Samadhi è pura gioia

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Samādhi è pura gioia

del Venerabile Ajahn Sucitto

(Discorso tenuto da Ajahn Sucitto il 10 marzo 1999 alla Insight Meditation Society di Barre, Massachusetts, Stati Uniti d’America)

Soffermiamoci con il pensiero sul concetto della concentrazione o samādhi. Quando sen­tiamo queste cinque piccole sillabe,
con-cen­tra-zio-ne, qual’è la nostra reazione? È difficile trovare le parole adatte, ma è proba­bile che provochino l’insorgere di una parti­colare tensione. Forse si accende in noi una sensazione di star per compiere qualcosa, una voglia di sforzarci per riu­scirvi bene. È normale dire a noi stessi: “Samādhi, que­sta è una cosa che richiede impegno, mica una passeg­giata”. Diventiamo seri, tesi, ci prepariamo a una prova di forza. Ecco una pratica intensiva, pensiamo, un vero e proprio “campo di concentrazione”. Non è am­messa pigrizia! A queste premesse seguono tattiche dominative con le quali te­nere a bada la mente. Fac­ciamo appello ai nostri sistemi di controllo, al no­stro senso del dovere, alla nostra maggior tenacia in vista di ottenere as­solutamente qualcosa. La nostra mente in­voca un rigore teutonico e una disciplina marziale, una roba da Gestapo.

Queste tattiche potranno forse funzionare all’inizio, ma in capo a pochi giorni comince­remo a stancarci. Qualcosa dentro di noi si stringe e s’indurisce, al contempo sorge un’al­tra vocina che dice: “Oh, alla malora tutto questo”. Ogni tanto la vocina si fa sentire. Vo­gliamo divertirci un po’, e cominciamo a cer­care mezzi legittimi per evitare “la pratica. “Dopo tutto, quante sono le persone che real­mente desiderano dedicarsi alla pratica ogni ora, ogni minuto del giorno? È naturale che la mente idealistica dica: “Vorrei dedicare me stesso al Dhamma in ogni momento”. E la vo­cina salta su: “Giusto, sì, ci sto!”. Ma sotto sotto fa eco un altro pensiero che dice: “Una serata rilassante ogni tanto ci starebbe proprio bene”. Perciò, è impor­tante interrogarsi sulla nostra percezione della concentrazione. L’atteg­giamento rigoroso da “Ge­stapo” non è il più indicato per raggiungere il samādhi, o unificazione o completezza. Se pren­diamo in attento esame questo impulso di “voler ottenere” ci accorgiamo di quanto sia distruttivo, quanto ci faccia perdere coraggio e forza. Anziché suscitare apprezzamento, ci fa sentire critici e sfiduciati.

Queste sensazioni le ho provate anch’io nel percorso di sviluppo del samādhi all’interno del monastero. Diventavo ipercritico nei con­fronti di tutti: questa persona ha una postura orrenda,
quell’altra fa troppo rumore spalan­cando la porta, un’altra porta ancora male l’abito monastico. Diventiamo così intolle­ranti e critici perché le nostre idee sulla con­centrazione acuiscono le nostre facoltà critiche. La crescita delle facoltà discriminative ci separa dagli altri. Conduce alla separa­tezza. La separatezza ci porta all’agitazione ed alla ribellione. Ciò che viene scacciato e rifiu­tato si ritorce contro di noi. In questo modo un’esperienza che intendeva portare alla chia­rezza, causa in realtà un cumulo di impedi­menti. Alla fine la concentrazione si dissolve perché non è stata coltivata in modo corretto.

Proviamo invece a considerarla come l’ha descritta il Buddha, cioè come un diletto, un’esperienza piacevole. Egli dice: “Per colui che ha il corpo ben bilanciato e rilassato non occorre pensare ‘che io sia rilassato, che io possa sentirmi sereno’”. In altre parole, non è necessario fare alcuno sforzo. Se il corpo è in armonia e le sue energie sono equilibrate, ci sentiremo già rilassati. Non è neanche neces­sario produrre un’intenzione del tipo: “Che io possa
concentrarmi”. Chi è rilassato è difatti naturalmente concentrato, è questo lo stato di samādhi.

