di Sister Ajahn Sundara
© Ass. Santacittarama, 2010. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Tradotto da Gabriella De Franchis
Tratto dal libro “Freeing the heart”
L’esperienza del periodo trascorso in Thailandia, durante il quale ho
praticato la meditazione abbastanza intensamente, mi ha insegnato
molto. Per quasi due anni e mezzo ho avuto la possibilità di fare
parte di una cultura che ha una visione della vita molto diversa dalla
nostra e, vivendo in quel contesto, ho potuto rendermi conto di quanto
la mia mente fosse condizionata dai valori occidentali, da
preconcetti, pregiudizi e arroganza.
All’inizio molti elementi di quella cultura mi erano completamente
estranei: c’erano molte cose per me impossibili da comprendere. Ma già
prima che arrivasse il momento di partire mi sentivo come a casa. Così
mi farebbe piacere condividere con voi alcuni aspetti di questo
periodo trascorso in quel meraviglioso paese.
Nella zona rurale dove si trova il monastero gli abitanti sono
prevalentemente contadini; gente semplice che vive una vita semplice.
Al contrario di noi, non sembrano pieni di problemi psicologici o di
crisi esistenziali. La loro vita gravita attorno a bisogni immediati,
come il cibo e il sonno, ai semplici piaceri della vita e a come
superare la giornata. I Tailandesi si sanno proprio divertire!
Quando incontrai per la prima volta il mio maestro, Ajahn Anan, egli
mi chiese come procedeva la mia pratica. Io gli dissi che uno dei
motivi per i quali mi trovavo in Thailandia era quello di avere
l’opportunità di continuare a svilupparla. Poi mi chiese se avessi
incontrato difficoltà, così gli raccontai come avevo praticato e come
mi sentivo in quel periodo.
Fu straordinario! Mentre stavo parlando ebbi la sensazione improvvisa
di avere un solido specchio di fronte a me e di vedere questo ‘Io’,
che ripeteva la solita scena con sagaci argomentazioni, diventare
improvvisamente una grande nuvola di proliferazioni! Fu un’intuizione
meravigliosa. Con chiunque altro mi sarei sentita offesa o avrei
pensato di non essere presa seriamente, ma con lui provai un grande
senso di sollievo: forse perché era solo se stesso e profondamente
tranquillo.
Il modo in cui i tailandesi si avvicinano agli insegnamenti e a se
stessi è fortemente influenzato dalla dottrina buddhista e dalla sua
psicologia. Anche la loro lingua di tutti i giorni è ricca di parole
Pali. Ricordo di avere notato che il modo in cui essi parlano della
mente/cuore a noi potrebbe sembrare alquanto freddo. Quando
attraversavamo periodi di grandi sofferenze, di paure o ricordi
dolorosi, il maestro ci diceva soltanto: “Bene, si tratta solo di
kilesa (stati mentali non salutari)” oppure “Il tuo cuore non è
felice?”
Stranamente, cose simili dette in quel contesto, ridimensionavano
totalmente l’abitudine di pensare a cose come: “‘Io’ che ho un’enorme
problema che deve essere risolto.” E poi c’era sempre questo specchio
solido e compassionevole, che rifletteva. Chiunque altro avesse detto
che i miei ‘problemi’ derivavano semplicemente dal fatto che mi
sentivo infelice, mi avrebbe fatto veramente seccare e mi sarei
sentita ignorata, ma con Ajahn Anan, nel quale credevo molto, ero
capace di vedere il modo in cui lavorava la mia mente e di abbandonare
la confusione. Le domande: “Che cosa sta succedendo? Il tuo cuore è
infelice?”, mi riportavano al momento presente.
L’atmosfera del villaggio, situato in una incantevole foresta sul
versante di una montagna, era molto tranquilla e in quel periodo non
succedeva niente di particolare. Era un luogo semplice, calmo e
isolato, e non c’era molto da fare durante la giornata tranne che
ricevere l’elemosina del cibo, mangiare e spazzare il proprio sentiero
per mezz’ora circa. Tutto qui. Nel tempo che restava potevamo
dedicarci alla pratica formale. La mia mente si calmò molto.
