Richard Gere e il suo impegno per il Tibet 1
– Prima parte –
Il questi giorni problematici per il Tibet presentiamo un articolo che narra
l’impegno concreto di Richard Gere per il popolo tibetano.
Inflessibile con se stesso e generoso con gli altri, Gere è una di quelle
rare persone che, giunte in cima alla scala sociale, sa cosa conta davvero.
Attivamente impegnato in numerosi progetti per gli aiuti al Tibet, sa
integrare la sua figura pubblica hollywoodiana con i richiami più profondi
del suo cuore.
“Presto il terribile Signore della Morte ti leverà tutte le ricchezze
terrene”, dice l’insegnamento buddista preferito da Richard Gere, “quindi in
questo stesso istante – è quasi troppo tardi! – pratica il dharma e compi
azioni virtuose”.
Inflessibile con se stesso e generoso con gli altri, Gere è una di quelle
rare persone che, giunte in cima alla scala sociale, sa cosa conta davvero.
Pochi anni fa, a Nuova Delhi, un bambino di quattro anni venne abbandonato
negli uffici di un’organizzazione per l’assistenza e la prevenzione
dell’AIDS,
chiamata “Naz”, un termine urdu per “orgoglio”. Si scoprì che entrambi i
genitori del bambino erano morti di AIDS e che lui stesso era sieropositivo.
I parenti avevano adottato il fratello maggiore – non infetto – ma non
avevano voluto il bambino malato.
«Il bambino fu abbandonato nei locali del nostro ufficio», racconta Anjali
Gopalan, direttore amministrativo del Naz, «e andai completamente fuori di
testa». Gopalan divenne la tutrice legale del bambino e, ispirata da lui,
fondò la “Casa di assistenza per donne e bambini malati di AIDS”: il primo e
forse unico centro residenziale in tutta l’India per le malate terminali di
AIDS e i loro figli sieropositivi e/o orfani, il cui numero è in costante
crescita.
La Casa di assistenza è finanziata, in parte, dalla Fondazione Iniziative
Richard Gere, la nuova istituzione pubblica di carità affiliata alla
Fondazione Gere, creata undici anni fa e di carattere privato. Quando
intervistai Gopalan, aveva appena discusso con Gere lo sviluppo della Casa
di assistenza. Attualmente, tutti i bambini vivono nello stesso edificio,
che siano malati o meno. Una delle cose che Gopalan aveva appreso da
quell’incontro
fu che la Fondazione Iniziative avrebbe aiutato il Naz a trovare i fondi per
affittare una seconda casa in cui i bambini avrebbero potuto vivere quando
si sarebbero sentiti meglio.
«Quando stanno male, possono tornare alla Casa di assistenza», dice Gopalan
con grande emozione nella voce. «Altrimenti, possono vivere a casa loro.
Capisci?». Ride, felice. «Ora, con questo aiuto, potrò farlo. Che
sollievo!».
Si stima che, nel 2010, milioni di bambini resi orfani dall’AIDS non avranno
una casa. La speranza è che la Casa di assistenza del Naz costituisca un
modello, qualcosa che altre organizzazioni possano imitare. Ecco l’idea che
guida tutti i progetti finanziati da Gere (con la speranza che altre persone
si uniscano ai finanziamenti): che tali progetti servano da modello, da
esempio valido per le comunità locali, non solo in India, ma in tutti i
paesi in via di sviluppo.
A proposito di Richard Gere, Gopalan dice, ridendo: «Quello che mi è più
piaciuto, oggi, è che si tratta di una persona con i piedi molto per terra,
decisamente in contatto con se stesso. Ciò mi ha dato una grande energia».
Gopalan, sollevata, ride di nuovo: «Dentro di me pensavo: “Grazie a Dio,
esistono persone così!”. Mantengono viva la tua fiducia negli esseri umani.
Penso semplicemente che una persona come lui non dovrebbe essere così, cioè
tanto gentile. Non esiste alcuna ragione per cui qualcuno debba comportarsi
così».
