Riflessioni sulla gentilezza – Ajahn Candasiri

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RIFLESSIONI SULLA GENTILEZZA

dalla monaca Ajahn Candasiri

Ajahn Candasiri è una monaca buddhista da più di vent’anni.
Attualmente risiede nel monastero Amaravati in Inghilterra, dove
questo discorso è stato tenuto il 15-8-2000, e pubblicato in
inglese nella Forest Sangha Newsletter N°57

Una delle cose che mi interessa di più è l’esperienza del
benessere. Perciò stasera ho pensato di riflettere su uno dei
testi che recitiamo spesso nella nostra comunità. In Pali suona:
“Aham sukhito homi, niddhukkho homi, avero homi, abyapajjo homi,
anigho homi, sukhi attanam pariharami”. Ossia: “Che io possa
vivere nel benessere, libera da afflizione, libera da ostilità,
libera da malevolenza, libera da ansia, e che io sia capace di
custodire il mio benessere”.

Il termine “sukhito” viene in genere tradotto con “felice”,
“beato” – quindi un senso di beatitudine, di benedizione. Ecco
qualcosa su cui riflettere. Potremmo pensare che riguardi gli
angeli, i santi e certa gente speciale. Ma possiamo anche
chiederci in che senso noi siamo beati. E’ qualcosa che può
nascere dal modo in cui viviamo la nostra vita, al livello più
ordinario dell’esistenza umana?

Dalla pratica della generosità, ad esempio, che può esprimersi in
cose semplici come avere tempo gli uni per gli altri, ascoltarsi
veramente gli uni con gli altri. Non mi piace parlare con
qualcuno che mi dà l’impressione di non avere tempo per me.
Preferisco lasciar perdere. Al contrario, che sensazione
straordinaria provo quando sento che la persona si concede il
tempo per donarmi pienamente la sua attenzione. Magari solo per
due minuti, ma sentire che quella persona è veramente lì e in
contatto con me la trovo una cosa di grandissimo sostegno. E
immagino che quando riesco a farlo per gli altri anche per loro
può essere un’esperienza di sostegno. Credo che possiamo aiutarci
a vicenda a risolvere molti problemi con questo semplice gesto.
Credo che abbia una sua funzione terapeutica. E’ una forma di
generosità, che spesso tendiamo a sottovalutare.

Possiamo anche riflettere sulla bontà della nostra vita, sulla
virtù nella nostra vita. Ecco un’altra fonte di benedizione:
sila, come ci rapportiamo ai precetti morali, come li usiamo e li
mettiamo in pratica nella nostra vita. Questa è un’altra cosa da
cui può nascere un sentimento di benessere. Possiamo fare
attenzione a non recare danno ad alcunché – fosse pure una
zanzara o una lumaca o un ragno, che magari non ci è
particolarmente simpatico ma al contrario ci fa paura o ci
ripugna. Ma anche lui vuole vivere, vuole stare bene. A poco a
poco, vivendo con premura e responsabilità, nasce un sentimento
di contentezza, che è forse quel che si intende quando si parla
di sentirsi beati. E’ una sensazione di contentezza e di gioia
per la presenza di altri esseri, per il loro benessere, la loro
felicità. Quindi anche i primissimi passi in termini di
generosità, gentilezza, rispetto di una qualche forma di
principio etico, sono alla base di un sentimento di benedizione
che è possibile godere nella nostra vita.

Non siamo granché abituati a godere di cose come queste, perché
in genere tendiamo a pensare alla nostra indegnità, ai nostri
difetti e fallimenti piuttosto che al nostro valore personale. E’
come se avessimo paura di inorgoglirci o montarci la testa, se ci
mettiamo a pensare alla nostra bontà! Però io credo che se non lo
facciamo ci priviamo di qualcosa di molto importante e prezioso
per la nostra vita. E’ molto importante godere la vita.

