di Manuele
Religione fondata in India (Nepal) da Siddhartha Gautama, detto Buddha, nel sec. VI a. C. Essa si
stacca dalla concezione risalente ai Veda per rispondere alle esigenze di una «salvezza umana»
(senza mediazione divina). Tale «salvezza» è essenzialmente un riscatto dalla condizione umana,
sentita come penosa e insostenibile. Il Buddhismo conseguì un immediato successo, perché i problemi
in esso proposti erano già presenti nella tradizione religiosa indiana, lasciando adito a soluzioni
ambigue e contraddittorie rispetto all’ortodossia vedica.
Il rapporto tra uomini e Dei, nell’originaria concezione politeistica costituiva un limite alla
condizione umana e, al tempo stesso, una salvezza, mediante l’aiuto divino ottenuto dall’azione
cultuale. Tale rapporto si andò col tempo modificando, nel senso che l’azione cultuale da semplice
strumento di mediazione divenne l’interesse precipuo della religione indiana, perché i sacerdoti, da
mediatori tra uomini e dei, esaltarono l’atto di mediazione, il rito, come atto assoluto, generatore
di quella forza (brahman) di cui gli stessi Dei avevano bisogno per esistere. In questa si videro
molti eremiti, asceti, santoni cercare, al di fuori di ogni sistema organizzato dalla casta
sacerdotale, la propria via alla salvezza, attirando talora dei discepoli, che da soli si sentivano
impari al ponderoso compito. Uno di questi gruppi, operante nell’India settentrionale, ebbe una
fortuna particolare dando vita al Buddhismo, religione che, assieme al Cristianesimo e
all’Islamismo, costituisce ancor oggi la triade delle religioni universalistiche.
Le quattro verità
La fortuna iniziale del Buddhismo va in gran parte attribuita alla semplicità, alla chiarezza e alla
coerenza delle sue risposte ai problemi impostati dalla tradizione religiosa indiana. Quattro sono
le «verità» fondamentali:
1) La verità dell’esistenza del dolore;
2) La verità dell’origine del dolore;
3) La verità della fine del dolore;
4) La verità dei mezzi per porre fine al dolore.
Tutto è dolore nel mondo: nascere, vivere e morire; ma quale la sua origine? La risposta è: ha
origine dal desiderio; si vive perché si desidera vivere; ma la vita è dolore, e perciò il
desiderio, fonte di vita, è anche fonte di dolore. Né, per sottrarsi al desiderio, basta morire; in
tal caso si desidererebbe la morte, e si resterebbe perciò prigionieri del desiderio (d’altra parte
anche morire è un dolore). Bisogna, invece, semplicemente far cessare ogni desiderio (sia il
desiderio di esistere sia quello di non esistere).
A questo punto, il Buddhismo abbandona la speculazione filosofica e si fa decisamente religione, sia
perché s’innesta nelle pratiche rituali (d’ordine ascetico) della tradizione religiosa indiana, sia
perché utilizza certe sue concezioni metafisiche (quali il karma e la «reincarnazione»). La quarta
«verità», infatti, quella che concerne i mezzi di liberazione dal desiderio, non può che fornire una
pratica di vita sommamente ritualizzata, con precise regole di comportamento dello stesso genere di
quelle che di solito ci fanno individuare una religione tra gli altri fatti culturali.
Le regole buddhiste sono essenzialmente raccolte in otto serie parallele e distinte (l’«ottuplice
sentiero»). Esse tendono a sottrarre il praticante dalla vita mondana o profana; teoricamente
dovrebbero portarlo all’inazione assoluta, perché ogni azione produce karma, ossia, secondo la
tradizione religiosa indiana, un qualcosa che costringe a prolungare l’esistenza. Neanche la morte
annulla il karma accumulato in vita, e perciò, cessata la vita in una forma, si torna a vivere in
un’altra forma e ad accumulare altro karma. Per sottrarsi alla ferrea legge del karma che tiene
prigioniero l’uomo nel ciclo delle rinascite, il Buddhismo suggerisce dunque certe sue regole di
comportamento (teoricamente di inazione).
Esaurito il karma accumulato in precedenti vite, il buddhista esce finalmente dall’esistenza ed
entra nel Nirvana, la condizione opposta a quella dell’esistenza: può essere inteso come
non-esistenza pura e semplice o come una specie di paradiso. L’una e l’altra interpretazione, con
diverse gradazioni d’accento, sono state proposte sia dalle scuole buddhiste sia dagli studiosi
occidentali. In realtà si tratta di un concetto essenzialmente religioso, e dunque irriducibile agli
schemi di una qualsiasi filosofia. Diremo perciò: il Nirvana sta all’esistenza come le regole di
comportamento religioso predicate dal Buddhismo stanno alla vita profana.