Questa affermazione non sembra molto esatta, vero? Manca di precisione in termini di definizione dell’oggetto, con la quale ci sen­tiremmo più sicuri. Pensiamo: “Quando avrò sentito passare cinquanta inspirazioni nelle mie narici, avrò raggiunto la concentrazione; questo è il samādhi”. Cerchiamo però di os­servare la cosa in un altro modo. Anziché fon­dare il samādhi su un oggetto, proviamo a girarci intorno. Dimentichiamo il respiro per un attimo, e consideriamo qualità più sogget­tive. In questo momento, come ci sentiamo? Stare qui: mentre siamo seduti, mentre cam­miniamo, mentre viviamo. Qual è il nostro stato d’animo? Come viviamo i cambiamenti che avvengono? Cosa ci rende felici? Cosa ci rende tristi? Cosa ci fa sentire preoccupati? E quand’è che invece ci sentiamo calmi e a no­stro agio? In che momenti abbiamo la sensa­zione che la vita sia proprio così? E allora com’è la nostra energia?

Quando abbiamo un obiettivo che dob­biamo raggiungere nel futuro, c’è tensione. Le cose si solidificano, la duttilità viene meno. Quando c’è un forte senso di autocoscienza: “Questo è ciò che sono, non sono così; non ero in quel modo, diventerò quest’altra persona”. È allora che la nostra energia si rinserra. Quando ci difendiamo dagli altri, dagli avve­nimenti, dai ricordi e dalle sensazioni, quando chiudiamo fuori le cose da noi c’è un rinser­rarsi e una tensione. Quando cerchiamo di esibirci e di diventare “qualcuno”, c’è un rin­serrarsi e una tensione. Quando ci parago­niamo ed entriamo in competizione, c’è un rinserrarsi e una tensione.

Iniziamo così a contemplare questi schemi malsani e ad abbandonarli. Possiamo vedere come la nostra vita funzioni in termini di
compartimenti. Potremmo compartimentaliz­zare un ritiro. Creiamo una serie di piccoli contenitori: meditazione seduta, meditazione camminata, tempo libero; poi ancora medita­zione seduta, meditazione camminata, tempo libero. Arriviamo al punto di dirci: “Oggi non ho fatto le ore previste per le sedute”. Capite cosa succede? I nostri pensieri istituiscono delle aree: “Questo sarà così e quello sarà cosà; voglio sapere come tutto avverrà in modo da essere ben preparato; il mio cuscino lo metterò lì e camminerò sul mio sentiero preferito, non ci voglio nessun altro!”. Ci co­struiamo delle aree dalle quali abbiamo estir­pato intrusioni e inconvenienti come fossero erbacce. E questo genera una sensazione di grande rigidità. Se qualcosa non va come do­vrebbe, ci sentiamo confusi o agitati. Non è questo il modo di vivere. È un’esperienza ste­rile, è come vivere in un laboratorio.

Naturalmente le erbacce continuano a cre­scere, o no? Le erbacce crescono ovunque, rie­scono a spaccare il cemento. Sono le vere padrone del pianeta. Potremmo desiderare di essere come loro: sviluppare la tenacia, la ro­bustezza, la spontaneità, l’essere ovunque che è proprio delle erbacce invece della precarietà di una preziosa orchidea, la quale può soprav­vivere solo in una serra con l’aerosol e con nu­trimenti particolari. In fondo, un’erbaccia non è altro che un fiore. Abbiamo imparato a chia­marla “erbaccia” e abbiamo deciso di conside­rarla dozzinale, grezza. La nostra percezione la etichetta come negativa, così come la mente è stata addestrata ad accettare solo ciò che è classificato e irreale, sterile e privo di vita, preconfezionato e filtrato. Proprio come un’orchidea coltivata, incapace di sopravvi­vere in natura, il nostro sistema immunitario si è indebolito, rendendoci non più in grado di gestire la cruda realtà.