Tendiamo a credere che godere di qualcosa sia egoista, permissivo
o improduttivo – ma io qui mi riferisco al godersi la vita in
senso sano. Quindi quando cantiamo “che io possa vivere nel
benessere – aham sukhito homi – che io possa sentirmi benedetta e
felice nella mia vita”, non è solo un pio desiderio. Si tratta di
creare i presupposti per la nascita di una sensazione di
felicità, e poi di concedersi di godere pienamente quella
sensazione di felicità, quella sensazione di benessere. E’ del
tutto legittimo godere i frutti della virtù e della generosità!

Quando usciamo per la questua del cibo a volte penso: “Che
diamine faccio? Che assurdità camminare per la strada e far
dipendere dagli altri se oggi mangio oppure no”. Ma dietro al
primo c’è un altro pensiero: “Sto dando alla gente l’occasione di
fare qualcosa che la rende felice: praticare la generosità,
mettere nella mia ciotola qualcosa che non solo nutrirà me ma
anche il loro cuore”. Come saprà chiunque abbia partecipato, noi
ci limitiamo ad attendere in posti dove i passanti sono liberi di
ignorarci e andarsene per la propria strada, come di fatto spesso
avviene. Ma quando qualcuno invece ci si avvicina per offrire
qualcosa c’è sempre una sensazione di felicità, magari la
piacevole eccitazione di un gesto un po’ fuori dall’ordinario.
Anche quando l’ho fatto in India, con i mendicanti che mi
mettevano cibo nella ciotola, era incredibile vedere quanta
felicità gli procurava dividere quel po’ di pane o biscotti che
avevano.

Poi abbiamo “niddukkho homi – che io sia libera dall’afflizione,
libera dalla sofferenza”. Magari pensiamo che significhi: “Mi
auguro di poter evitare la sofferenza. Non voglio soffrire, non
mi piace soffrire, che io possa vivere senza sofferenza, immune
dalla sofferenza”. E sarebbe una gran bella cosa, vero?, se
potessimo vivere senza sofferenza. Ma in realtà ci vuole una
buona dose di saggia riflessione per vivere in libertà dalla
sofferenza, e ci sono sofferenze che non possiamo evitare
comunque. Non possiamo evitare la sofferenza della vecchiaia,
della malattia e della morte, la morte delle persone care. Poi
c’è il dolore e il disagio fisico. C’è però un tipo di sofferenza
che possiamo evitare, ma richiede una certa pratica. Richiede
saggia riflessione, richiede sforzo e discernimento. E’ la
sofferenza che deriva dal volere che le cose siano altrimenti da
come sono. Possiamo soffrire per il fatto di voler assumere una
certa posizione, essere qualcosa in relazione a un’altra persona;
o perché vogliamo fare a modo nostro o vogliamo che gli altri ci
diano ragione; perché vogliamo riuscire o non vogliamo fallire, o
non vogliamo essere delusi o feriti. Un elenco interminabile,
vero? Ma il rimedio è molto semplice, una volta capito di che si
tratta: imparare a lasciar andare il desiderio.

E’ una pratica che dura tutta la vita, non succede per caso. Ma
possiamo imparare a vedere le cose in accordo con il Dhamma,
piuttosto che in accordo con le nostre idee e i nostri
condizionamenti, i nostri desideri, speranze e bisogni. Possiamo
imparare a vedere le cose in accordo con la realtà, in modo da
smettere di concentrare le nostre speranze, le nostre
aspirazioni, su cose che non sono in grado di soddisfarci, non
sono in grado di guarirci o donarci una pace o felicità durature.
Perciò “niddhukkho homi”, libertà dall’afflizione, è qualcosa di
realizzabi-le, che però così come ogni altra cosa richiede
sforzo, richiede riflessione e intelligenza.

E ancora, come ci liberiamo da ostilità e malevolenza? “Avero
homi, abyapajjho homi”: malanimo, vendicatività, risentimento,
amarezza, odio – tutte cose che ci rendono infelici? A volte
neanche ci accorgiamo di quanto ci fanno soffrire. Può succedere
di passare ore a provare risentimento perché qualcuno ci ha
mancato di rispetto, ci ha trascurato o ferito. E non solo ore, a
volte va avanti per giorni, settimane, mesi, anni! A volte quel
mugugno sembra darci una qualche forma di gratificazione, di
giustificazione, la sensazione di essere dalla parte della
ragione mentre l’altro, o la situazione, sono dalla parte del
torto. Ma è vera felicità questa? E’ vero benessere? Se guardo
dentro di me mi accorgo che no, non lo è. Non è quello che
voglio. Non è così che voglio vivere la mia vita.

