SAI BABA – L’Uomo dei miracoli
Tratto da: Howard Murphet
SAI BABA – L’Uomo dei miracoli
[…]
Nel 1966 la celebrazione di Maha-siváratri, più comunemente
nota come Siváratri, cadeva il 18 febbraio. Tornando dalla
colazione, quella mattina dovetti stare attento a dove mettevo i
piedi per non calpestare i visitatori sparsi ovunque. Tutti i locali
erano al completo, tutto lo spazio sotto gli alberi era occupato e
ora la gente stava sistemandosi provvisoriamente un po’
dappertutto per terra. In queste occasioni non sono le comodità a
preoccupare gli indiani.
Mi unii al gruppo che aspettava davanti alla Mandir, l’edificio
centrale. Migliaia di persone aspettavano che Sai Baba si
affacciasse al balcone e impartisse la sua benedizione mattutina.
L’esile figura rossa dalla zazzera corvina fece una rapida
apparizione. Sollevò il braccio per benedire la folla con un fare
distratto che non gli era abituale e ritornò in fretta nella stanza.
Ebbi l’impressione che non stesse bene. Subito dopo seppi dal
dottor Sitaramiah, che lo aveva appena visitato, che la
temperatura di Baba era salita oltre i 40 gradi.
“Suppongo che tutto ciò abbia a che vedere con la
formazione del linga di Sivá nel suo corpo. E’ un grosso mistero’
concluse il dottore.
Baba, tuttavia, continuo’, imperterrito, la sua attività, come se
ciò non lo riguardasse. Lo vidi passeggiare distribuendo
pacchetti di cenere alla folla seduta in attesa del dono tanto ambito e
desiderosa di sfiorare anche soltanto l’orlo della sua veste. Poi, nel
corso della mattinata, compì il primo dei due miracoli di quella giornata.
Esso avvenne sotto una grande tettoia, dove migliaia di persone si
assiepavano sul pavimento, pigiate come lo possono essere soltanto le
sardine in scatola e le folle indiane.
Fortunatamente, trovai posto nei pressi del palco, tra uno stuolo
di fotografi ai quali era stato riservato un piccolo spazio. Stralcio qui le
righe del mio diario riguardanti gli avvenimenti di quella mattina: “Sul
palco è collocata una grande statua d’argento di Sai Baba- di Shirdi,
seduto nella sua caratteristica positura. Il signor Kasturi solleva una
piccola urna di legno, alta una trentina di centimetri e piena di
víbhuti. Tenendola al di sopra della statua, versa la cenere sulla
figura fino a vuotare l’urna. Poi la scuote ben bene per far cadere
anche gli ultimi granuli continuando a reggerla al di sopra della
statua con l’apertura rivolta verso il basso.
“Allora Sai Baba infila nell’urna il braccio sino al gomito e lo
fa ruotare come pestello in una zangola. Subito la cenere ricomincia a
piovere dal recipiente, fluendo in abbondanza finchè il braccio non
viene estratto. A questo punto cessa il fiotto di cenere. Poi è la volta
dell’altro braccio, a cui egli fa compiere un’identica rotazione
provocando una nuova pioggia di cenere. La strana cerimonia
prosegue, poiché Baba usa alternativamente le braccia: il recipiente
vuoto versa cenere quando la mano è dentro e cessa immediatamente
quando egli la ritira. Alla fine il simulacro di Sai Baba di Shirdi è
sepolto da un enorme mucchio di cenere, molta più di quanta potesse
essere contenuta nell’urna. Poi essa viene posata a terra: il bagno
rituale e miracoloso di cenere è terminato.
“Tutt’intorno regna un’atmosfera di gioia e di esaltazione.
Il viso del signor Kasturi è più raggiante che mai, i gesti e
l’atteggiamento di Baba sono l’espressione sublime di una grazia che
non è di questo mondo. Tutto è meraviglioso, ma avendo visto il Sai
in precedenti occasioni estrarre dall’aria manciate di cenere, non
riesco più a sorprendermi di fronte a questa dovizia cavata da
un’urna vuota”.
