Risultati pratici della Meditazione Vipassana

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Risultati pratici della Meditazione Vipassana

del Venerabile Rewata Dhamma

I nostri atti mentali, verbali e fisici hanno origine nella mente. Ogni
volta che avviene un contatto fra gli organi di senso e gli oggetti
esterni – come le forme visibili, gli odori, i suoni, i sapori e le
sensazioni tattili – all’interno del corpo nasce una sensazione, da cui si
originano reazioni che sono causa di nuove azioni. Perciò, se si riesce a
controllare la mente, si riesce a controllare anche l’azione, quindi il
karma.

Il Buddha disse che i nostri corpi sono composti di trilioni e trilioni di
minuscole particelle, piú piccole degli atomi, che si rinnovano
continuamente. Queste particelle sorgono e svaniscono milioni di volte ad
ogni istante; nello stesso modo anche i nostri pensieri sorgono e svaniscono
trilioni di volte a ogni secondo. Anche gli scienziati concordano sul fatto
che il corpo umano, in condizioni normali, si rinnova continuamente. Quando
queste particelle (o kalâpa, come le chiamò il Buddha) entrano in collisione
fra loro, nasce la sensazione. Noi la chiamiamo sensazione reale o sottile.
Durante la pratica della meditazione vipâssanâ, se la concentrazione è
abbastanza buona, siamo in grado di osservare queste minuscole particelle
nascere e svanire, e cosí possiamo controllare la mente prima
dell’effettuarsi
d’ogni azione.

Perciò il Dhammapada (v. 103) dice:

«Non chi vince mille volte mille uomini in battaglia, ma colui che conquista
la propria mente è un vero vincitore».

Per questo motivo la prontezza dell’attenzione è il piú importante oggetto
di meditazione nel buddismo theravâda. La meditazione buddista theravâda si
divide in due branche principali: samâtha, o concentrazione, e vipâssanâ, o
purificazione. Lo scopo del samâtha (o samâdhi) è quello di farci assorbire
completamente nella meditazione. Lo scopo della vipâssanâ è di farci capire
la vera natura della mente e della materia. Il samâtha è sempre stato
diffusamente praticato dagli asceti in India, prima e dopo il Buddha. Il
Buddha stesso lo praticò prima del risveglio, e conseguí grazie ad esso
tutti e quattro gli stadi della concentrazione fino al piú profondo, ma si
avvide che lo stato di tranquillità che otteneva in questo modo non era
duraturo.

Il Buddha, infatti, cercava un modo per porre termine alla sofferenza una
volta per tutte. Infine scoprí questa via incominciando ad osservare in se
stesso la natura della mente e della materia e con questo sistema riuscí a
conseguire la verità ultima: lo stato di nirvâna. La meditazione samâtha va
bene solo per eliminare le impurità piú grosse. Con la vipâssanâ, invece,
possiamo sradicare le impurità piú sottili, o sankhâra, create dalle nostre
azioni passate o presenti.

La parola sankhâra ha molti significati, ma in questo contesto possiamo
tradurla con «condizionamenti mentali». Il Buddha insegnò a comprendere la
vera natura delle cose tramite l’osservazione dei cinque componenti che
formano la mente e il corpo. Cosí facendo, ci mettiamo in condizione di
percepire le tre qualità di tutta l’esistenza condizionata, e cioè:

1) anicca, o impermanenza;

2) dukkha, o insoddisfacenza; e

3) anattâ, o insostanzialità.

I cinque componenti sono: forma o materia, sensazione o emozione,
percezione, formazioni mentali e coscienza. Questi cinque componenti tutti
insieme costituiscono ciò che noi chiamiamo un essere vivente, la cui
qualità è l’impermanenza e che, a causa di quest’impermanenza, sperimenta
sofferenza. Non c’è alcun’altra essenza, o qualità, che sperimenti questa
sofferenza oltre questi cinque componenti che chiamiamo «io».

Secondo la filosofia buddista, perciò, c’è la sofferenza, ma non c’è nessun
sofferente, cosí come ci sono gli atti, ma non l’autore. In breve, possiamo
dire che i cinque componenti sono la mente e la materia (nâma e rûpa), e che
lo scopo della meditazione vipâssanâ è di capire la vera natura di questa
mente-e-materia: per questa ragione i quattro oggetti della pratica sono
rispettivamente: corpo, sensazioni, coscienza e pensieri. Quando
s’incomincia
a praticare la meditazione per la prima volta non è necessario osservare
subito questi quattro oggetti contemporaneamente. Ma praticando con
regolarità l’osservazione d’uno degli oggetti, si arriva presto a
comprendere anche gli altri tre.