La prima volta che incontrai Richard Gere ero seduta su una panchina di un
parco, davanti alla stazione di una città piccola e graziosa, in cui non ero
mai stata, all’interno dello stato di New York. Ciò avveniva nove mesi prima
della mia telefonata ad Anjali Gopalan. Non avevo mai incontrato Gere né mi
aspettavo di farlo, sebbene fossimo entrambi buddisti e io, per guadagnarmi
da vivere, facessi la giornalista mondana. In ogni caso, stavo aspettando un
passaggio per un centro del dharma, Karmê Chöling, cinque ore più a nord, da
una donna chiamata Betty e che conoscevo appena. Betty era in ritado di 45
minuti. Ma poiché era una splendida mattina autunnale – con l’aria tersa e
chiara – la lunga attesa non mi dispiaceva. Poi, come dovrebbe sempre
succedere in giornate splendide come quella, Richard Gere si avvicinò e si
presentò. Proprio così: spuntò dal nulla con un cappellino da baseball,
sorrise con fare molto simpatico e chiese: «Sei Patricia?».
Beh, io sono Patricia, anche se nessun altro, all’infuori di mia madre, mi
chiama in quel modo. In ogni caso, risposi di sì, al che lui tese la mano
dicendo: «Io sono Richard».
OK. A volte la vita funziona così: improvvisamente arriva un’onda magica. Il
suo viso era in sintonia con la giornata: pieno di buon umore. Pensai quanto
fosse incredibile che Betty avesse mandato Richard Gere a prendermi. La
mattinata era perfetta, e in quel modo lo stava diventando ancora di più. Mi
disse: «Sei pronta?» e io risposi: «Certo». Allora prese la mia sacca da
viaggio e ci dirigemmo verso il suo scintillante pick-up rosso, in fondo
alla strada.
Perché Richard Gere mi stava dando un passaggio? Di sicuro, aveva cose
migliori da fare. Gli chiesi: «Stai andando al Karmê Chöling?».
Eravamo già dentro il pick-up, entrambi ancora sorridenti e (apparentemente)
felici di essere là in quel momento. Girò la chiave nel cruscotto, mi guardò
e disse: «No». Feci un cenno col capo e cominciammo a muoverci in
retromarcia, mentre lui guardava allo specchietto per essere sicuro che non
ci fosse nessuno dietro di lui. Ogni cosa stava andando benissimo, tuttavia
chiesi: «Ma. Conosci Betty, vero?».
Stavolta si fermò e mi guardò. I suoi occhi erano amichevoli e gentili.
«No», disse.
Stavamo seduti là, uno di fronte all’altra, due buddisti che si guardavano,
il giorno appena meno perfetto di prima, solo un po’ più strano. Poi lui
disse: «Sei una massaggiatrice?», e pensai: «Oh, merda». «No», risposi. Ci
fu un momento di silenzio, il sole scintillava attraverso gli alberi, un
uccello cantava, una o due persone passarono camminando. Lui disse: «Ero
venuto a prendere una massaggiatrice di nome Patricia per mia moglie». Erano
possibili moltissime risposte, ma dissi semplicemente: «Non sono io».
Ripensando adesso a quel giorno, non so cosa facemmo. Forse sorridemmo,
scrollammo il capo o non facemmo niente di tutto ciò. So soltanto che stavo
bene seduta con lui, nonostante l’equivoco. Lui disse: «Ti aiuto con la
borsa», e uscimmo dal pick-up. Venne dal lato mio e tirò fuori la sacca da
viaggio dal pianale, posandola sul marciapiede. Insieme tornammo alla
panchina, dove una donna stava aspettando. Le chiesi: «Ti chiami Patricia?»
e lei rispose: «Sì». Quindi si volse verso di lui, lui verso di lei e la
cosa finì là. Dopo che si furono allontanati, arrivò Betty.
Quando ci rincontrammo, otto mesi dopo, fu impossibile avvertirlo che ero la
persona della panchina; tutto ciò che sapeva era che una giornalista stava
arrivando nei suoi uffici di Manhattan per intervistarlo sulla sua nuova
Fondazione Iniziative. Per cui, la prima cosa che disse quando si avvicinò
per salutarmi, fu: «Noi ci siamo incontrati». Poiché vedevo che stava
cercando di ricordare dove, glielo rammentai: una città graziosa, un giorno
di autunno, la panchina di un parco, una massaggiatrice. Fece un salto
all’indietro
e rise.
