Schopenhauer e i Veda

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Schopenhauer e i Veda

Schopenhauer non ha fondato una scuola di pensiero (lo schopenhauerismo non riesce a penetrare nelle
università e a diventare una tradizione di pensiero universitaria) ma le sue idee hanno esercitato
una vasta influenza sul pensiero dell’epoca. Von Hartmann, Nietzsche, Frauenstadt (1813-79, prima
hegeliano, poi divulgatore e artefice del pensiero di Schopenhauer), Bahnsen (1830-81, che sviluppa
una concezione del tragico come legge del mondo) e Deussen (1845-1919, studioso del pensiero
orientale dietro suggestione di Schopenhauer) possono dirsi schopenhaueriani in senso vero e
proprio. Così come schopenhaueriano Richard Wagner (1813-83).

Nietzsche ha forti legami con la filosofia di Schopenhauer: il suo pensiero si situa in un orizzonte
antropologico e cosmologico; è espressione anarchico-aristocratica della crisi dell’ultimo
Ottocento; rifiuta l’idealismo classico e il positivismo ed è orientato in senso irrazionalistico e
volontaristico.
Ma Nietzsche rientra solo in parte nello schopenhauerismo, in quanto ha anche altri legami molto
forti con il naturalismo presocratico, con l’umanismo giovane hegeliano, con il darwinismo e le
scienze della natura, con l’antimetafisica positivistica.

Quando Nietzsche scrive la Nascita della tragedia (1872), il suo pensiero è ancora fortemente
influenzato dalla lettura di Schopenhauer, e ciò è ben visibile nell’uso del lessico e nella
insistenza su tematiche quali il desiderio, la rappresentazione, la volontà.

La filosofia schopenhaueriana pervade anche opere come Verità e menzogna in senso extramorale (1873)
e La filosofia nella età tragica dei Greci (1873), fino al definitivo allontanamento, profondamente
critico, in Nietzsche contra Wagner (1888), Il crepuscolo degli idoli (1888), e nei frammenti poi
raccolti nella postuma Volontà di potenza.

Schopenhauer inizia il suo capolavoro, Il mondo come volontà e rappresentazione (1819), con la
celebre affermazione: “Il mondo è mia rappresentazione”.

“Egli sa con chiara certezza di non conoscere né la terra, ma soltanto un occhio che vede un sole, e
una mano che sente il contatto d’una terra; egli sa che il mondo circostante non esiste se non come
rappresentazione, cioè sempre e soltanto in relazione con un altro essere, con il percipiente, con
lui medesimo”
(cfr. Il mondo come volontà e rappresentazione,I §1, trad. it. Milano, Mondadori, 1992, p. 31).

Questa considerazione Schopenhauer la prende dai Veda induisti.

Schopenhauer ritiene che la nostra mente funzioni inquadrando tutti i fenomeni in tre forme: spazio,
tempo e causalità. Però, al di là della rappresentazione, vi è la realtà vera, che può essere
svelata.
Infatti non ci limitiamo a vederci dal di fuori, ma ci viviamo anche dal di dentro, godendo o
soffrendo. Più che conoscenza e intelletto, noi siamo, per Schopenhauer, vita e volontà di vivere,
cioè un impulso irresistibile che ci spinge ad esistere e ad agire. Il nostro stesso corpo non è che
la manifestazione esteriore delle nostre brame interiori: l’apparato digerente non è che l’aspetto
fenomenico della volontà di nutrirsi, l’apparato sessuale non è che l’aspetto fenomenico della
volontà di accoppiarsi e di riprodursi ecc. Il corpo è dunque volontà resa visibile. L’essenza del
nostro essere è tutta volontà.
Si può notare come Nietzsche prenda da Schopenhauer il concetto di “volontà”, dove volontà di
potenza non è altro che volontà di autoaffermazione.

Ma nel momento in cui ci rendiamo conto di essere volontà, squarciamo il “velo di Maya”
dell’illusione e ci rendiamo conto di essere parte di quell’unica Volontà, di “quel cieco ed
irresistibile impeto” che pervade tutte le cose.
La volontà è appunto l’essenza segreta di tutte le cose.

E’ una forza cieca, senza un perché e senza uno scopo al di fuori di se stessa : la volontà vuole la
volontà, la vita vuole la vita, e ogni motivazione ricade nell’orizzonte del vivere e del volere.

Affermare che l’essere è la manifestazione di una Volontà equivale allora a dire che la vita è
dolore per essenza. Se volere infatti significa desiderare, e desiderare significa essere in uno
stato di tensione, per la mancanza di qualcosa che non si ha e si vorrebbe avere, la vita è per
definizione assenza, vuoto, indigenza ossia dolore.
E poiché nell’uomo la Volontà è cosciente, e quindi più “affamata”, egli risulta il più bisognoso e
mancante di tutti gli esseri, ed è destinato a non trovare mai un appagamento definitivo.