Il momento culminante della giornata doveva ancora venire, e molti
ne facevano oggetto dei loro discorsi. Mi venne raccontato che, ogni
anno, uno o più linga di Siva si materializzavano nel corpo di Baba in
coincidenza della sacra festività. Egli li faceva uscire dalla bocca, perché
tutti li potessero vedere. L’uscita dei linga era sempre laboriosa,
essendo essi costituiti da pietre chiare o colorate, e talvolta da un
metallo simile all’oro o all’argento.
“Siete certi che non li nasconda in bocca prima di salire sul
palco, estraendoli poi al momento opportuno? “, domandai.
I miei ascoltatori mi lanciarono un’occhiata tra il divertito e il
compassionevole. Uno di loro precisò: “Baba parla e canta a lungo
prima che il linga fuoriesca, e in ogni caso esso è troppo grosso perché
lo possa tenere in bocca mentre pronunzia i suoi discorsi. L’anno
scorso era di proporzioni tali che dovette aiutarsi con le dita per farlo
passare attraverso le labbra, e anche così, per lo sforzo, gli angoli
della bocca gli sanguinarono”. Un altro soggiunse: “Un anno furono
addirittura nove, ognuno lungo tre centimetri. Provi un po’ a tenerli
tutti in bocca e poi a parlare per un’ora di seguito! “.
Anche ammesso che porti queste “cose” all’interno del suo corpo,
pensai, qual è il punto preciso in cui si trovano? Certo è un fatto
mirabolante, ma che valore ha? e che cos’è un linga di Siva?
A quest’ultima domanda ricevetti molte risposte dalle
persone presenti nell’ashram, ma la spiegazione più soddisfacente è
forse quella che mi aveva dato il Dr. I.K. Taimni al corso di teosofia. La
ricordavo vagamente, ma ritornato ad Adyar andai a riguardare i miei
appunti. Ecco in succinto ciò che egli diceva.
“Il linga di Siva è uno dei simboli “naturali” dell’induismo, che
hanno di solito forma geometrica. Essi sono denominati “naturali” non solo
perché rappresentano una determinata realtà, ma anche perché in
qualche misura sono i veicoli della forza che emana da quella realtà. Il
linga è un ellissoide che simboleggia la sákti (energia creativa) di Siva,
cioè la prima manifestazione della primordiale dualità cosmica di
generazione e distruzione. Su tale coppia di opposti è fondato l’intero
divenire del cosmo.
Ci si potrebbe chiedere perché viene usato proprio un ellissoide
per simboleggiare il principio creativo. Il Dr. Taimni lo spiegava così. La
realtà ultima, l’Assoluto, o Brahman, o Dio, comunque lo si voglia
chiamare, non contiene polarità, ne’ coppie di opposti: essa li trascende
tutti. Quindi può essere raffigurata dalla figura geometrica più perfetta,
la sfera.
Se il centro o l’unico punto focale della sfera si divide in due,
si ha un ellissoide. Questa figura dà una rappresentazione simbolica della
dualità
primordiale uscita dall’Uno originario e pleromatico. Da questa prima
dualità discendono tutte le manifestazioni, tutta la creazione, tutte le
“diecimila cose” dell’universo. Il linga è, quindi, la forma primigenia che
è alla radice della creazione, come Om è il suono primordiale.
Per dirla in termini induisti, dall’unico Brahman emerge
Sivá-Sákti, il padre e la madre di tutto ciò che è. Si deve osservare in
questa relazione
che Siva non è soltanto un aspetto della Trinità divina, l’aspetto della
generazione-distruzione, ma anche l’Altissimo Dio, il padre di tutti gli
dei, il logos cosmico.
Al pari di tutti gli dei dell’induismo, Siva ha una consorte, la
Sákti o aspetto femminile. E mentre il mascolino, o aspetto positivo,
rappresenta la coscienza, il femminino o aspetto negativo simboleggia
la forza. Entrambi gli aspetti sono necessari per la creazione o
manifestazione sul piano della materia.
