Quel sottile legame tra mente e intestino

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Quel sottile legame tra mente e intestino

26 ottobre 2016

La psicobiotica è una disciplina recente che studia gli effetti del microbioma intestinale sulla
mente, in particolare sulle funzioni cognitive e sull’umore. Secondo una revisione sistematica degli
articoli pubblicati sull’argomento, sui topi sono stati ottenuti risultati interessanti, mentre la
ricerca sugli esseri umani è ancora un territorio in gran parte inesplorato (red)

da lescienze.it

Da alcuni decenni è noto il ruolo fondamentale che il microbioma intestinale, cioè l’insieme dei
microrganismi, essenzialmente batteri e lieviti, che vive nell’intestino, può avere una notevole
influenza sulla salute fisica. Ma solo di recente si è scoperto che questa influenza si può
esercitare anche sul cervello.

Sperimentazioni effettuate su topi, per esempio, hanno dimostrato che inserendo nell’intestino il
giusto ceppo batterico è possibile migliorare la funzione immunitaria, la reazione allo stress e
anche le funzioni cognitive, per esempio la memoria. Studi negli esseri umani hanno dato risultati
simili per quanto riguarda il livello di infiammazione dell’organismo o di specifici apparati, che è
un fattore determinante per diverse malattie, per esempio la sindrome del colon irritabile. Gli
effetti cognitivi non sono invece stati replicati negli esseri umani, in parte perché dipendono
dalla percezione soggettiva che ne hanno gli individui, e sono quindi difficilmente interpretabili.

Ma se i batteri intestinali possono comunicare con il cervello allora perché non cercare di
controllare questa comunicazione per ottenere un effetto positivo sulla mente, per esempio
diminuendo ansia e depressione? È questa la prospettiva di una nuova branca della scienza che è
stata battezzata psicobiotica, il cui stato dell’arte è descritto ora in un articolo pubblicato sul
“Trends in Neurosciences” da Philip Burnet, professore di psichiatria dell’Università di Oxford, nel
Regno Unito.

“Questi studi ci fanno ritenere che i batteri intestinali hanno un ruolo importante nei processi
biologici, che speriamo di poter sfruttare con la psicobiotica”, ha spiegato Burnet. “Ora siamo alla
ricerca dei precisi meccanismi sottostanti il collegamento tra batteri e cervello, principalmente
nel modello animale; gli studi sugli esseri umani sono interessanti, ma sono stati effettuati su
campioni piccoli, e perciò la loro replicabilità ancora oggi è difficile da stimare: sul futuro però
siamo cautamente ottimisti”.

Un punto fermo è che in questa influenza dei batteri sul cervello siano coinvolti sistema nervoso
dell’intestino (cioè il sistema nervoso gastroenterico), sistema immunitario, nervo vago e, forse,
ormoni, serotonina e dopammina, due neurotrasmettitori. Ci sono invece solo ipotesi, per esempio,
sul ruolo del fattore neurotrofico cerebrale BDNF (Brain-derived neurotrophic factor) che ha
influenza su apprendimento e memoria. Nella sperimentazione sui topi infatti è stato dimostrato che
alcuni ceppi batterici incrementano il BDNF. Ma negli esseri umani, come mostrato da una recente
revisione sistematica delle ricerche pubblicate, non ci sono prove di un beneficio dell’assunzione
di probiotici, cioè di specifici alimenti in grado di alterare la composizione delle diverse specie
di batteri intestinali.

“L’assunzione di probiotici è solo uno dei possibili approcci alla psicobiotica”, mette in guardia
Burnet. “In realtà, puntiamo a un allargamento della definizione di questo termine per includere
farmaci come antidepressivi e antipsicotici, e attività come l’esercizio fisico e il consumo di
alimenti, proprio per gli effetti sui batteri intestinali”.

Ma quali specifici ceppi di batteri sono necessari per ottenere i benefici voluti? E in che modo
agiscono? Sono le domande a cui i ricercatori devono dare risposta.

“Gli psicobiotici, cioè i probiotici in grado di influire sullo stato psichico, sono ancora molto
lontani dal loro vero potenziale: è scontato dire che occorrono ulteriori studi sull’argomento, ma è
proprio così, come d’altra parte avviene in ogni disciplina scientifica”, ha concluso Burnet.
“Tecnologia e risorse per questi studi esistono già, non resta che incanalare il nostro entusiasmo
nel cercare una risposta alle questioni più specifiche”.

www.cell.com/trends/neurosciences/fulltext/S0166-2236(16)30113-8

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