Attraverso queste esperienze ho imparato ad apprezzare la semplicità e
la mente quando si trova in uno stato di normalità: quando non crea
problemi sul modo di essere delle cose. Non sto dicendo che
quest’approccio, apparentemente semplice e diretto, nei confronti
della mente, sia giusto o sbagliato, ma ho notato che praticare in
quell’ambiente e in quella cultura per due anni, ha avuto un effetto
potente. Mi ha aiutato a smettere di continuare a creare la mia
persona e questo è stato un atto alquanto liberatorio. Quando la mente
si calmava potevo vedere con molta chiarezza questo senso dell’‘Io’,
la persona, ogni volta che sorgeva.
Gli insegnamenti ci dicono che se soffriamo a causa del senso dell’Io,
sicuramente non possiamo andare molto a fondo nella pratica;
l’intuizione che sorge non può essere tanto profonda da sradicare
l’attaccamento. Tutta la cultura di questo popolo fa sì che questo
atteggiamento diventi possibile. Se uno pensa troppo, lo si considera
sull’orlo della follia. Chiedetelo ad un tailandese: dicono che quando
qualcuno pensa troppo ha un ‘cuore caldo’ – e quando uno è caldo
(‘ron’ in Thai) è considerato un illuso. Avere un ‘ronchai’ (cuore
caldo) è alquanto negativo, persino offensivo. La gente di lì non ha
molta passione per il pensiero; non sto dicendo che sia un bene o un
male, ma loro non credono nella mente pensante. Cosa molto diversa
dalla mia cultura d’origine, dove il pensiero è oggetto di culto, dove
vengono scritte tonnellate di libri e dove le persone hanno fiducia
nell’intelletto e ci credono molto. Quindi, era interessante trovarsi
in una cultura che funzionava in un modo così diverso – molto più
intuitivo, più femminile.
Una volta tornata in Europa, quello che mi colpì di più fu la
complessità dello stile di vita occidentale. Mi accorsi che il fatto
di avere accesso a tante tradizioni e a tanti insegnanti aveva
trasformato i valori spirituali della società in un immenso mercato.
Non che questo sia tutto negativo, ma per una mente che già lotta con
tutto quello che riceve attraverso i sensi, diventa molto impegnativo.
Non c’è da meravigliarsi se le persone, dopo essere state esposte a
tante informazioni e a tante scelte, diventino nevrotiche!
Quando sei là fuori nella foresta, sei solo con un paio di uccelli, un
paio di insetti e natura tutto intorno. I giorni arrivano,
trascorrono, passano senza che succeda niente di speciale, e si fa
l’abitudine ad un ritmo molto semplice, tranquillo. L’ho trovato molto
piacevole e sapevo che mi avrebbe aiutato ad andare avanti nella
pratica. Effettivamente mi sentivo come a casa e molto fortunata ad
avere questa opportunità. La stessa cultura, prevalentemente
buddhista, mantiene le cose nella loro semplicità e l’atmosfera non è
di quelle che stimolano intellettualmente. L’effetto che questo ha
sulla mente è sorprendente: diventa naturalmente molto più tranquilla
e si calma. Così avevo paura di ritornare in Occidente e ogni volta
che pensavo di ritornare, vedevo l’immagine della mia mente che
affogava in un oceano di pensieri; non proprio un segno di buon
auspicio!
Anche se mi sono dovuta adeguare a seguire l’etichetta Thai delle
maechee, ‘La coreografia delle monache Thai’, come lo chiamavo io
(camminare in fila dietro ragazzi molto giovani per ricevere il cibo e
accovacciarmi ogni volta che parlavo con un monaco), non è stato
niente in confronto alla beatitudine e al sostegno che ho ricevuto.
Inizialmente non ero sicura che avrei potuto affrontare la vita e il
ritmo di Amaravati. Decisi che se avessi insegnato avrei reso le cose
facili; avrei parlato solo della pratica, solo fatti: Anapanasati, i
Cinque Khanda, o l’Origine Dipendente. Non avrei complicato la vita
delle persone con più parole, concetti e idee.
Però, quando poche settimane fa sono andata a dare degli insegnamenti
presso un gruppo buddhista, ho avuto una grande lezione sul lasciare
andare. Mentre mi accompagnavano, chiesi innocentemente al
responsabile del gruppo: “Come vorreste organizzare il weekend?”.