Sebbene a New York facesse un caldo soffocante, nell’anticamera dei suoi
uffici c’era un fresco piacevole. Tutt’intorno vi erano foto di Sua Santità
il Dalai Lama e libri sul dharma. Indossava una giacca tipo jeans di velluto
verde a coste sottili, una T-shirt bianca e pantaloni neri. «Eri tu», disse.
Risposi di sì, alzando le spalle. «Devi essere molto fiduciosa», continuò,
«per salire così in una jeep con uno sconosciuto».
Non risposi: «Non sei uno sconosciuto», perché in quel momento sarebbe stato
troppo lungo da spiegare. Infatti, in quel giorno d’autunno, lui mi era
sembrato molto familiare non solo perché avevo visto i suoi film, ma anche
per la profondità della sua pratica e del suo studio buddisti. Erano la
devozione ai suoi insegnanti e l’aderenza alla prospettiva buddista a non
farne uno sconosciuto. Un compagno della Pratica era venuto a prendermi alla
panchina vicino la stazione. Questo era ovvio.
«Ho incontrato Richard a Bodhgaya nel 1986», racconta Rinchen Dharlo,
presidente del Fondo per il Tibet, «durante un seminario di Sua Santità il
Dalai Lama. Un anno dopo venni trasferito a New York per essere il
rappresentante del Dalai Lama e per guidare il locale Ufficio del Tibet. La
Repubblica Popolare Cinese, potente membro del Consiglio di Sicurezza con
diritto di veto, non ha mai permesso che la questione tibetana venisse
sollevata in alcun forum delle Nazioni Unite. Ricordo che quando dicevi alla
gente da dove venivi, la risposta era: “Tibet? Dov’è?”. Così era la
situazione in quei giorni».
«Da allora, la situazione è cambiata, soprattutto grazie ai viaggi di Sua
Santità in tutto il mondo, la realizzazione di alcuni film, le risoluzioni
adottate dall’ONU, dal Congresso americano e dai parlamenti mondiali, i
centri del dharma e i gruppi di sostegno nati e sviluppatisi in tutto il
mondo. Parte del merito deve andare a Richard Gere, rimasto fermo e
immutabile come un albero eloquente nella sua attività a favore della
cultura tibetana».
Nel 1987 Gere fu co-fondatore della Casa del Tibet a New York dove, in un
solo luogo, era visibile la cultura tibetana in tutte le sue sfumature.
Secondo Dharlo, fu Gere a proporre il 1991 come “Anno internazionale del
Tibet”. Dopodiché, egli cominciò una campagna con migliaia di eventi (tra
cui discorsi pubblici, festival cinematografici, conferenze sul Tibet,
spettacoli e programmi culturali) in tutto il mondo. All’epoca, Gere
finanziò molti insegnamenti importanti, tra cui l’iniziazione di Kalachakra
data da Sua Santità il Dalai Lama a New York. Allo stesso tempo, Gere era
molto impegnato nella raccolta di fondi per la ricerca sull’AIDS e nelle
campagne di sensibilizzazione contro le violazioni dei diritti umani nel
mondo.
Da allora Gere, attualmente presidente della Campagna Internazionale per il
Tibet, ha finanziato laboratori chirurgici mobili nel Tibet per curare la
vista dei tibetani malati di cataratta; ha inviato aiuti di emergenza per
l’India
e il Tibet dopo che le tempeste di neve avevano ucciso la maggior parte del
bestiame; ha sovvenzionato la pubblicazione di importanti libri buddisti,
tra cui il capolavoro in due volumi di Tulku Ugyen, maestro di scuola
Dzogchen, As It Is (Snow Lion Publications), Carefree Dignity di Tsoknyi
Rinpoche (Snow Lion Publications) e decine di libri del suo insegnante, il
Dalai Lama. Inoltre, ha iniziato e sostenuto la pubblicazione di Storia di
Ani-La, la monaca guerriera del Tibet, di Ani Pachen con Adelaide Donnelley,
l’eroica e commovente storia della compianta Ani Pachen, conosciuta come la
monaca guerriera del Tibet.