Dal momento che il corpo e le sue sensazioni sono piú facili da osservare,
la maggior parte dei maestri preferisce partire da questi. Solitamente
s’incomincia
contemporaneamente con la concentrazione sul respiro e sulle sensazioni del
corpo, anche se, tradizionalmente, la concentrazione sul respiro è
considerata il primo oggetto della meditazione samâtha. Essa può tuttavia
essere usata per lo sviluppo dell’insight. Per la pratica della meditazione
vipâssanâ non è necessario raggiungere gli stadi piú profondi di
concentrazione, ma per capire la vera natura del pensiero e della materia
bisogna, per prima cosa, conseguire uno stadio che chiameremo concentrazione
d’accesso (upacâra samâdhi), perché solo una mente concentrata può osservare
la realtà e sperimentarla.

Osservando regolarmente il respiro, il meditante giunge a comprendere la
natura dei processi fisici e mentali. Se poi presta attenzione alle
sensazioni del corpo, arriva a comprendere non solo la natura della mente e
della materia, ma anche la natura dei quattro elementi che costituiscono il
corpo: gli elementi di Terra (l’intera gamma del peso, dalla leggerezza alla
pesantezza), gli elementi d’Acqua (gli elementi della coesione, dei legami),
gli elementi di Fuoco (l’intera gamma della temperatura, dal caldo fino al
freddo) e gli elementi d’Aria (l’intera gamma del movimento). Anche la
natura di questi elementi è impermanente. Comprendere la natura delle cose
significa comprendere che sono tutte impermanenti (anicca), insoddisfacenti
(dukkha) e prive di essenza (anattâ).

Tramite questa comprensione si giunge a comprendere la verità ultima o
nirvâna. Questo è lo scopo principale della meditazione buddista theravâda.
Allo stesso modo, se facciamo delle nostre sensazioni e formazioni mentali
un oggetto di meditazione, possiamo raggiungere la medesima comprensione. La
meditazione vipâssanâ è un metodo che se propriamente applicato comprende
tutto il Nobile Ottuplice Sentiero insegnato dal Buddha. Il sentiero ha tre
aspetti: moralità (sila), concentrazione (samâdhi) e saggezza, introspezione
o purificazione (pañña). Molte persone, in passato e nell’epoca presente,
hanno tratto beneficio dal Nobile Ottuplice Sentiero, che è ugualmente
benefico per monaci e laici, giovani e vecchi, uomini e donne…, per tutti
gli esseri umani appartenenti a qualunque casta, classe e comunità, paese,
professione, religione o gruppo linguistico.

Nel sentiero non c’è nessuna meschina restrizione settaria. Esso è adatto a
tutti gli esseri umani di tutti i tempi, di tutti i luoghi. È universale
come tutte le sofferenze della vita: la nascita, la vecchiaia, la malattia,
la morte, il trovarsi con persone e situazioni sgradevoli, la separazione da
persone e situazioni gradevoli, non avere ciò che si desidera, affanni,
angustie, lamenti. Tutte queste forme di disagio fisico e mentale sono
universalmente percepite come sofferenza o dolore. Quando si applica la
tecnica della vipâssanâ all’avidità, all’ira, alla paura, alla gola,
all’infatuazione,
alla gelosia, all’inimicizia, all’odio, all’egoismo e alle altre emozioni e
passioni, si acquisisce la capacità di annullare tranquillamente tutte
queste cose.

Alla base della meditazione buddista c’è l’osservanza dei cinque precetti
(pañcasîla), e cioè: astinenza dall’uccisione, dal furto e dalla menzogna,
da una sessualità disordinata e da sostanze inebrianti. Non importa se si
siano o no osservati questi precetti prima di incominciare la pratica.
L’importante
è che, nal momento in cui si comincia, si cominci anche ad osservare i
precetti. Essi sono necessari, perché queste cinque azioni distruttive e
autodistruttive sono il frutto dei nostri errori mentali nonché la causa
profonda dei mali dai quali cerchiamo di liberarci.