Naturalmente, io avevo già delle idee: “Farò solo meditazione con
loro. Gli insegnerò come farla bene, piuttosto che pensarci; poi,
dopo, possiamo condividere le nostre esperienze.” Ma lui rispose: “Ci
piacerebbe molto parlare della pratica, farti domande e discutere del
Dhamma, e…”. E io pensai: “Dio mio! Come non detto.” Dovevo solo
lasciare andare. Mi ricordai dell’insegnamento di Luang Por Sumedho:
“Accogli la vita proprio così com’è. Non ne fare un problema. Apriti
alle cose così come sono.”
A quanto pare, la mancanza di auto-stima non crea molta sofferenza nei
tailandesi, sembra che non sappiano neanche che cosa sia! Una volta
che una tailandese colta venne a trovarmi, per curiosità, le chiesi:
“Ti capita mai di non piacerti?” e lei disse: “No, mai”. Ero
esterrefatta. Mi aveva appena parlato di aspetti molto dolorosi della
sua vita, ma senza dare giudizi. L’auto-negatività non sembra essere
parte della loro natura psicologica, mentre noi ne siamo pieni. Quindi
l’inizio per noi è difficile perché il primo passo su questo sentiero
consiste nell’avere la pace nel cuore, cosa che non succede se c’è
mancanza di auto-stima
Fortunatamente Ajahn Sumedho, che conosce bene la mente occidentale,
ha escogitato un modo ottimo per affrontare la tendenza a dimorare
sull’aspetto negativo delle cose e a giudicare: si tratta solo di
riconoscerlo semplicemente ed accoglierlo benevolmente all’interno di
uno spazio tranquillo, d’amore e di calma. E’ un passo di maturità,
poiché molti di noi trovano che sia difficilissimo creare uno spazio
attorno all’esperienza, avendo la tendenza a farsi prendere da quello
che succede nella nostra mente e a creare attorno a questo un Io.
Supponiamo che stiamo facendo esperienza della noia; se non c’è
consapevolezza, ci facciamo prendere facilmente da questo sentimento e
diventiamo una persona annoiata, una persona che ha un problema con la
noia e ha bisogno di risolverlo. Questo approccio complica moltissimo
un’esperienza semplice come quella della noia. Quindi, tutto quello
che dobbiamo fare è concederci uno spazio interiore per contemplare
quel sentimento, invece che solidificarlo rendendolo un problema. In
Thailandia, dove la psicologia é intrisa di insegnamenti buddhisti,
Ajahn Anan diceva semplicemente: “Beh, è solo uno degli ostacoli.”
Semplice, no? Spesso, però, non è possibile che per noi la noia sia
solo semplice noia, deve essere molto personale e speciale!
Una delle cose che più mi ha attirato verso gli insegnamenti buddhisti
è la semplicità del metodo; penso che sia ciò che tutti vorremmo
coltivare nella nostra pratica e nella vita. Il Buddha ha detto:
“Guarda te stesso. Chi sei? Che cosa pensi di essere?… Guarda i tuoi
occhi, gli oggetti della vista e guarda come ricevi l’esperienza del
contatto dei sensi. Che cosa sono gli occhi, il naso, la lingua, il
corpo, le orecchie? Che cosa sono i pensieri?” Egli ci chiede di
indagare sull’esperienza sensoriale piuttosto che identificarci con
essa e reagire al dolore o al piacere. Egli ci ha detto semplicemente
di osservare, di vedere realmente la natura dell’esperienza, molto
semplicemente e direttamente, senza tante storie; di portare nel
proprio cuore solo pace e tranquillità e guardare.
Il nostro mondo viene creato proprio dall’esperienza sensoriale. Se
non ne conosciamo l’origine e gli effetti è molto difficile uscire
fuori dal circolo vizioso che si crea quando c’è un ‘Io e il mio
problema’ che deve essere risolto o un ‘Io e il mio amore per
qualcosa’; questo tipo di tira e molla agita di più il cuore. Così,
invece di afferrare o respingere guardiamo attentamente senza farci
coinvolgere e conosciamo le cose così come sono: impermanenti,
insoddisfacenti, prive di un sé. Ma questo non avviene
automaticamente, sono necessarie determinate condizioni.