Siamo seduti su due vecchie sedie imbottite intorno a un basso tavolino, nel
grande ufficio privato di Gere, a una certa distanza dalla sua scrivania. Mi
sto lamentando del caldo e della grande folla di New York, ma lui mi
risponde citando il maestro dello studioso buddista Jeffrey Hopkins, Geshe
Wangyal: «Sai cosa succede alla maggior parte di noi», dice Gere, «quando
stiamo facendo la nostra meditazione e udiamo un suono, una voce umana, o
qualcuno bussa alla porta e. Porca miseria!». Ride, e io con lui. «Bene, il
primo impulso dell’insegnante di Hopkins era.», e qui Gere schiocca le dita,
«Ah, un essere senziente! Ah! Un essere senziente!».
Quando Gere ti parla, ti guarda dritto negli occhi. È cortese, ma è evidente
che sa essere inflessibile per quel che riguarda il dharma, per ciò che
occorre a mantenere la prospettiva, e quando riconosce – per usare le sue
parole – che stai facendo “cazzate” nella tua pratica.
Questo è ciò che ribadisce in continuazione: lui è un pigro, non è nulla di
speciale. Non c’è dubbio che abbia studiato la sua mente e sappia quale
compito erculeo sia il lavorare con essa.
Lodi Gyary, inviato speciale di Sua Santità il Dalai Lama a Washington,
conosce Gere da venti anni e afferma che quest’ultimo è felicissimo di aver
conosciuto il dharma, perché il cammino di Gere è estremamente difficile.
«Vedi, tutte queste persone famose sono anche le più infelici. Soffrono a
causa dell’importanza che attribuiscono a se stesse, a causa del loro ego.
Poi arriva Gere, felicissimo perché è il famoso Richard Gere. Ma allo stesso
tempo è in grado di condurre una vita davvero libera da ciò che molti dei
suoi colleghi a Hollywood soffrono quotidiamente». Secondo Gyari, Gere è uno
studente del dharma molto bravo. Rinchen Dharlo concorda, affermando che,
sebbene Gere lo neghi, «egli è un grande studioso buddista, al livello dei
professori più famosi». Non solo, Gere possiede una conoscenza approfondita
della cultura tibetana, una conoscenza che, secondo Dharlo, rischia di
andare «perduta per sempre».
«In questo paese», dice Dharlo, «molto spesso la gente adotta cause per uno
o due anni, poi passa a un’altra causa. Richard non è così. Sta facendo
questo con tutto il suo cuore. È molto compassionevole; l’insegnamento
buddista lo ha cambiato in profondità».
Seduto nell’ufficio, Gere parla di un insegnamento che ama, “Il cibo per il
cuore” di Kyabje Pabongka Rinpoche, e dice: «Fondamentalmente, questo
insegnamento afferma: “Dì a te stesso la verità, perché su questo punto sei
pieno di merda. Stai solo giocando. Vuoi la liberazione? Sei troppo codardo,
sei pieno di merda”». Di nuovo, parlandomi, si piega in avanti. «Pensi di
essere bravo perché conosci un po’ di dharma, hai letto qualche libro e
incontrato degli insegnanti, ma sei pieno di merda. Non c’è nessuna saggezza
autentica né alcuna rinuncia. Se il vento soffia, cadi in mille pezzi». Mi
rimpicciolisco nella sedia e lui ricade ridendo nella sua. «Sto parlando di
me», spiega.
Gli rispondo che trovo ciò che ha detto poco incoraggiante, e lui: «È la
cortesia più grande dell’amore: la verità. Ma, in realtà, puoi farcela. Sei
ci riesci, fatti coraggio. Una delle mie meditazioni più importanti è
finalizzata al coraggio e alla determinazione, ad avere il fegato di fare
ciò che va fatto».