Per di più, quello che gli uomini chiamano godimento e gioia non è altro che cessazione momentanea
del dolore.
Di conseguenza, mentre il dolore è un dato primario e permanente, il piacere è solo una funzione
derivata dal dolore.

Il dolore però non riguarda soltanto l’uomo ma investe ogni cosa. Tutto soffre, dal fiore che
appassisce all’animale ferito; e se l’uomo soffre di più è perché, avendo maggiore consapevolezza, è
destinato a patire maggiormente l’insoddisfazione del desiderio e le offese dei mali. Per la stessa
ragione il genio, avendo maggiore sensibilità rispetto agli uomini comuni, è votato ad una maggiore
sofferenza.

In tal modo, Schopenhauer perviene ad una delle più radicali forme di pessimismo cosmico di tuta la
storia del pensiero.

Schopenhauer è polemico nei confronti di quelle religioni e filosofie che vedono il mondo come un
organismo perfetto, governato provvidenzialmente da un Dio oppure da una ragione immanente, come in
Hegel.
Questa visione, pur essendo consolatrice (ed ecco il perché della sua persistenza nei secoli), per
Schopenhauer risulta palesemente falsa, poiché la vita è al contrario un’esplosione di forze
irrazionali, ed il mondo, anziché essere il regno della logica e dell’armonia, è il teatro
dell’illogicità e della sopraffazione.

Da questo punto di vista, Schopenhauer non può che rifiutare ogni Dio, in qualsiasi modo venga
pensato. Dio è l’espressione del bisogno che spinge l’uomo verso la ricerca di un aiuto e sostegno.
Però tutto questo è inutile : invano l’uomo chiede aiuto agli dèi, poiché rimane implacabilmente in
preda al suo destino. Gli dèi sono quindi superflui e del resto l’ipotesi di un Dio persino nella
religione non è così essenziale, visto che per esempio il Buddhismo non la contempla.

Espressione del dolore universale non è solo l’anelito frustrato della Volontà, ma anche la lotta
crudele di tutte le cose. Infatti, dietro le cosiddette “meraviglie del creato”, si cela una lotta
continua degli uni verso gli altri, tutti protesi alla propria autoconservazione. E in questa
vicenda l’individuo appare soltanto un mero strumento per la specie, fuori della quale non ha
valore.
Alla natura interessa solo la sopravvivenza della specie e null’altro.

Un’altra menzogna contro cui Schopenhauer si scaglia di frequente è la tesi della presunta bontà e
socievolezza dell’uomo. Per lui, la regola dei rapporti umani è al contrario basata sul conflitto e
sul tentativo di sopraffazione reciproca. Regola che è rimasta sostanzialmente la stessa da sempre,
anche nelle nostre civiltà più raffinate.

Schopenhauer polemizza inoltre contro ogni forma di storicismo. In primo luogo, egli ridimensiona la
portata conoscitiva della storia, affermando che essa non è una vera e propria scienza, in quanto si
limita alla catalogazione dell’individuale. Inoltre, se andiamo al di là delle apparenze, non
possiamo fare a meno di scoprire che “non vi è nulla di nuovo sotto il sole”: Il destino dell’uomo,
nei suoi tratti essenziali, è sempre uguale. Dallo studio degli avvenimenti passati, risulta
evidente per Schopenhauer la costante uniformità e ripetitività della storia, nella quale non cambia
l’essenza delle cose, ma solo la loro facciata accidentale e superficiale.

Quando l’uomo arriva a capire che la realtà è Volontà e che egli stesso è Volontà, allora egli è
pronto per la sua redenzione, e questa può darsi solo “col cessare di volere”. Ci si può liberare
dal dolore e dalla noia e sottrarsi alla catena infinita dei bisogni attraverso varie tappe, che
vanno dal suicidio, all’arte, alla pietà, all’ascesi.
Questo rappresenta il punto di maggior frattura per i due filosofi, il pensiero di Nietzsche non
contempla infatti l’ascesi o la sublimazione.