Sviluppo del Buddhismo
In forza dei suoi stessi principi il Buddhismo poteva realizzarsi appieno soltanto in comunità
monastiche, disciplinate da una rigida regola. Ma in realtà si ebbe subito anche un laicato
buddhista, dovuto al fatto che il laico in India manteneva da sempre i sacerdoti e la tradizione
continuò anche verso i monaci buddhisti. Anzi, tali contributi vennero canonizzati e il laico che
aderiva al Buddhismo doveva farlo non più con elargizioni saltuarie ma con una formula rituale nella
quale dichiarava di «prendere rifugio» nel Buddha, nel Dharma (la «dottrina» buddhista) e nel Samgha
(la comunità dei monaci). Dopo di che anche il laico era legato a certe norme di vita riflettenti
l’etica buddhista, e le sue speranze giungevano alla convinzione di una rinascita nella forma di un
monaco buddhista, e cioè nella forma più adatta per conseguire quel perfezionamento che conduceva al
nirvana. Al monaco preoccupato della sola salvezza personale si sostituì il maestro di dottrina
misericordioso che, sull’esempio del Buddha, aiutava gli altri a raggiungere la salvezza. Questo
nuovo Buddhismo si chiamò Mahayana, ossia Grande Veicolo, in spregio al più antico Buddhismo che era
detto Hinayana (Piccolo Veicolo). Il Buddhismo del Grande Veicolo aprì nuove prospettive: per la
parte teorica vi fu una fioritura di scuole «filosofiche» in cui si cercava di definire la
«buddhità» (lo stato di perfezione in senso buddhista).
La pratica buddhista
Quanto alla pratica, l’idea del Buddha che si volge misericordioso alla salvezza altrui portò alla
concezione di entità metafisiche Buddha e Bodhisattva, da invocare non solo per la salvezza
assoluta, ma anche nei bisogni quotidiani. Di nuovo compare il rito anche in questa religione che
aveva preso le mosse da un anti-ritualismo programmatico in quanto rottura con il culto divino e con
quella casta sacerdotale che a tale culto era addetta. Sviluppo ulteriore sono le forme del
Buddhismo tantrico (o Vajrayana), che esaltano in senso ora magico e ora salvifico appunto l’azione
rituale, a cui viene ormai assimilato l’esercizio spirituale o psicofisico (yoga) già noto
all’ascesi più antica. I libri canonici del Buddhismo sono tre raccolte, o «canestri» (appunto
Tripitaka, Tre Canestri):
Una concernente la disciplina monastica (Vinaya),
Una che espone gli insegnamenti del Maestro (Sutra)
Una dedicata alla dottrina (Abhidharma).
Diffusione del Buddhismo
Il Buddhismo comincia a conquistare un posto rilevante in India con l’imperatore Asoka (sec. III a.
C.). Diviene presto un fatto culturale di tale importanza da varcare i confini dell’India,
diffondendosi a Ceylon, nell’Indocina, in Cina, in Corea, in Giappone, nel Tibet. Il Buddhismo
cinese, come anche il Buddhismo giapponese, dà vita a riplasmazioni teoriche e a sette originali.
Tra queste ricordiamo: la «Terra Pura» che si svolge dalla venerazione del Dhyani-Buddha Amitabha
(in Giappone Amidaismo, da Amida, il nome giapponese di Amitabha); la scuola Ch’an (il futuro Zen
giapponese); la setta T’ien (che sarà per i Giapponesi il Tendai) che cerca di conciliare i vari
indirizzi buddhisti. Nel Tibet il Buddhismo penetra nel sec. VII d. C. come Tantrismo per alcuni
caratteri delle sue concezioni «magiche», affini alle forme della tradizione religiosa indigena.
Nella lotta tra i vari monasteri, prevalse quello di Lhasa. Il Buddhismo tibetano si chiamò
Lamaismo. Alla fine del secondo millennio, notevole impulso alla diffusione del Buddhismo. nel mondo
occidentale è stato dato sia dal sorgere dei cosiddetti nuovi movimenti religiosi, sia dallattività
del XIV Dalai-lama a favore della pace e del dialogo interreligioso.
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