È difficile non pensare a quando, subito dopo l’11 settembre 2001, Gere
organizzò un concerto di beneficenza al Madison Square Garden per le
famiglie dei poliziotti e dei pompieri uccisi quel giorno. Paragonando i
pompieri e i poliziotti caduti ai bodhisattva, disse: “Non si chiedono se
sei buono o cattivo; non si chiedono qual è la tua religione; non si
chiedono nemmeno a quale razza appartieni. Salvano chiunque”. Poi, chiedendo
che l’America rispondesse alla tragedia con l’amore e la compassione,
anziché con la vendetta, venne subissato di fischi. Quella fu una cosa che
richiese coraggio.
Prova a immaginare: Gere, da giovane, che vive in un appartamento malridotto
a New York e legge filosofia cercando di capire perché la vita sia così
dolorosa, finché si imbatte nel libro Vita di Milarepa; poi comincia a
meditare a 24 anni con un insegnante Zen, Joshu Sasaki Roshi, e s’incammina
sul sentiero con tutta l’ambizione che deve aver avuto per diventare una
stella del cinema americano. Deve aver avuto il diavolo addosso.
Immaginalo, in questo stato, partire per l’India e incontrare, nel 1981,
l’uomo
che sarebbe diventato il suo guru principale, Sua Santità il Dalai Lama, una
persona che secondo Gere è «la più genuinamente priva di ego che abbia mai
incontrato».
«E non in un senso ovvio», continua. «È semplicemente così, completamente
spontaneo nella sua presenza. L’unica ragione per cui è qua è aiutarti.»,
ride, stupito, «a raggiungere la felicità. Ed è straordinario. In una
giornata incontra un centinaio di persone, ma nei pochi momenti che può
concederti, qualcosa accade. E senti immediatamente da parte sua
quell’impegno,
anche se si tratta di cose che non lo riguardano minimamente». Gere si
avvicina e ride. «Riesci a immaginarlo? Pensare sempre, sempre: “Come posso
aiutarti?” Sì: “Come posso aiutarti”?».
Negli ultimi tre anni, la Fondazione Gere ha comprato assicurazioni contro
le malattie per quasi mille monaci e monache indigenti negli insediamenti
tibetani del sud dell’India, nella speranza che questi uomini e donne siano
in grado di insegnare per altri venti o trenta anni. Ma il Dalai Lama ha
detto chiaramente a Gere che vuole che tutti i tibetani bisognosi in esilio
siano coperti. «Per cui vogliamo espandere alla popolazione laica», dice
Gere, «il modello che ha funzionato nei monasteri e nei conventi».
«Capisco che, per quanti film possa fare», continua, «non avrò abbastanza
soldi per pagare tutte queste cose. Quindi, la Fondazione Iniziative ha
davvero bisogno dell’aiuto e dell’esperienza degli altri, in modo da
espandersi in una visione molto più grande di quella che posso realizzare da
solo».
Un altro progetto ambizioso è il disinquinamento ambientale della città di
Dharamsala, nell’India del nord, residenza del Dalai Lama e sede del governo
tibetano in esilio. Migliaia di rifugiati tibetani e pellegrini
internazionali passano ogni anno attraverso la piccola stazione collinare, e
l’ambiente ne viene messo a dura prova. Non esiste una vera gestione dei
rifiuti solidi, l’acqua è chimicamente e microbiologicamente inquinata, il
suolo nelle foreste intorno a Dharamsala si sta erodendo.
Gere e i suoi compagni hanno fondato un’agenzia svizzera, la Sandec, che
l’anno
scorso è andata gratuitamente a Dharamsala, ha studiato le condizioni
ambientali e ha progettato un piano di intervento ambientale per il
Ministero Tibetano del Welfare. La prima fase è la programmazione dei
rifiuti solidi: alla comunità locale è stato spiegato come differenziare i
rifiuti solidi da quelli organici, i bambini delle scuole sono stati
reclutati per aiutare a pulire la città, sono stati acquistati camion per il
trasporto dei rifiuti ed è stato negoziato con l’amministrazione municipale
indiana un accordo per raccogliere i rifiuti dell’area.