Però, la consapevolezza può riuscirci. Il no­stro addestramento fa sì che la consapevo­lezza acconsenta alle condizioni della realtà e se ne faccia carico. Se il corpo è permeato di consapevolezza, essa si incarna nella presenza somatica. Quando la consapevolezza dà forma a concetti, c’è pensiero applicato. Quando la consapevolezza tende verso le sensazioni e le percezioni, si instaura una risonanza. Quando invece l’intenzione della consapevolezza è di pura relazione, la chiamiamo presenza men­tale, ci riferiamo alle cose così come sono. Quando si ottiene uno stato di pura relazione, la presenza mentale raggiunge la gioia, la con­tentezza, ed è questo stato che chiamiamo samādhi.

La consapevolezza in sé non è nessuna di tali esperienze, ma è racchiusa in ognuna di esse. La pratica significa continuare ad appli­care la consapevolezza al corpo, al pensiero ed allo stato d’animo con presenza mentale. Ciò richiede un chiaro impegno dell’intenzione: essere qui, essere con il corpo, essere con la sensazione, e così via. Incoraggiamo questo impegno, rendiamo la nostra pratica un’atti­vità piacevole. Allora essa porterà con sé la mente che pensa. L’abilità sta nel trovare equilibrio allorché possiamo pensare quando lo vogliamo e, quando non è il momento di pensare, possiamo riposare provando diletto nella nostra
consapevolezza.

Questo dilettarsi nella consapevolezza è un’esperienza ricettiva e fondata. Quando ad esempio impariamo a ballare o a suonare il pianoforte, lo facciamo per gradi. Il primo sta­dio è “non-conscio e privo di competenza”: non saper cosa fare e non essere in grado di farlo. Poi segue quello “conscio e privo di competenza”: sappiamo cosa fare, ma non siamo ancora in grado di farlo. In questo sta­dio pratichiamo in modo rigido, muovendoci a caso per indovinare i tasti, una meditazione da principianti. Il terzo stadio è “conscio e competente”: sappiamo cosa fare e siamo in grado di farlo. Pensiamo: “Sono riuscito a ca­pire, mi riesce proprio bene”. Molti credono che questo sia l’apice della pratica. Il vero apice, però, è essere “non-conscio e compe­tente”: succede e basta. Non sappiamo come ci riusciamo, ma avviene ugualmente. Fac­ciamo parte di un flusso. In questo tipo di co­scienza – quella che si sperimenta in alcune arti, mestieri, sport e quant’altro – sentiamo quel che succede. Ci affidiamo. Facciamo parte della corrente. Siamo consapevoli e sin­tonizzati. Non c’è più uno schema cognitivo a dirci: “Fai questo e fai quello”. È fluire sola­mente.

Il samādhi è così. È competente e non-con­scio, o meglio, è oltre lo sforzo cosciente di sé. La “coscienza” in questo contesto è l’attività discriminante. La coscienza visiva discrimina in termini di distanza, luce e ombra. Spezzetta le cose descrivendole in termini di
esperienza: “questo albero è a un metro, quell’altro è a dieci metri”. In realtà essi stanno semplice­mente là. La coscienza mentale discrimina tra soggetto e oggetto: “Tu sei là fuori e io sono qui dentro”. Discriminare è l’attività preferita della mente, e ciò non avviene solo con quello che noi chiamiamo normalmente realtà esterne. Anche quando osserviamo la mente, vi è la nozione: “Io sono qui dentro, e osservo la mente là fuori”. E quando si combatte con le contaminazioni: “Io sono qui dentro, e le contaminazioni sono là fuori”. C’è come una linea a dividere le due cose. Questa è la co­scienza. Sebbene la consapevolezza sia la ma­teria prima della coscienza, l’attività della coscienza crea quella linea divisoria.