E’ anche significativo che la forma ellissoidale, o linga,
simboleggiante il principio di Sivá-Sákti, abbia una parte fondamentale
nella struttura e nel funzionamento dell’universo. Nel cuore della
materia, ad esempio, all’interno dell’atomo gli elettroni si muovono
secondo orbite ellittiche intorno al nucleo. Analogamente, nel sistema
solare i pianeti descrivono intorno al sole delle orbite, non circolari,
come si credeva un tempo, ma ellittiche.
Alcuni considerano il linga un semplice simbolo sessuale. Ma la
sessualità è solo una delle tante manifestazioni del principio di
Sivá-Sákti contenute nel linga. Questo principio è manifestato da tutte
le coppie di opposti, e nulla in questo universo fenomenico può esistere
senza il suo opposto o contrario. La dialettica degli opposti è alla base
dello stesso pensare al nostro stadio di coscienza; e non possiamo, ad
esempio, concepire la luce senza le tenebre, il bene senza il male e così
via.
E’ errato quindi sostenere che la venerazione di questo simbolo
derivi dai primitivi culti fallici. Il linga ha una connotazione più
profonda e significativa. La stessa parola sanscrita significa
semplicemente “simbolo” o “emblema”, il che indicherebbe che si tratta
di un simbolo di base, o primario. Rappresentando in forma sensibile il
principio e la forza creativa primordiali, esso è considerato degno della
più alta venerazione sul piano fisico, e poiché ha una relazione
geometrica con la realtà che simboleggia, può mettere il fedele in
rapporto con questa stessa realtà. Come ciò avvenga,
sottolinea il Dr. Taimni, è un mistero che può essere risolto o capito
solo da un’interiore esperienza personale.
Tuttavia si è asserito che questo sacro ellissoide di pietra o di
metallo abbia l’occulto potere di stabilire un rapporto tra l’uomo e la
forza divina sul piano profondo che esso rappresenta. Attraverso
questa relazione l’adoratore beneficerebbe di innumerevoli benedizioni e
favori. Ma il legame mistico deve essere stabilito da una persona che
possieda la dovuta comprensione dei principi e la conoscenza del
giusto rituale.
Trentamila persone avrebbero affrontato un viaggio durissimo di
migliaia di chilometri solo per vedere Sai Baba generare dal proprio
corpo una pietra comune, anche se in modo miracoloso? Ne dubito. Ma
la pietra attesa quella sera, il linga, non è una pietra qualunque. Essa
affonda nel cuore antico dell’India.
Le ombre si allungavano, ma il pomeriggio era ancora caldissimo
quando, dalla foresteria, mi avviai verso la piccola rotonda, detta Shanti
Vedika, dove doveva accadere l’evento. La costruzione si trova ad una
certa distanza dalla Mandir ed è simile a quei palchi per le orchestre che
si trovano nei parchi di molte città occidentali. Esso ha forma circolare,
un pavimento sopraelevato, un basso steccato attorno e degli esili
pilastri che reggono il tetto.
Non solo le grosse tettoie erano stipate di spettatori, ma l’ampia
superficie che si estendeva dalla rotonda centrale al perimetro
dell’ashram era un’unica massa compatta di figure sedute. Qualcuno mi
fece strada attraverso la silenziosa foresta di teste, lungo un passaggio
di stuoie di cocco tra donne a destra e uomini a sinistra. Mi domandavo
se avrei trovato da qualche parte un quadratino per sedermi.
Vicino alla Shanti Vedika era stato riservato uno spazio ai
funzionari, ai discepoli più stretti, ai fotografi e ad alcune persone,
munite di registratore. Essendo un ospite straniero mi venne fatto
cortesemente posto tra loro. Ma anche questo recinto privilegiato
divenne ben presto così affollato che mi chiedevo se avrei potuto
mutare la mia posizione rattrappita a gambe incrociate. Se fossi rimasto
lì per più di tre ore, come si prevedeva, le mie gambe si sarebbero
bloccate in quella posizione e avrei dovuto essere portato via di peso.