La Fondazione Iniziative ha fornito i primi finanziamenti per il piano di
intervento e sta cercando dei partner per esportare il modello agli altri
insediamenti tibetani. Il Ministero del Welfare fornisce l’infrastruttura
operativa, mentre lo sviluppo generale del progetto è gestito dalla sorella
del Dalai Lama, Jetsun Pema, direttrice del Villaggio dei Bambini Tibetani.
Secondo Robyn Brentano, direttore della Fondazione Iniziative, il piano di
intervento ambientale è tra i più avanzati dal punto di vista dell’aiuto
internazionale. «Non si tratta solo di portare tecnologia e imporla alla
situazione locale», dice Brentano, «ma di vedere come sviluppare le risorse
locali». Se il Ministero Tibetano del Welfare può guadagnare qualcosa
raccogliendo i rifiuti solidi, c’è speranza che il programma sarà in grado
di sostenersi da solo, piuttosto che appoggiarsi indefinitamente su
istituzioni come la Fondazione Iniziative».
Mi chiedo a voce alta, durante la mia conversazione con Gere: «Pensavo che
la sofferenza fosse alleviata dalla comprensione del vuoto, del non-sé. Non
è che questo lavoro», gli chiedo, «si limita ad alleviare temporaneamente le
sofferenze di pochi esseri umani?».
Risponde: «Da un punto di vista pratico, se la gente è affamata, maltrattata
e torturata, se non esistono né pace né libertà, che possibilità ci sono di
cominciare a considerare la natura del sé, del vuoto, di una prospettiva?».
Mi guarda sorridendo e continua: «Vedi, alla fine siamo tutti al servizio
l’uno
dell’altro. Fino a quando non saremo tutti liberi dalla sofferenza, nessuno
di noi lo sarà. Giusto? Siamo tutti connessi».
Parlare del dharma con una stella cinematografica è qualcosa di così raro
che mi emoziono in modo quasi ridicolo. Ho voglia di saltare su e giù sulla
sedia e battere le mani. Per il mio lavoro ho parlato con parecchie
celebrità, ma nessuna ha mai fatto cenno all’origine interdipendente.
«Quindi, anche se desideriamo la nostra sicurezza», va avanti, «dobbiamo
aiutare tutti gli altri a raggiungere la felicità. Questo è un modo molto
egoista di considerare il dharma. Ma almeno è un modo intelligente. È
egoismo intelligente».
Una delle priorità di Gere è raccogliere, autenticare, catalogare
digitalmente e archiviare tutto il materiale esistente e futuro – discorsi,
conferenze, insegnamenti religiosi, fotografie e così via – sulla vita, gli
insegnamenti e le attività del Quattordicesimo Dalai Lama.
«Quando pensi al fatto che abbiamo davanti a noi un simile essere», dice
Gere, «e che esiste un’enorme quantità di materiale durante la sua vita,
proteggere quel materiale diventa un compito incredibilmente importante per
le generazioni future».
Una delle prime donazioni fatte da Gere a questa causa particolare fu
l’acquisto
di un nuovo microfono, anni fa, per il traduttore del Dalai Lama. «Aveva un
piccolo microfono», ricorda Gere, «con un cavo a modulazione di frequenza
incollato e rincollato con nastro adesivo un centinaio di volte. Gli chiesi:
“Quando hai preso questa roba?”, e lui rispose: “Non lo so, me l’ha donata
un tedesco circa dieci anni fa, ma si è rotta in continuazione”. Allora
dissi: “Posso offrirtene uno?” “Sì, per favore”. Gli comprammo una nuova
attrezzatura e tornò al lavoro. Senza tali traduzioni, migliaia di noi
sarebbero perduti. E bastò acquistare un trasmettitore a modulazione di
frequenza da duecento dollari».
I primi fondi della Fondazione Iniziative per l’Archivio Centrale di Sua
Santità il Dalai Lama serviranno per il controllo termico del luogo in cui
saranno temporaneamente tenuti gli archivi; inoltre, saranno usati per
pagare le attrezzature e lo staff.
«C’è qualcosa di simile a una camera blindata?» chiedo, e Gere ride. «No,
non c’è nulla. Probabilmente ci saranno solo delle scatole in qualche stanza
sul retro, chi lo sa? Non hanno alcun modo di conservare gli archivi in modo
appropriato».