Finché esiste questa linea ci saranno prese di posizione, nervosismi, vincite, sconfitte e così via. Data la natura transitoria delle espe­rienze, ci sarà sempre una sottile sensazione di attaccamento o di eliminazione della con­dizione che si raggiunge, uno sforzo per incre­mentarlo o per diminuirlo. Il samādhi si verifica quando superiamo questa linea, quando c’è una partecipazione all’esperienza e un dilettarsi in essa. Il samādhi è l’abban­dono di tutta la tensione, la bramosia, la crea­zione di confini.

Nelle fasi iniziali del samādhi lavoriamo all’interno dei confini dell’esperienza per va­gliare il kamma, i modelli e le tendenze abi­tudinarie delle passate azioni. Iniziamo dentro i confini del corpo per ripulirlo da tutti i suoi confini interiori:
l’inconsapevolezza del

corpo, l’incapacità di fluire con le energie del corpo, le congestioni del corpo come espe­rienza: affinché sia non più anchilosato, ser­rato, annodato, distorto o sbilanciato. Quando ci sarà pienezza corporea, non sarà necessario far altro in termini corporei, perché il corpo riposa. Si può provare diletto anche solo quando si è un corpo.

L’essenza della pratica appresa all’interno del corpo si serve di un ambiente sicuro e con confini precisi. Praticare all’interno del corpo è facile perché è tangibile, materiale. SI può ottenere diletto nel corpo che sta seduto, che cammina, che sta in piedi. Il corpo addestra quindi la mente a smettere di generare in­giunzioni, controlli e nervosismi. Addestra la mente ad acquietare l’ignoranza, la
dimenti­canza, l’errata visione; a fermare la presun­zione, il disagio, la violenza. Questo conduce a pañña o saggezza, cioè alla comprensione del processo che genera queste sensazioni, una
comprensione che a sua volta conduce alla liberazione dalla paura, dalla preoccupa­zione, dalle tensioni e dall’ignoranza.

Questo rilassamento è di per sé un processo graduale. Sollecitiamo la mente a modificare il suo comportamento. Si tratta di un qualcosa che si può fare soltanto attraverso il corpo perché la mente non riesce a modificare se stessa. Ha bisogno di un punto di riferimento. Così concentriamo la mente su qualcosa, e ci chiediamo: “Be’, com’è questa cosa? Perché il mio respiro è così?”. Il respiro è un buon punto di partenza per sviluppare la concen­trazione. Ovviamente spesso pensiamo: “Devo aggiustare il respiro per renderlo cor­retto; c’è qualcosa di sbagliato”. Così ci indu­striamo per raffinarlo. Se ciò ci porta ad essere a nostro agio va bene. Però, se questo ci conduce ad arzigogoli del pensiero e formu­lazioni concettuali sulla
respirazione, arri­viamo al punto di non voler più neanche sentir nominare la parola “respiro”. La con­centrazione sul respiro diviene ardua perché produce troppi, sottili criteri concettuali. Ar­riviamo ad intensificare l’attività discrimi­nante sull’oggetto anziché avvolgerlo con la nostra consapevolezza.

Dobbiamo allentare la tensione. Notate semplicemente che state respirando. Iniziate con questo. È molto semplice. Osservate come avviene la ricezione del respiro, connettendoci molto coscientemente con la parola “rice­vere”, perché questo è il “fare” meno intenso che ci possa essere. Suscitate la riflessione di ricevere semplicemente il proprio respiro. Dapprima la nostra recettività non sarà forse molto chiara, precisa o chiara. Intensifi­chiamo questa ricezione, e dimoriamo con essa. Poi chiediamoci: “Cosa posso ricevere?”. Focalizzate in termini di schemi, come quando si notano le differenze tra i suoni ed i silenzi durante l’ascolto di una voce. Percepite le modulazioni, le inspirazioni e le espirazioni, le pause; potete coglierli abbastanza veloce­mente. Durante la respirazione ricevete que­ste sensazioni ritmiche e permettevi di godervele, di rilassarvi in esse, di fluire con esse. “Colui che è a proprio agio nel suo corpo non ha bisogno di augurarsi ‘che io possa es­sere rilassato e sereno’. È una cosa naturale. Colui che è rilassato e sereno non ha bisogno di augurarsi ‘che la mia mente possa essere concentrata’. È una cosa naturale”. Queste sono le parole del Buddha.