E’ un punto molto importante. A volte non siamo nemmeno coscienti
delle nostre abitudini mentali. In particolare, ho scoperto
quanto posso essere cieca rispetto al modo in cui tratto me
stessa: l’atteggiamento critico, giudicante, malevolo che assumo
a volte nei confronti di questo essere qui. Ho notato una
tendenza a giudicarmi e sminuirmi quando sbaglio in qualcosa. E’
come avere un pappagallo un po’ maligno appollaiato sulla spalla
che bisbiglia: “Non vali niente. Potevi fare meglio. Perché ti
sei comportata così? Perché hai detto colà? Lei è molto meglio di
te, dovresti essere come lei; ma non ci riusciresti, sei
irrecuperabile”. Probabilmente ciascuno di voi ha una vocina un
po’ diversa, che magari parla tedesco, francese, giapponese o
cinese. La lingua cambia, ma il messaggio è lo stesso. E in ogni
caso mina alla radice la possibilità di sentirsi bene, di
sentirsi benedetti o felici.

Ricordo una volta, quando ero in ritiro a Chithurst e
attraversavo la solita fase del “non vali niente; dovresti essere
capace di meditare meglio; non combinerai mai niente di buono;
tanti anni di pratica e ancora non ti sai concentrare, non fai
che pensare a tutt’altro; sei una pigra!” – e via così. Ricordo
che semplicemente guardavo questo senso di vaga desolazione. Era
quasi ora di pranzo. Me ne stavo in piedi accanto alla porta di
servizio, con questo senso di vaga desolazione, quando mi venne
in mente uno degli appellativi del Buddha: “bhagava”, “il beato”.
E cominciai a riflettere su cosa significhi essere beati – una
sensazione di pienezza, di felicità. E mi dicevo: “Be’, non ti
senti granché piena e felice, vero?”. Vidi che questa sensazione
un po’ patetica di vuoto e desolazione era proprio l’opposto del
sentirsi beati. Cominciai a vedere cosa stavo facendo a me
stessa. Non c’era nessun altro a farmelo, proveniva tutto dalla
mia mente, e mi resi conto che succedeva in moltissime altre
occasioni.

A quel punto capii che potevo scegliere. Potevo effettivamente
scegliere se continuare a vivere con questa vaga desolazione o
generare deliberatamente una sensazione di benessere che fosse
libera da negatività di questo tipo. Pensai: “Eppure con gli
altri non mi comporto così. Se vengono a dirmi che la meditazione
va male o che si sentono indegni, io non rispondo “be’, sì, in
effetti non vali granché”; di solito rispondo: “E’ normale, non
ti preoccupare. Continua a praticare. Rifletti sulla bontà della
tua vita e renditi conto che in realtà stai andando benissimo,
guarda come vive la maggior parte della gente”. Agli altri mi
rivolgo con un tono positivo e incoraggiante. Mi resi conto che
potevo fare lo stesso nei miei confronti, invece di essere tanto
cattiva, critica e maligna. Dunque possiamo imparare a trattarci
in maniera più affettuosa e positiva. Invece di aspettare che
venga qualcun altro a farci coraggio, possiamo darcelo da soli.

Dobbiamo anche stare molto attenti al malanimo che nutriamo nei
confronti degli altri, specialmente quando abbiamo ragione!
Mettiamo che qualcuno faccia molto danno e viva in maniera
davvero poco costruttiva. In questo caso, quale sarebbe una
reazione costruttiva?