La strada per l’Archivio Centrale è ancora lunga, ma alla fine Gere vuole
che tutto il lavoro del suo insegnante – di fatto, tutto il lavoro dei
grandi lama – sia disponibile gratuitamente in Internet, in modo che ognuno,
«incluso un nomade del Kham con una batteria solare e un computer
portatile», possa accedervi. Per ottenere questo, Gere vuole riunire gli
sforzi di tutti i buddisti del mondo che finora hanno operato separatamente,
spesso all’insaputa l’uno dell’altro. Aiutare la gente a lavorare insieme,
evitando i duplicati: la connessione è ciò che Gere sente di potere offrire
meglio.
«In questa stanza abbiamo fatto delle riunioni straordinarie», dice. «Gente
straordinaria. Connessioni». Gere schiocca le dita di nuovo, per cinque
volte: snap, snap, snap, snap, snap. «Sì, possiamo fare qualcosa. Molte
personalità che vogliono lavorare con gente concreta, poi.», batte forte le
mani una volta: «È fatta».
Una azienda con cui Gere è riuscito a entrare in contatto – forse non quella
che ti aspetteresti impegnata nella liberazione di tutti gli esseri
senzienti – è stata America Online. Nel 1999, quando Gere fu tra gli
organizzatori della visita del Dalai Lama a New York, AOL acconsentì a
mostrare per un attimo il volto di Sua Santità sul monitor di tutti i suoi
utenti, nell’istante in cui si collegavano al loro indirizzo di posta
elettronica. Ciò durò cinque giorni.
«Stavamo sponsorizzando l’evento», dice, «ma la cosa funzionò a un altro
livello, totalmente non-concettuale», qui Gere fa il suono di un razzo che
attraversa a tutta velocità lo spazio, phooosh! «Un essere illuminato. Che
tu lo sappia o no. Ti connetti e phooosh! Anche se volevi cancellarlo, è già
successo. Sei stato colpito da un essere illuminato».
Quell’evento, che secondo Gere avrebbe potuto attirare 15.000 persone, ne
richiamò 200.000. Nell’autunno del 2003 la Fondazione Iniziative, insieme al
Centro del Tibet e alla Fondazione Gere, organizzerà un’altra visita simile.
Questa volta il Dalai Lama terrà un insegnamento di quattro giorni su La
grande esposizione dei canoni di Jamyang Shayba e sulla Ghirlanda di gemme
del bodhisattva di Atisha. Ci sarà anche un discorso pubblico e gratuito al
Central Park, per accompagnare il quale Gere e il compositore Philip Glass
stanno organizzando un concerto di beneficenza a favore dei tibetani poveri
dell’India, del Tibet e del Nepal.
Un paio di anni fa girò la voce che Gere stesse per abbandonare la carriera
di attore e farsi monaco. Quando gli chiedo se ha mai preso in
considerazione l’ipotesi di abbandonare la recitazione e dedicarsi alla
pratica, ride sonoramente, quindi resta seduto in silenzio. «Sì, certo»,
dice alla fine. «Penso che tutti coloro che sono stati toccati da un
insegnante abbiano sentito.». Mi guarda, poi dice che quando “i tibetani”
udirono la voce che stava per farsi monaco, alcuni furono sconvolti e gli
dissero: «Per favore, non farlo. Abbiamo bisogno di te». Ride ancora. «Non è
vero che stessi per farmi monaco. Ma era chiaro che il ruolo che ho ancora
adesso era prezioso. E la verità è che la via per la libertà sta passando
attraverso questo».
Apre le mani verso la stanza in cui è seduto. «È molto facile per noi
ritirarci in una caverna o in una sua qualche versione moderna; da un certo
punto di vista, è facilissimo fuggire dalla tua mente. Quindi ho scoperto –
specialmente per una persona pigra come me – che interagire sempre con la
gente, quando affiora la rabbia», schiocca le dita, «l’impazienza», snap,
snap, snap, «tutto ciò per me è un ottimo modo di imparare, di vedere la mia
mente. Il mondo non ti permette di evitare granché. È uno specchio
costante».