Alle sei in punto, Sai Baba, accompagnato da un piccolo gruppo di
discepoli, entrò nella Shanti Vedika e subito dopo cominciarono i
discorsi. Parlarono alcune persone, una delle quali ricordo in modo
particolare, un eminente studioso di sanscrito dell’India meridionale,
Surya Prakasa Sastri. Non che capissi molto di quanto diceva, poiché
parlava nell’antica lingua dei Veda, ma c’era qualcosa di affascinante
nella sua faccia vigorosa e benevola di dotto e nel suo mantello di
colore azzurro cielo.
Una quarantina di potenti riflettori illuminarono il gruppo sulla
piattaforma, quando Baba si alzo. Prima intonò un canto sacro, con la
sua voce melodiosa e celestiale che toccava il cuore, poi cominciò il suo
discorso, parlando come al solito in telugu. Trentamila persone
sembravano diventate un ascoltatore unico e pendevano dalle labbra di
Baba, in assoluto silenzio, tranne quando egli raccontava una storiella, o
scherzava su qualcosa. Allora un’ondata di risate scrosciava sulla
distesa di volti illuminati dalle stelle. Sulla piattaforma il signor
Kasturi era intento a prendere appunti del discorso che sarebbe stato
pubblicato in telugu e in inglese.
L’eloquenza di Sai Baba fluì tranquilla per mezz’ora quando
improvvisamente la sua voce ebbe un arresto. Egli cercò di continuare,
ma soltanto un grido inarticolato gli usci dalla gola. Coloro che tra i
devoti guidavano il bhajana, sapendo ciò che stava accadendo,
immediatamente intonarono il noto canto sacro a cui l’immensa folla fece
eco.
Baba si sedette e bevve un po’ d’acqua da un’anfora. A più riprese cercò di
cantare, ma non vi riuscì. Poi cominciò a dare segni di sofferenza: si
contorceva e si rivoltava, metteva la mano sul petto, nascondeva la
testa tra le mani, si tirava i capelli. Sorseggiò un altro po’ d’acqua e
cercò di sorridere per rassicurare la folla.
Il canto continuava con fervore, come se servisse a confortare e a
sostenere Baba nel suo soffrire. Alcuni uomini intorno a me
scoppiarono in pianto senza ritegno, e io stesso provai tenerezza per
quell’uomo che pativa sotto i nostri occhi. Non potevo però cogliere
appieno il significato dell’evento che causava quell’agonia, ne’ forse lo
poteva la maggior parte dell’immensa folla che vi assisteva. Ma, tra il
comprendere intellettualmente una cosa e intenderne il significato nella
profondità delle proprie viscere c’è una grande differenza. Intuivo di
essere al centro di un avvenimento che aveva un profondo significato
per l’umanità.
Un’altra parte di me, più cauta e più razionale, non era ancora
convinta che di lì a poco avrebbe avuto luogo un miracolo, sia pure di
valore spirituale. Così, invece di bagnare i miei occhi con lacrime di
simpatia, li tenevo incollati alla bocca di Baba; tutta la mia attenzione si
concentrava in quel punto perché non volevo perdere l’uscita del linga,
ammesso che uscisse proprio di là.
Dopo circa venti minuti, trascorsi con gli occhi fissi sulla bocca
di Baba, mentre egli si contorceva, sorrideva, o faceva sporadici tentativi
di canto, la mia attesa fu ricompensata. Vidi un lampo di luce verde
uscirgli dalla bocca e, con esso, un oggetto che gli cadde tra le mani,
appoggiate al di sotto a guisa di conca. Immediatamente sollevò
l’oggetto, tenendolo tra il pollice e l’indice, perché tutti lo potessero
vedere. La folla trasse un immenso respiro di sollievo. Era un bellissimo
linga verde, di proporzioni tali che nessuno avrebbe potuto contenerlo
nella sua gola.