Al giorno d’oggi si soffre sempre piú per certi mali, come la tensione
nervosa, l’affaticamento, l’emicrania, l’eccessiva pressione sanguigna… o
come infelicità, perenne insoddisfazione, instabilità mentale. c’è perciò
bisogno di raccogliere le forze spirituali. C’è bisogno di una tecnica che
aiuti ad affrontare la vita con serenità, e che possa essere utilizzabile
subito, nelle varie condizioni in cui ci si viene a trovare di giorno in
giorno.

Con la pratica della meditazione vipassana, non solo ci si libera di questi
inconvenienti nervosi, ma si sperimenta anche un certo grado di vera
felicità in questa stessa vita. Dunque, come si pratica la meditazione? Si
incomincia osservando i cinque precetti e praticando la concentrazione della
mente. Come oggetto per la concentrazione si prende il respiro, rivolgendo
l’attenzione
alle narici e a ogni passaggio dell’aria in ingresso o in uscita.

È necessario, in questa fase, capire la differenza che passa fra questo
esercizio e la pratica del pranayama nello yoga indú. Nel pranayama il
respiro è controllato, regolato, mentre in questa pratica dell’ânâpâna
buddista si osserva il respiro naturale, cosí com’è. Il termine ânâpâna,
infatti, significa consapevolezza del respiro che viene e che va. Inoltre,
nella pratica indú dello yoga si attribuisce molta importanza al modo in cui
ci siede, mentre per la pratica dell’ânâpâna buddista qualsiasi posizione,
purché non troppo comoda né troppo scomoda, va bene. Quando si concentra con
continuità l’attenzione sul respiro all’ingresso delle narici, la coscienza
diviene gradualmente sempre piú acuta e consistente.

Se, mentre si sperimenta la sensazione tattile del fiato nelle narici e nel
naso, appare qualche altra sensazione nel naso o nelle sue prossimità, si
concentra l’attenzione anche su di quella. Sono molti i tipi di sensazioni
che possono insorgere, come, per esempio, dolore, pizzicore, formicolio,
pulsazioni o fremiti, calore, tepore, freddo e cosí via. Qualunque sia la
sensazione che si sperimenta, va esaminata. Alcune possono essere
semplicemente frutto d’autosuggestione o d’immaginazione, ma il maestro sarà
d’aiuto nel distinguere la realtà dall’immaginazione.

Dopo questa fase, s’incomincia a osservare le sensazioni lungo tutto il
corpo, dalla testa ai piedi e dai piedi alla testa. Questo è ciò che è
chiamato vipâssanâ, che in realtà significa osservare le cose in modo
corretto, nella giusta prospettiva, per vedere le cose come realmente sono e
non solo come sembrano. La vipâssanâ insegna ad essere osservatori
distaccati delle sensazioni fisiche e delle emozioni mentali. Il meditante
impara ad accettare tutte le sensazioni, piacevoli e spiacevoli, senza
alcuna reazione, cioè con serenità, o equilibrio o intelligenza. In questo
modo, la vipâssanâ è una tecnica efficacissima e, nello stesso tempo, assai
semplice, per liberarsi dalla fatica mentale e dalle frustrazioni che sono
cosí comuni al giorno d’oggi.

Come risultato della continua pratica, il meditante impara ad aver coscienza
delle sensazioni in modo completamente distaccato, senza desiderio o
avversione, e continuando nell’osservazione distaccata, a notare come le
sensazioni vadano e vengano. Incomincerà a rendersi conto che tutte le
sensazioni, piacevoli o spiacevoli, sono impermanenti e caduche. Il
desiderio si fa meno forte e allora si può vedere che le sensazioni
spiacevoli sono effettivamente spiacevoli, mentre quelle avvertite come
piacevoli diventano anch’esse motivo di sofferenza quando scompaiono, a
causa dell’attaccamento che si nutre per loro. Il desiderio diminuisce
ulteriormente mentre si penetra piú profondamente nella realtà del corpo e
si scopre che ogni cosa dentro di esso è in uno stato di flusso continuo;
che non c’è nulla nel corpo o nella mente che possa essere chiamato «io» o
«mio» e che il mondo del corpo e della mente è falso, illusorio e privo
d’essenza.