Il flusso non è un oggetto separato e di­stinto, non potete attribuire ad esso una so­stanzialità. Occorre abbandonare l’abitudine di sostanziare le cose, di delimitarne i confini, per ottenere un gran sollievo durante la me­ditazione. Le cose sono dinamiche, le cose scorrono. Perciò la nostra risposta deve essere dinamica e fluida. Tendiamo a cercare un og­getto inamovibile a cui aggrapparci, e chia­miamo quest’attività concentrazione. Se ci riusciamo otteniamo una certa soddisfazione, ma dura solo poco tempo. Poi, addio flusso, addio energia, addio gioia.

Quando contempliamo il respiro, in realtà osserviamo una metafora della mente. Oc­corre osservare questa metafora allo stesso modo in cui valuteremmo una poesia o un di­pinto. Guardiamo al significato. Evitiamo di avvicinarci alla tela e di appiccicarci il naso. Ci teniamo ad un’opportuna distanza affinché gli occhi guardino con agio, e la distanza varia da persona a persona. Lo sguardo potrebbe essere a proprio agio a venti centimetri, a trenta o a un metro, dipende. Ci sistemiamo dove ci sentiamo comodi. L’obiettivo della

concentrazione è di accomodarsi, di sistemarsi in modo tale da farci sentire comodi e a nostro agio, né confusi né assonnati. Questo è il solo punto dal quale potete sperimentare un costante segno del respiro. Questo punto si trova unicamente nel vostro processo men­tale e psicologico di consapevolezza. Non è un punto fisico.

Dove sentite che le vostre energie si riuni­scono? Raggiungete quel punto. Lasciate che il respiro lo attraversi, ancora e ancora. Ci ac­corgeremo che non vogliamo né afferrarlo né evitarlo. Vi
accorgerete che ci ospita. Allora inizierete a sentire come un tono continuo, il che significa un’altra metafora. Ascoltate se c’è qualcosa che sperimentate in più rispetto al suono. Se la sensazione è tattile, provatela. Se è emotiva, entrate in sintonia con essa. Se è visiva, apritevi ad essa. Questo è il “segno” della meditazione. La qualità di questa espe­rienza è bellissima. Osserviamo questa bel­lezza, cos’è? È lì che la mente mente si delizia, è affascinata, commossa. Questa è gioia.

Ma non è possibile trattenere la bellezza. Una relazione con la bellezza è affine alla de­vozione. Non leghiamoci ad essa, dobbiamo esserne consapevoli in un modo che è nel con­tempo amorevole e rispettoso. Abbandonatevi ad essa. Certamente non è qualcosa alla quale siamo abituati, e perciò bisogna procedere con cautela. Non è un’esperienza avventata, è un qualcosa che richiede fiducia. Prima di tutto riponete la vostra fiducia nel corpo. Sul corpo si può fare molto più affidamento che sulla mente. Quando impariamo a fidarci, se ne riceve la benedizione: quel che è buono, che conduce al benessere del cuore, che dà gioia.

Ricevere gioia è un altro modo per dire pro­vare piacere, e il samādhi è l’arte di un gioioso e raffinato piacere. È l’accurato raccoglimento nella gioia del momento presente. Una felicità nella quale non esiste alcuna paura, tensione o dovere. Non siamo costretti ad alcun com­portamento obbligato. È solo così com’è.

(Ringraziamenti a Carlo Duncan per la traduzione dall’inglese)

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