Ricordo anni fa, nel periodo della Guerra del Golfo, Luang Por
[Sumedho] ascoltava il notiziario e ci teneva aggiornati sugli
sviluppi della guerra. Ci parlava di Saddam Hussein, che ai
nostri occhi ricopriva senz’altro il ruolo del cattivo. Notai
dentro di me la tendenza a provare molta collera e legittimo
sdegno, fino a nutrire sentimenti aggressivi anche molto intensi
nei confronti di questo essere umano che sembrava arrecare tanto
danno agli altri. Poi, riflettendo su quello che provavo, mi
dissi: “Allora, la vendetta ti pare la risposta più costruttiva?
“. C’era la sensazione di volerlo punire in qualche modo per il
male che faceva. Avrei voluto che fosse trattato come meritava:
“Meriterebbe di fare una fine orrenda, ed è compito mio
assicurare che giustizia sia fatta!”. Era un sentimento veramente
intenso. Lo avevo provato anche nei confronti di altri: la
sensazione che fosse mio dovere punirli e fare giustizia. Quindi
può assumere forme estreme, del tutto palesi, ma può anche
esprimersi in modo più sfumato. L’ho notato anche in relazione a
piccoli fatti che succedono al monastero: qualcuno che sparisce
regolarmente quando è di turno a fare i piatti, o non viene alla
puja [pratica devozionale quotidiana], o non fa le cose come si
deve; in questi casi posso provare lo stesso tipo di
indignazione, la voglia di rimetterli in riga.

C’è una storia che racconto spesso. Un giorno di molti anni fa a
Chithurst, quando ero ancora un’anagarika, mi trovavo in cucina a
preparare il tè. Era inverno, e all’epoca la cucina di Chithurst
era un bell’ambientino perché ci faceva caldo, mentre il resto
della casa era freddo e umido. Ajahn Anando, che in quegli anni
era il monaco priore, entrò in cucina: doveva essergli capitato
per le mani un tipo difficile. Mi guardò sospirando e disse:
“Grazie a dio non spetta a me raddrizzare il karma della gente!”.
In seguito ci ho riflettuto parecchio: questa sensazione di dover
correggere gli altri e fare in modo che paghino il giusto scotto.
Ma in realtà nessuno ci obbliga, non sta a noi punire, condannare
o vendicarci – niente di tutto questo. Non siamo tenuti a farlo,
possiamo lasciar andare. Che bel sollievo. Ci penserà la legge
del karma; nessuno può sfuggire alle proprie responsabilità.

Perciò, la buona notizia è che non sta a noi sistemare le cose.
Il nostro compito è nutrire un sentimento di benessere e di agio.
Il nostro compito è liberare il cuore dalla sofferenza. Il nostro
compito è realizzare la completa liberazione. Ecco il nostro
compito. Non certo soffrire le pene dell’inferno per le malefatte
di qualcuno: nessuno ci obbliga. Possiamo scegliere. Non siamo
tenuti a permanere in uno stato d’animo di risentimento, amarezza
o crudeltà. Il Buddha ne parla nel Dhammapada, dicendo che l’odio
non si estingue con l’odio. Se continuate a pensare a qualcuno
che vi ha fatto del male – che vi ha ferito, derubato, percosso o
che so io – o che ce l’ha con voi, non troverete mai la felicità.
Il risultato di questo modo di pensare non sarà una sensazione di
felicità e di benessere. Grazie alla consapevolezza, ci
accorgiamo che si può scegliere. Non siamo obbligati a restare in
questi stati. Possiamo lasciarli andare.

Ma a volte non è facile, vero? Pensieri del genere possono darci
molto fastidio e diventare un’ossessione. E’ in questi casi che
occorre tirar fuori la nostra cassetta degli attrezzi. Mi piace
vedere gli insegnamenti del Buddha come un corredo di attrezzi
per lavorare su problemi specifici. Ce n’è uno ottimo per
affrontare i pensieri ossessivi di vario genere. Ma prima di
tutto dobbiamo riconoscere che si tratta di pensieri
improduttivi, non vi pare? E questo, di per sé, è un primo passo
molto importante.