Comprendendo questo, il meditante sviluppa automaticamente un atteggiamento
di distacco. In questo modo, basandosi sull’esperienza delle sensazioni, si
arriva a comprendere che il desiderio è la causa prima d’ogni sofferenza.
Per sradicare questo desiderio, bisognerebbe praticare regolarmente la
vipâssanâ. L’obiettivo principale della vipâssanâ è la comprensione della
verità ultima, il nirvâna, ma se la vipâssanâ diventa uno stile di vita, si
riesce a raggiungere un piú alto grado di felicità e pace mentale anche qui,
in questa vita. A mano a mano che si sradicano le impurità, si consente alla
purezza di mettâ, karunâ, muditâ ed upekkhâ di svilupparsi.

Mettâ significa amore, amore puro, benevolenza, amore universale, infinito o
senza limiti. Ci sono vari tipi d’amore fra gli esseri umani. C’è l’amore
dei genitori per i figli, quello del marito per la moglie, quello della
moglie per il marito, l’amore fraterno, l’amore fra uomo e donna, quello fra
parenti ed amici. Ma nessuna di queste forme è mettâ, amore puro. Esse sono
tutte radicate nella brama (lobha), nel desiderio (upâdâna) e nell’
ignoranza (moha).

Karunâ significa compassione, pura compassione, infinita o compassione senza
limiti. Esistono molti tipi di compassione. Se il nostro prossimo o i nostri
cari soffrono, in noi nasce la compassione: incominciamo a condividere la
loro miseria e il loro dolore a causa dell’affetto che nutriamo per loro. Ma
se a soffrire è qualcun altro, per il quale non abbiamo attaccamento, allora
non sentiamo compassione, non sentiamo la sua miseria come nostra. Questa
non è karunâ, infinita compassione. Similmente, se le persone a noi care
sono felici e fortunate, ci sentiamo felici per loro a causa del nostro
affetto. Anche questa non è muditâ, gioia compartecipe, perché è radicata
nell’ignoranza.

Muditâ significa pura gioia compartecipe, infinita gioia compartecipe, per
tutti gli esseri, conosciuti e sconosciuti, senza alcuna discriminazione.

Upekkhâ significa equanimità. È un perfetto, incontrollabile equilibrio
della mente, saldamente basato sull’insight. Nella misura in cui ci si
riesce a liberare dall’attaccamento se stessi (l’«io» e il «mio») tanto piú
ci si ritrova colmi d’equanimità. L’equanimità è il piú importante dei
quattro stati sublimi (mettâ, karunâ, muditâ e upekkhâ). Ma ciò non
significa che la serenità sia superiore all’amore, alla compassione e alla
gioia compartecipe: l’uno comprende gli altri e viceversa. Finché
nell’intimo
saremo impuri o contaminati, non potremo dare questo amore puro agli altri
esseri. Questo amore si trova oscurato o bloccato dalle nostre impurità. Ma,
una volta che si è incominciato a purificarsi con la meditazione vipâssanâ,
nella misura in cui l’impurità sarà stata rimossa, si sarà proporzionalmente
capaci di mettâ verso gli altri.

Signore e Signori, grazie infinite per avermi ascoltato con tanta pazienza e
attenzione. Spero che ora abbiate la possibilità di praticare la meditazione
vipâssanâ per il vostro bene, e possa la vera felicità essere con tutti voi.

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– Corsi di meditazione vipassana nella tradizione di Sayagyi U Ba Khin –

All’International Meditation Centre di Heddington (Inghilterra), si tengono
regolarmente corsi di meditazione vipassana, guidati personalmente dalla
maestra birmana Madre Sayamagyi, principale discepola e continuatrice
dell’opera
di Sayagyi U Ba Khin.

I corsi, residenziali, hanno la durata di dieci giorni. Nulla è dovuto per
l’insegnamento,
che viene impartito gratuitamente, tuttavia un modesto contributo (£200,
pari a circa ?290) è richiesto per coprire le spese di vitto e alloggio di
tutto il periodo del corso. La spesa totale complessiva per la
partecipazione al corso, pertanto, dipende in gran parte dal costo del
viaggio A/R.

Per informazioni sui corsi, weekend e meditazioni di gruppo in Italia
rivolgersi a Renzo Fedele, via Euganea, 94 – 35033 Bresseo PD – Italy – Tel:
(+39) 049.99.00.752 – web: www.ubakhin.it – e-mail: Renzo Fedele

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