In quanto all’arte, essa è per Schopenhauer conoscenza pura e disinteressata, che si rivolge alle
idee, ossia alle forme pure o ai modelli eterni delle cose. Proprio per questo suo carattere
contemplativo e per questa sua capacità di muoversi in un mondo di forme eterne, l’arte riesce a
sottrarre l’individuo alla catena dei bisogni e dei desideri. Tra le arti spicca la tragedia, che
esprime e oggettiva il dolore dell’umanità, e, ancora di più, la musica: essa è l’immediata
rivelazione della volontà a se stessa, ci mette a contatto, al di là dei limiti della ragione, con
le radici stesse della vita e dell’essere. Ogni arte è quindi liberatrice, catartica, però la sua
liberazione è pur sempre temporanea e parziale : i momenti felici della contemplazione estetica sono
istanti brevi e rari, e sono solo di conforto alla vita stessa ma non sono la redenzione definitiva.

La liberazione totale dalla Volontà si potrebbe ottenere completamente solo con l’ascesi. L’ascesi è
l’esperienza per la quale l’individuo, cessando di volere la vita e cessando lo stesso volere, si
propone di estirpare il proprio desiderio di esistere, godere e, appunto, volere. Il primo passo
verso l’ascesi è la castità, che libera dall’impulso alla generazione e alla propagazione della
specie.
Allo stesso scopo tendono la povertà, il sacrificio, il digiuno ecc. Si ricordi che per Schopenhauer
la soppressione della volontà è in pratica l’unico vero atto di libertà possibile all’uomo. Infatti
se l’individuo come fenomeno è un anello della catena causale ed è necessariamente determinato (non
esiste per Schopenhauer la libertà intesa come libero arbitrio), quando egli riconosce la Volontà
come cosa in sé, si sottrae alla determinazione dei motivi che agiscono su di lui come fenomeno e
dunque prepara la sua liberazione.

Secondo Nietzsche invece il sentimento tragico della vita non è la liberazione dalla volontà, ma è
accettazione della vita stessa, è una esaltante adesione a tutti gli aspetti dell’esistenza.

Nietzsche, lungi dal difendersi da questo doloroso destino, come aveva fatto Schopenhauer e come in
seguito farà Freud, si abbandona all’incontenibile sovrabbondanza della vita, liberando tutte le
maschere e tutte le illusioni attraverso cui questa si offre e si produce. A questo punto la
“rappresentazione” da inganno diventa rimedio, e perciò, nel linguaggio nietzschiano, l’ordine
apollineo, per quanto ingannevole, salva dalla dissolvenza delle forze dionisiache in preda alle
quali l’uomo non potrebbe vivere.

“Educato” da Schopenhauer, Nietzsche accoglie dunque la verità dell’esistenza minacciata da forze
immensamente più potenti di lei ma, “liberato” da Schopenhauer, Nietzsche accoglie anche il mondo
dell’apparenza, e quindi dell’illusione e della maschera senza di cui la vita non sarebbe vivibile.

Nel tentativo di autocritica, che nel 1886 precede una nuova edizione de La nascita della tragedia,
Nietzsche risolve il conflitto abolendo la distinzione tra verità e illusione perché sospetta in
quanti la sostengono (quindi in Platone, nel Cristianesimo, in Kant e nello stesso Schopenhauer)
un’ostilità alla vita, una rabbiosa, vendicativa avversione alla vita stessa.

Il sospetto porta Nietzsche a vedere il mondo delle apparenze non come una difesa contro il terrore
che può incutere la visione della di vita, ma come l’espressione che la volontà di vita racchiude
in se stessa. Da questo punto di vista non c’è più dualismo tra verità e illusione, perché
l’illusione non è prodotta dall’uomo per difendersi dalle atrocità dell’esistenza, ma è prodotta
dalla volontà di vita che, liberandosi, esprime se stessa come potenza plastica formatrice di
apparenze e illusioni.

Il risolvimento del dualismo, che da Platone a Schopenhauer, attraverso il Cristianesimo e Kant,
percorre l’intero pensiero dell’Occidente, è insieme il risolvimento del pessimismo, perché là dove
le illusioni sono le forme in cui si libera la verità dell’essere, non è più necessario, “per amore
della verità”, rinunciare alla vita nel mondo delle illusioni.

L’Autocritica di Nietzsche non lascia dubbi in proposito: ritorna più volte la frase che solo come
fenomeno estetico l’esistenza del mondo è giustificata.
Nietzsche mantiene il principio di Schopenhauer secondo cui l’essere è volontà di vita, ma libera
l’Occidente dal pessimismo perché lo libera dal dualismo dell’ “al di là inventato per meglio
calunniare l’al di qua”, e, a una visione morale del mondo dove “,la vita deve avere costantemente e
inevitabilmente torto” perché l’ “essere” è sempre misurato dal “dover essere”, sostituisce una
visione estetica dove sono ospitati rappresentazione, illusione, apparenza e tutti quei fenomeni che
nel mondo della morale non hanno cittadinanza se non come negatività.

xoomer.virgilio.it/fnietzsche/_private/schopenhauer.htm

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