A volte si resta sgomenti, quando si inizia a prendere coscienza
di queste cose: “Prima di cominciare a meditare credevo di essere
una brava persona, e ora vedo tutti questi brutti pensieri e
tutte queste cattive abitudini”, verrebbe da dire. Ma non si può
curare una malattia se prima non si riconosce di averla. Perciò,
quando vengono da me con storie della serie “non mi rendevo conto
di essere messo così male”, in genere rispondo: “Be’, è una gran
fortuna renderti conto di quanto sei messo male! Almeno ora puoi
cominciare a fare qualcosa al riguardo. E’ una gran bella fortuna
che finalmente tutta questa roba comincia a uscire allo scoperto:
la polvere, le ragnatele, la robaccia maleodorante”. Perciò, il
primo passo è prenderne coscienza, senza cadere in ulteriore
avversione, disperazione e infelicità. Assumere un atteggiamento
positivo: “Ah, benissimo, ora vediamo che si può fare in
proposito”.

In primo luogo, è importante rendersi conto che non siamo tenuti
a pensare certi pensieri. Non siamo tenuti a portarci appresso
certe cose. Possiamo metterle da parte. Ecco uno dei mezzi abili:
rendersi conto di poter scegliere.

Quando nasce quel certo pensiero, possiamo portare la nostra
attenzione altrove. Si potrebbe obiettare: ma non è una forma di
rimozione? Io non direi: ne abbiamo preso atto, lo abbiamo
riconosciuto, e ci siamo resi conto che ci fa male. A questo
punto possiamo permettergli di cessare, possiamo lasciarlo
andare, rivolgendo la nostra attenzione al silenzio, oppure al
corpo. Sentire pienamente il respiro, il corpo che respira. E’
una cosa fattibile, non vi pare? Anche se ci riusciamo solo per
un attimo – prima che quel pensiero malevolo, negativo, si
ripresenti – quell’attimo è un colpo inferto al potere assoluto
del pensiero ossessivo, un’incrinatura nel castello di
argomentazioni aggressive e vendicative che ci frullano in testa.
Dunque possiamo darci un attimo di tregua per goderci il respiro,
per sentire il corpo, invece di lasciare mano libera
all’ossessione e consentirle di occupare ogni centimetro del
nostro spazio mentale.

Un’altra cosa che possiamo fare è notare lo spazio che circonda
i pensieri, o lo spazio fra un pensiero e l’altro; oppure
sostituire un pensiero malevolo con un pensiero gentile – cercare
ad esempio di vedere le cose dal punto di vista dell’altra
persona. Possiamo sintonizzarci sul fatto che quella persona
soffre. Nel caso di Saddam Hussein, pensavo: “E’ un essere umano.
Vuole essere felice, eppure dov-rà pagare di certo un prezzo
orribile per la crudeltà che scarica sugli altri”. Basta vedere
questo, che non vuole soffrire eppure soffrirà: è un modo diretto
per evocare un sentimento di compassione. Non stiamo
giustificando la crudeltà, gli aspetti non salutari della sua
vita. Stiamo sostituendo i nostri pensieri vendicativi, malevoli,
aggressivi – che minano il nostro benessere – con qualcosa di più
sano.

Quando recitiamo la “condivisione dei meriti” – delle cose buone
della nostra vita – includiamo “i virtuosi governanti del mondo”.
Un’osservazione che sento fare spesso è che i governanti del
mondo non sembrano particolarmente virtuosi, per lo più, molti
vogliono solo il potere e commettono crimini orrendi. Ma quello
che mi interessa è aiutarli a essere più saggi, più felici. So
per esperienza che se non sono felice non ho molta saggezza,
molta consapevolezza. Quando sono sotto l’effetto della tensione
o della paura, la consapevolezza diminuisce e sono incline a
commettere errori, tendo a essere malevola, intollerante,
egocentrica, spaventata. Gli stati costruttivi vengono dal
benessere. Quando mi trattano con gentilezza, quando tratto me
stessa con gentilezza, per naturale conseguenza sono più gentile
con gli altri, più sensibile agli altri e ai loro bisogni. Perciò
sono molto contenta di condividere le cose buone della mia vita
con i dittatori e con gente folle ed egoista, perché capisco che
hanno bisogno di tutto il bene che riescono a racimolare!