«È brutto non avere responsabilità», dice Gere alla fine, «ma io mi sento
responsabile. Sprecare questa vita umana sarebbe una cosa terribile».
Dopo il nostro incontro, mi sta accompagnando all’ascensore. È un passo
dietro di me nel corridoio e cammina così silenziosamente che mi accorgo a
stento della sua presenza. Improvvisamente lo sento darmi una pacca tra le
scapole. Lo guardo, è leggermente accucciato come un vecchio monaco che
cammina dietro di me. Ride: «Il mio nome è Patricia», dice quasi con
incredulità, pensando al nostro primo incontro, «il mio nome è Patricia».
Mi metto la mano sulla spalla per interrompere le sue pacche, ma lui me ne
dà un’ultima, questa volta battendo sul mio palmo aperto, e mi lascia
ridendo, con un divertente, simpatico “cinque” all’indietro.
Per contattare la “Fondazione Iniziative”: 341 Lafayette Street, Suite 4416,
NY, NY 10012. www.gerefoundation.org
Cibo per il cuore
Incoraggiamento tramite il ricordo dell’impermanenza
Strofe da uno degli insegnamenti preferiti di Richard Gere, di Kyabje
Pabongka Rinpoche
Ah, il dolore!
Lama misericordioso, osserva quest’infelice
Come ho vissuto e come mi sono ingannato per tutta la vita.
Per favore, considera questo sciocco con compassione.
Il consiglio essenziale da dare a te stesso – il cibo per il cuore –
Tienilo nelle profondità del tuo cuore.
Non distrarti; non distrarti!
Rifletti sullo stato della tua vita dalla goccia essenziale del tuo cuore.
Nell’esistenza ciclica e senza inizio, che finora non ha conosciuto fine
Anche se hai sperimentato cicli infiniti di rinascite –
Nient’altro che innumerevoli variazioni di felicità e dolore –
Da esse non hai ottenuto il minimo beneficio.
E sebbene ora hai raggiunto quella ricchezza e quell’agio cosi difficili da
trovare,
Sempre, finora, essi sono finiti e sono andati perduti, rivelandosi vuoti e
senza significato.
Adesso, se ci tieni a te stesso,
È arrivato il tempo di praticare l’essenza della felicità futura: le azioni
virtuose.
Sembri molto bravo, intelligente, astuto, ma sei uno sciocco
Fino a quando ti aggrappi al gioco infantile delle apparenze di questa vita.
Improvvisamente sei sopraffatto dal terribile Signore della Morte
E, senza speranza né mezzi per resistere, non puoi fare nulla.
Questo è ciò che ti accadrà!
[.] Ora! Non distrarti!
Questo stesso istante è il tempo di fortificare la tua volontà.
Non solo è il tempo: è quasi troppo tardi.
Adesso! Adesso!
Applicati con grande forza!
Sacro precetto del lama, padre benevolo;
Cuore delle scritture autorevoli del Vittorioso Losang;
Pratica del puro sentiero del sutra e del tantra completi;
È tempo di porre l’esperienza autentica nel flusso della tua mente.
Chi è più veloce:
Yama, il Signore della Morte,
O te, quando nella pratica realizzi l’essenza del tuo sogno eterno –
Il benessere tuo e degli altri, ogni giorno il più possibile?
Unificando le tre porte del corpo, del linguaggio e della mente,
Metti ogni sforzo nella tua pratica.
Tradotto dal tibetano da Lama Thubten Zopa Rinpoche e Gelong Jampa Gendun.
Pubblicato negli Stati Uniti da “Wisdom Publication”.
Per praticare la generosità
Si dice: “La generosità è la virtù che produce la pace”. I sutra Pali
indicano che quando il Buddha si rivolgeva a un nuovo uditorio,
tradizionalmente cominciava con una discussione sulle virtù della dana, il
donare o la generosità. Nello hinayana, il Buddha insegna che si può vincere
il desiderio e raggiungere la liberazione attraverso la pratica della
generosità. Nel mahayana, la generosità è la prima delle sei paramita, o
perfezioni, sviluppate sul cammino del bodhisattva.
…
tratto da www.innernet.it
Lascia un commento