Come prima cosa sono necessarie pace e calma, senza di queste è molto
difficile potere vedere qualcosa; ed è per questo che molta della
nostra pratica consiste nel portare il cuore ad un reale stato di
equilibrio e di calma. La maggior parte delle persone è in un costante
stato di reattività. Quando gli chiedete se stanno soffrendo, loro
dicono: “No”. Pensano di stare molto bene. Ma chi ha visto la
sofferenza della reattività a poco a poco si rende conto che non è il
miglior modo di porsi nei confronti della vita; è molto limitato – c’è
sempre la percezione del ’Sé’, ’Io’ e ‘Tu’. Mentre quando diminuisce
il senso del ‘Sé’, diminuisce anche la reattività.
Ad essere d’ostacolo non è tanto il senso dell’Io, ma il nostro
identificarci con esso. Le Quattro Nobili Verità mirano proprio a
questa esperienza: la sofferenza dell’attaccamento all’ ‘Io’, credere
che abbiamo un io permanente. Un Maestro ci ha fatto l’esempio dell’io
come di una collana, quando le biglie sono tenute insieme da un filo
diventano una collana, ma non appena si taglia il filo il tutto va in
pezzi…
Ho trascorso molti anni ad osservare attentamente l’esperienza del
senso dell’‘Io’. Ricordo che nei primi giorni quando ero turbata,
Ajahn Sumedo mi diceva: “Beh, non c’è bisogno che tu soffra per
questo. Ci sono i Rifugi e …”, ma questo mi faceva infuriare: “Ma, e
io? Io sto soffrendo!”. Avevo la sensazione che stava ignorando
l’enorme problema personale e che non mi parlasse seriamente. Così per
anni mi sono presa cura di quel senso dell’‘Io’ senza conoscerlo. E
non pensavo minimamente che mi stessi illudendo, lo prendevo proprio
seriamente!
In Thailandia se soffri e parli della tua sofferenza, hai subito la
strana sensazione che la pratica sia andata a farsi benedire. Forse
perché nella vita calma e semplice di un monastero della foresta, la
pratica formale è fortemente radicata nello sviluppo della
concentrazione, samadhi. Lì hanno un metodo diverso.
Ad Amaravati il fondamento della nostra pratica sono le Quattro Nobili
Verità che puntano sempre alla sofferenza, alla sua causa, al suo
abbandono e al sentiero. Qui non è facile ottenere stati raffinati
della mente perché subiamo costantemente le conseguenze del contatto
dei sensi: gli oggetti, il lavoro, la convivenza con persone che hanno
una forte personalità, ecc. Ajahn Sumedo insegna che per liberare la
mente si deve semplicemente mettere in pratica questo insegnamento per
tutto il tempo fino al giorno della morte.
Mi ha colpito la gentilezza e la delicatezza della psiche dei
tailandesi rispetto alla nostra; li ho trovati generalmente molto
calmi e rilassati. A loro piace molto ridere, e in fondo la vita non è
un problema; se te ne crei uno, sei considerato uno stupido. Anche la
gente molto semplice dei villaggi pensa che se ti crei dei problemi,
sei uno stupido. Il che è ben diverso dalla nostra tendenza a
complicare la vita e creare problemi su molte cose; fondamentalmente
perché non ci è stato insegnato un modo migliore. Tutta la nostra
cultura è basata sulla convinzione che il mondo si capisce attraverso
le sovrastrutture del pensiero, piuttosto che attraverso la conoscenza
silenziosa, la mente risvegliata.
Affinché la nostra pratica abbia i suoi frutti è importante non dare
troppa importanza a se stessi. In sostanza, finché rimarremo presi da
noi stessi, saremo costretti a soffrire. Quando la mente è in balia di
flussi di pensiero centrati sull’io, come: “Non mi piaccio”, “Penso di
avere un problema”, e così via, finisce per essere alimentata dal cibo
sbagliato, riempita da stati inappropriati (akusala dhamma).