Poi viene “anigho homi”: libertà dall’ansia. Anche la
preoccupazione distrugge il nostro benessere. Negli ultimi due
giorni ho avuto motivo di sentirmi ansiosa, dato che mio padre,
che ha ottantasei anni, doveva sottoporsi a un intervento
chirurgico sotto anestesia generale. Quindi era comprensibile
pensare a lui in ospedale con ansia e apprensione: “Ha già una
certa età, sopravviverà all’interven-to?”. Ma sapevo che l’ansia
non aiuta: certamente non aiutava me, e sentivo che in effetti
non aiutava nemmeno lui. Ho trovato molto interessante
distinguere fra sollecitudine e apprensione. L’apprensione io la
vedo come qualcosa di malsano, è una specie di ossessione:
“oddio, oddio, oddio!”. E ho notato che, nei momenti in cui non
ero consapevole, la mente scivolava con tutta naturalezza
nell’appren-sione, immaginando lo scenario peggiore. Laddove
invece la sollecitudine diceva: “Sì, sono preoccupata, c’è motivo
di essere preoccupati; ma qual è la risposta più costruttiva in
questa situazione?”.

Perciò decisi che ogni volta che la mente si fosse fatta
prendere dall’agitazione – immaginando lo scenario peggiore –
sarei ricorsa al potere dell’immaginazione per evocarne uno
diverso. Ieri sera ho parlato al telefono con mio fratello:
nostro padre era ancora in sala operatoria, l’intervento era
cominciato da un bel po’ e stava andando oltre i tempi previsti e
nostra madre dava segni di agitazione. A quel punto, invece di
agitarmi anch’io, mi sono messa a pensare deliberatamente: “In
effetti è un’operazione molto delicata, probabilmente ci vuole
solo un po’ più del previsto, in realtà il suo organismo sta
rispondendo molto bene. Sì, se la sta cavando a meraviglia”. E
andando avanti e indietro sul sentiero per la camminata, mi
ripetevo: “Se la sta cavando a meraviglia, guarirà”, piuttosto
che pensare: “Ecco, magari è morto e lo staranno dicendo a mia
madre…”. Era facile scivolare nella seconda ipotesi, ma ogni
volta che succedeva mi ripetevo: “Certamente guarirà, se la sta
cavando a meraviglia…”.

Quanto tempo passiamo nella vita a preoccuparci e angosciarci
per cose che non sono mai successe e forse non succederanno mai?
Ci rendiamo davvero conto di quanto limitiamo il nostro benessere
facendo questo? Possiamo cominciare ad adottare abili mezzi di
qualche tipo, come antidoto all’agitazione e all’apprensio-ne?
Per cui, se la vostra mente comincia a dipingere il peggiore
degli scenari, immaginatene uno straordinariamente positivo, il
migliore che sia possibile. Questo ci fa sentire meglio, no?,
piuttosto che deprimerci. Ci ho provato ieri, e ha funzionato
benissimo. Di fatto, mio padre si sta riprendendo bene.

Questi sono alcuni modi di riflettere sul benessere: “Che io sia
capace di custodire il mio benessere”. Perciò, non è solo una
bella idea recitare queste frasi. Sono riflessioni che hanno una
certa sostanza, che hanno molto da dirci in termini di una
pratica personale da portare avanti attimo per attimo. Non
significa che saremo in grado di evitare ogni tipo di sofferenza
e di difficoltà: essendo nati in questa dimensione umana dobbiamo
fare esperienza di ogni sorta di cose – dolore, malattia,
tristezza, le incontreremo tutte prima o poi. La sofferenza a cui
mi riferisco è quella a cui possiamo porre rimedio, la sofferenza
inutile: imparare a riconoscerla e a sostituirla con qualcosa di
più luminoso e positivo. Allora le nostre vite saranno una
benedizione, non solo per noi stessi ma anche per gli altri.

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