Sai Baba lo mise in cima ad una torcia, in modo che la sua luce ne
mettesse in risalto la vivida trasparenza di smeraldo. Poi, scomparve dalla
scena. Sunderlal Gandhi, un giovane che fungeva da guida e che era
diventato mio amico, mi condusse fuori da quella calca. Le gambe mi
tremavano, ma mi sorressero fino alla foresteria. Quella notte fui
svegliato a più riprese dai canti della folla assiepata intorno al linga
illuminato di Siva, e quando scesi per la colazione essa si stava appena
diradando. Mi imbattei in Gabriela Steyer, la quale mi informò che la
maggior parte dei partecipanti all’immenso raduno era rimasta durante la
notte in adorazione dell’oggetto formatosi miracolosamente nel corpo
del loro guru, e simboleggiante la più alta divinità.
Siva è il dio degli yogi, colui che aiuta l’uomo a conquistare la
sua natura inferiore e ad innalzarla fino al divino. Per operare un
cambiamento del genere la mente deve essere domata. Si afferma che
essa sia in relazione con la luna e che esista un periodo astronomico in
cui l’astro notturno favorisce gli sforzi dell’uomo per trascendere la
mente. Proprio in questo periodo, che cade in febbraio, si tiene la
celebrazione di Siváratri. Ma, a Prasanti Nilayam la festività lunare è
doppiamente propizia; non solo esistono le condizioni celesti richieste,
ma il simbolo di Siva è reso visibile e concreto agli occhi di tutti,
luminoso punto di convergenza che serve da supporto per lo sforzo
supremo della meditazione.
E’ interessante osservare a questo proposito che nella Uttaragita
il Signore Krsna dice che “linga” deriva da lana, parola che significa
unire.
Questo è il motivo per cui il linga rende possibile l’unione dell’io
inferiore con l’io superiore e con Dio – con Jivatman e Paramatman.
Più tardi, il Raja di Venkatagiri, un devoto di Sai Baba e un
profondo conoscitore dell’induismo, mi spiegò che era importante compiere
regolari e corrette puja o adorazioni rituali del sacro simbolo. E poichè
pochi potevano adempiere a quest’obbligo, la maggior parte dei linga di
Sai Baba fu smaterializzata per ritornare al regno dell’immanifesto donde
provenivano. Molti altri devoti suffragarono questa opinione.
Parecchi dei miei nuovi amici videro da vicino il linga, il
mattino dopo la sua produzione. Dappertutto si faceva un gran parlare di
esso,
paragonandolo ad altri esemplari prodotti gli anni precedenti. Domandai
che cosa ne fosse stato, e mi fu detto che alcuni erano stati regalati a
devoti molto fedeli; di altri nessuno sapeva niente.
Ora, ero certo che alcuni erano in mano di qualche devoto e circa
un anno dopo una seguace di Sai Baba mi mostrò un bellissimo linga di
Siva proveniente dal corpo di Baba, che le era stato regalato. Essa lo
portava con se, accuratamente avvolto in un panno, e non lo lasciava
toccare a nessuno.
“Avete compiuto regolari puja per esso? ” le chiesi.
“Si`”, rispose, “Baba mi disse ciò che dovevo fare ed io l’ho
fatto.
Non so perché me lo ha dato, poiché non ne sono degna”. Capii, invece,
che lo era. Baba, che scruta nella profondità di ogni cuore, sa chi è
degno e chi no.