La realizzazione del Dhamma dipende anche dalla forza della nostra
mente, e come può succedere questo se non c’è un certo grado di
energia positiva? Ecco perché metta, gentilezza e accettazione, è
molto importante. La nostra mente non sarà luminosa se la riempiamo di
un sacco di stati negativi che la indeboliscono. Sia che si tratti di
rabbia, di desiderio, di gelosia o di disperazione, se non vediamo la
loro vera natura indeboliscono citta, il cuore, ma se li vediamo alla
luce della consapevolezza, allora non hanno potere su di noi. Provate
a meditare colmando il vostro cuore di metta, poi di disperazione e
poi di gioia; vi accorgerete della differenza. E’ molto semplice. Si
può fare lo stesso con la rabbia. Fate emergere, per un momento, le
cose che vi fanno arrabbiare e vedete l’effetto che hanno sul cuore.
Sono solo stati mentali condizionati, ma spesso non siamo veramente
consapevoli di quanto possono influire su di noi; questo è il frutto
della illusione.
Così quando arriviamo a conoscere molto chiaramente, non attraverso un
punto di vista intellettuale, ma con la saggezza, la differenza che
esiste tra ciò che è profittevole e ciò che non lo è, facciamo un
grande passo avanti. L’insegnamento del Buddha è come una mappa che ci
aiuta a distinguere i dhamma profittevoli da quelli non profittevoli
che dovremmo imparare a riconoscere e a lasciare andare.
Ricordatevi che il cuore è come un contenitore pieno di cose che
vengono dal passato. Se, nel passato, siamo stati ladri o pigri, o
arroganti, amorevoli e generosi, allora avremo determinate abitudini.
Quando meditiamo riceviamo i risultati delle nostre abitudini: non
possiamo gettarle via quando vogliamo. Sarebbe bello poterlo fare!
Saremmo tutti illuminati già da tempo! Quindi, è molto importante
avere compassione e pazienza con il proprio kamma.
Una cosa che mi è diventata più chiara con l’esperienza in Thailandia
è che l’esperienza concreta, oltre ad essere sempre qui e ora, è anche
un procedimento graduale, è come sviluppare una abilità. Occorrono
concentrazione, presenza mentale e sforzo. Sono gli strumenti che
servono per riuscire ad avere una visione profonda dei nostri
attaccamenti e per lasciarli andare. Siamo tutti qui per liberare i
nostri cuori dalle illusioni e per imparare a vivere liberi dal
rimorso e dalla confusione. Perché sorgano i frutti della pratica nel
nostro cuore dobbiamo sviluppare queste qualità della mente.
Per noi occidentali il corpo è una cosa molto importante e gli
chiediamo molto: deve essere sano, forte e a proprio agio; mentre in
Oriente non se ne occupano così tanto. Certo il corpo è importante
poiché senza di esso non potremmo praticare, ma se si rompe o si
deteriora non c’è bisogno che la mente si agiti. Così, se chi pratica
la meditazione parla troppo del proprio corpo, o se vuole dormire un
po’ di più, è fondamentalmente considerato un pessimo praticante! Da
un punto di vista buddhista, la mente è più importante perché sarà
determinante per quello che succederà nel momento in cui moriremo. Se
la mente è forte e sana, allora il corpo si calma naturalmente e ne
trae un beneficio maggiore di quando ci lasciamo sopraffare da
preoccupazioni per il suo stato di salute. Questo punto di vista mi ha
dato una prospettiva più equilibrata sul corpo fisico e un modo più
distaccato per gestirlo. E’ facile che la mente si soffermi sui propri
aspetti negativi o su quelli delle altre persone. Questo è il modo più
semplice di guardare la vita; la cosa più difficile è addestrare il
cuore a seguire veramente il sentiero della bontà, kusala dhamma,
dhamma abile.
Ci possiamo sentire giù o depressi, ma possiamo considerare che si
tratta soltanto di uno stato mentale, di un momento. Vogliamo fare
durare questo stato per tutta la vita? Oppure, tramite la saggezza,
possiamo renderci conto che si tratta solo di un momento, una
sensazione, un pensiero? Una simile realizzazione ci dà il vero senso
delle priorità. Quando abbiamo sensazioni, o pensieri – cosa che non
possiamo evitare – possiamo sempre guidare la nostra mente verso le
cose profittevoli. Tutto il resto ci trascina all’inferno …. cosa
che, spesso, facciamo inconsapevolmente a noi stessi.
