mai? Nel ‘600, quando cominciò a svilupparsi il melodramma, la stagione operistica si concludeva con
la quaresima, periodo contrassegnato da paramenti viola nelle chiese; il colore fu quindi associato
con la chiusura dei teatri e la conseguente disoccupazione degli attori ma soprattutto di tutto il
personale del teatro, che era destinato ad un periodo di disoccupazione e miseria forzati. Se invece
un giorno vi dovesse capitare di entrare in un teatro vuoto, o di assistere alle prove di uno
spettacolo, badate di NON fischiettare, nemmeno distrattamente: qualche attore potrebbe linciarvi!
Infatti il fischio è presago di disapprovazione del pubblico, con relativo fiasco dello spettacolo.

Esistono opere a cui molti addetti ai lavori preferiscono non partecipare per evitare guai: tra
queste le verdiane La forza del destino e Macbeth (quest’ultima, non a caso, fa da sfondo al film
Opera di Dario Argento): ciò forse si spiega considerando le tante morti violente di cui sono
funestate le loro trame. Anche per i non-addetti esistono composizioni musicali che inducono a
toccare rapidamente ferro. Il Valzer delle candele è un’antica marcia da guerra scozzese poi
trasformata in valzer, e nei paesi anglosassoni viene cantata allegramente allo scoccare del
capodanno; in Italia, invece, “porta male”, forse perché ricorda il (tristissimo) film Il ponte di
Waterloo. Fate sentire Lilì Marlene a chi ha vissuto la Seconda Guerra Mondiale, e vedrete un
agitarsi di talismani. All’origine, probabilmente, gli scongiuri servivano ad allontanare la guerra,
di cui quella canzone era il simbolo; poi, per translato, la noméa si è trasferita sulla canzone
stessa. Anche il Bolero ha i suoi, per così dire, estimatori: forse perché fu l’ultima composizione
di Ravel (1928) prima dell’incidente d’auto del 1932 che lo lasciò menomato fino alla morte (1937).
C’è infine una canzone che portà così sfortuna, ma così sfortuna, che è pericoloso persino scrivere
il suo nome: non saprete dunque di che canzone si tratta, ma vi assicuriamo che ve ne accorgerete
non appena, per caso, comincerete a fischiettarla.

Il diavolo in scena. Chiudiamo il capitolo in bellezza sul diavolo dedicando l’ultimo paragrafo alle
sue numerose apparizioni nel teatro musicale. Le più celebri sono, ovviamente, quelle basate sul
Faust di Goethe: La dannazione di Faust di Berlioz (1846), il Faust di Gounod (1859), il Mefistofele
di Boito (1868) ed il Dottor Faust di Busoni (1925). Inoltre sono da menzionare L’angelo di fuoco di
Prokofiev (1954), L’uccello di fuoco (1910) La storia del soldato (1918) e La carriera di un
libertino (1951) di Stravinskij, il Bolero di Ravel (1928), Una notte su Monte Calvo di Mussorgsky.
Di argomento infernale sono le varie versioni musicali del mito di Orfeo: quella di Monteverdi
(1607), di Gluck (1762), di Offenbach (1858) (da cui il famoso “Can-can”), di Stravinskij (1948).

Un vero e proprio esorcismo in musica compare ne I diavoli di Loudun, tratto da un saggio-romanzo di
Aldous Huxley (1952) musicato da Krzysztof Penderecki nel 1969. L’opera si occupa di un famoso caso
di stregoneria ed esorcismo avvenuto nella Francia del ‘600. Lo stile della musica fa uso di fasce
sonore, lasciando grandi spazi a recitazione e melologhi, costruendo magistralmente un’atmosfera
diabolica, anche se la scena si svolge in un convento delle orsoline nel quale è entrato il demonio
(Asmodeo).
Se, al cinema, avete notato che un certo brano musicale ricorre ogni qual volta si parla di diavolo
o di presenze misteriose legate all’oscuro medioevo (come nel film Excalibur), ci sono buone
probabilità che il brano in questione sia O fortuna, tratto dai Carmina Burana di Carl Orff, scelto
dai registi forse a causa del suo ritmo vibrante. In altri casi gruppi di note dissonanti lunghe e
stridule creano un sottofondo ideale per generare una sottile inquietudine necessaria in un buon
thriller.

P. Colombo (01/11/04)

www.nuovaricerca.org/musica_myst3.htm

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