Io stesso potei esaminare il linga di Siva, un paio di giorni dopo
la sua manifestazione. Mi ero recato con un piccolo gruppo alla Mandir per
uno degli ambìti incontri con Sai Baba. Fummo introdotti in una stanza
del pianterreno. Dopo qualche minuto entrò Baba e posò il linga sul
davanzale della finestra perché tutti potessero vederlo. Era di color
verde smeraldo, così come era apparso alla luce artificiale la notte della
sua manifestazione. Kasturi, che si trovava sul palco della Shanti Vedika
nel momento in cui fu prodotto, così lo descrive nel suo libro:
“Un linga di smeraldo, alto 8 centimetri e fissato
su un piedistallo largo 13, emerse dalla bocca di Baba- per la gioia e il
conforto ineffabile dell’enorme folla… “. Quando lo vidi sul davanzale
non riuscii a capacitarmi come anche il grosso piedistallo fosse uscito
dalla bocca di Baba, e valutai che le sue dimensioni fossero ancora
superiori a quelle riportate da Kasturi.
Dopo che tutti avemmo osservato bene il linga, senza per altro
toccarlo, Baba si accomodò su una sedia e noi ci sedemmo sul
pavimento lungo le pareti. Io mi collocai alla sua destra, il più vicino
che potevo.
Per un po’ egli fece chiacchiere apparentemente frivole. Domandò a
ognuno che cosa si attendesse da lui e rise ad alcune delle risposte.
Sembrava una madre in mezzo ai suoi figli, contenta solo quando può
venire incontro ai loro desideri e farli felici, sperando al tempo stesso
che essi imparino a desiderare i beni più importanti della vita, i tesori
dello spirito.
Poi si voltò di colpo verso di me e disse in un modo provocatorio:
“Se ti regalo una cosa, tu la perderai? “.
“No, Baba, no che non la perderò”, protestai.
Si rimboccò la manica e agitò l’aria con la mano, quasi
all’altezza dei miei occhi; potevo vedere benissimo, sia sopra che sotto, ma
non scorsi
nulla, finché voltando la mano egli non mostrò un grosso e lucente
anello nel mezzo. Sembrava d’oro e d’argento; più tardi mi spiegò che
quel metallo era pancaloha, una lega con cui sono fabbricate molte delle
statue dei templi.
Affascinato, stesi la mano per accogliere il dono, ma egli ridendo
porse l’anello a qualcuno che stava dalla parte opposta. Esso passò di
mano in mano, e ognuno potè esaminarlo; molti anzi lo appoggiavano
sulla fronte in segno di riverenza prima di consegnarlo al vicino. Quando
tornò a Baba, egli me lo infilò nel dito medio. Era proprio della sua
misura.
Mi sentii sprofondare, e ancor più quando vidi che la figura
sbalzata in oro sull’anello era quella di Sai Baba, di Shirdi. Non avevo mai
accennato a Satya Sai e a nessun altro del mio profondo affetto per il
vecchio santo. Me l’aveva forse letto nel pensiero?
Subito dopo ci ricevette ad uno ad uno in un’altra stanza, in modo
che gli potessimo porre i nostri problemi personali. Quando venne il mio
turno, egli mi intrattenne, parlando della mia vita e della mia salute.
Sembrava essere non solo un padre e una madre, ma l’essenza della
paternità e della maternità, l’archetipo di tutti i padri e di tutte le
madri.
Era come se da lui emanasse un raggio d’amore che, penetrando nelle
profondità del mio essere, scioglieva ogni durezza e ogni rigidità
interiore. Sentii che questo era il purissimo e altissimo amore che è detto
premán in sanscrito, espressione spontanea di ciò che nell’uomo vi è di
più alto, la presenza divina.
Questa meravigliosa esperienza interiore si accordava con quanto
mi avevano riferito molti devoti sui loro contatti con l’universale e
insieme
individualizzato premán di Baba. Così, al termine della mia visita alla
“Dimora di grande pace”, capii che questo taumaturgo era tutto fuorché
un astuto illusionista o un “mago da strada” che ricorre a un limitato
repertorio di trucchi per cavare qualche rupìa dai passanti.
Sai Baba non apparteneva a nessuna di queste categorie. Che cosa
era allora? Ciò restava un mistero forse insolubile, in ogni caso una
sfida per chiunque.
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