Così abbiamo una scelta da fare: possiamo stare all’inferno, il regno
dell’infelicità, o in paradiso, il regno della felicità, oppure
possiamo stare nello stato di pace che deriva dalla saggezza, poiché
sappiamo che quando sono presenti esperienze e sensazioni piacevoli
siamo in paradiso e quando queste sono spiacevoli siamo all’inferno.
La liberazione avviene quando si conoscono entrambe le situazioni per
quello che sono, non è così? La via di mezzo è quando la mente non ha
ripensamenti. Noi non possiamo controllare la vita e ci vuole tempo
per andare oltre al desiderio del paradiso o la paura dell’inferno.
Il solo modo in cui le persone camminano o aprono la porta, il modo in
cui parlano o mangiano ci può mandare all’inferno o in paradiso. Non
ci vuole molto. Non è ridicolo? A volte ci sentiamo beati o ci
sentiamo in buoni rapporti con tutto l’universo, poi, tornando nella
nostra dimora, sentiamo che qualcuno sta facendo un po’ di rumore e
improvvisamente ci infuriamo. Non ci vuole molto. Non è vero? Quindi
la vita è molto instabile. Ma c’è la conoscenza, il momento di
liberazione in cui si sa che: “Ah, questa è una sensazione, un
contatto sensoriale, orecchio, naso …”
L’insegnamento del Buddha, ricordatelo, è conoscere il contatto
sensoriale, l’ oggetto del contatto e l’effetto che il contatto ha nel
cuore. Allora, sentendo che il nostro vicino fa un sacco di rumore, la
reazione è: “Gli dirò di smetterla. Non lo sopporto!”. Ma quando siamo
in grado di lasciare andare, ci accorgiamo che in realtà non ci dà
fastidio, …. però poi il rumore inizia nuovamente e alla fine ci
troviamo a bussare alla sua porta per chiedergli di smetterla. E
naturalmente se in quel momento non c’è saggezza né consapevolezza,
poi proveremo rimorso: “Mi sento malissimo, non avrei dovuto
farlo…”. E tutto il ciclo della sofferenza comincia di nuovo.
Il sentiero che il Buddha ci mostra è molto semplice. Dobbiamo sempre
ricordarci di avere sati, consapevolezza. E’ come un ritornello
infinito: sati, sati, sati. Dove sono adesso? La pratica della
consapevolezza è sempre nel momento presente. Non c’è conoscenza nel
futuro o nel passato. Possiamo conoscere un pensiero che ci porta nel
passato o nel futuro, ma nel momento presente c’è solo conoscenza,
consapevolezza.
Quindi, ricordiamoci che siamo tutti qui per praticare e rendere la
pratica semplice, per conoscere che cosa è che dà nutrimento al nostro
cuore: verità, pace, calma, compassione, metta. Quando abbiamo metta
l’ego, l’Io, svanisce. Avete notato che quando la gente ha metta nei
nostri confronti, nei nostri cuori c’è pace. Non è così? Se le persone
provano amore nei nostri confronti, noi ci sentiamo più sereni, più
calmi. Tutto questo possiamo farlo anche per noi stessi; e se tutti
facciamo questo nei confronti degli altri sarà un buon sostegno per la
pratica.
Voglio lasciarvi con questa esortazione: rendiamo le cose veramente
semplici e ricordiamoci che non dobbiamo avere fiducia nelle
esperienze che ci complicano la vita. Molto probabilmente sono frutto
del lavoro dell’amico Mara, dell’Io o dell’ego. Quando il cuore è in
pace e quando c’è comprensione, allora le cose sono abbastanza calme,
sono abbastanza tranquille, vanno abbastanza bene. Così vi auguro di
coltivare gentilezza e infinita pazienza nei vostri stessi confronti,
nei confronti del risultato del vostro kamma, qualsiasi esso sia, con
il quale dovete lavorare e che in questo momento vi disturba. Ecco
perché il Buddha ha detto che la pazienza e la tolleranza sono le
qualità più importanti.
Lascia un commento