SCIAMANESIMO 2
da “Enciclopedia olistica”
di Nitamo Federico Montecucco ed Enrico Cheli
I Jhakri – gli sciamani del Nepal e l’alta montagna
Di Italo Bertolasi
“Janai Purnima” – luna piena d’agosto. Piogge torrenziali e un vento freddo ci tormentano mentre
saliamo al lago sacro di Gosaikunda assieme a centinaia di pellegrini indù e a un gruppo di tamang
guidati dai loro sciamani. Con il “doko” – la gerla nepalese – in spalla carica di riso, patate,
zucchero e tè. Unti con dell’olio salato per difenderci da fameliche sanguisughe che ci cadono
addosso dagli alberi e si infilano dappertutto. Attraversiamo le foreste del Langtang National Park
piene di animali selvatici e rifugio d’asceti in quest’era infausta di kali yuga; ogni tanto
incontriamo i pastori tamang con mandrie di “tsauries” – metà vacche e metà yak. Nel santuario di
Sing Gompa gli sciamani suonano il tamburo e danzano per tutta la notte e all’alba si riparte per
raggiungere finalmente i “kunda”, i laghi sacri.
Il mese di luglio-agosto “saun” è infausto: i “deuta” gli dei si sono nascosti nel ventre della
terra e l’essere umano è solo e indifeso. La terra è martoriata da piogge, alluvioni e frane ma al
chiaror di luna piena gli dei ritornano nei loro troni di pietra, i “dharma-sala” d’alta montagna
che si specchiano nel lago. E nel “jatra” – il festival pellegrinaggio – si sale a Gosaikunda ( 4500
metri d’altezza) per adorare la dea madre Kali e il dio androgino Shiva che quando danza in estasi
crea e distrugge la vita. Dio forte e selvaggio che vive nelle foreste e che è il maestro degli
sciamani: il lingam, ovvero il suo fallo eretto, è simbolo dell’ energia fertilizzante ed è adorato
in ogni angolo del Nepal.
Si sale in montagna guidati dagli sciamani vestiti di bianco. Impugnano armi liturgiche antidemoni:
il “trisuli”, il tridente, il “furpa”, il pugnale, le collane di “rudraksha”, semi sacri e
medicinali dell’albero della vita, l’ Elaecarpus.
Sbronzi di “raksi”, un alcool di riso, si canta: ” bal magnu parcha – colmaci di forza e potere” e
si suona il tamburo sciamanico detto “jangro”. Alcuni Yogi, gli asceti indiani, salgono scalzi, in
preghiera e in digiuno. All’alba il lago di Gosaikunda è una specie di magnete caricato a orologeria
che attrae una folla seminuda che si tuffa in quell’acqua gelida e taumaturgica per rinascere e per
purificarsi – rito e medicina delle acque sante.
In Nepal il pellegrinaggio in alta montagna è un percorso d’autoguarigione. Si sale per confondersi
– fondersi con gli dei celesti- ma anche per tonificarsi e curarsi con gli elementi e con la
metereologia dell’alta quota. Per nutrirsi di prana, di cibi cosmici ma anche semplicemente per
“giocare”, per danzare e provare l’ebbrezza del trance. Il trance è uno stato alterato di coscienza
definito dallo studioso francese Lapassade “un godimento del sé e del mondo in modo indistinto”. Un
flash d’energia, una vera illuminazione in cui si riaquista un sentimento di infinita potenza, di
gioia e di liberazione.
I Jhakri, gli sciamani del Nepal, sfruttano allora l’alta quota e lo stress dell’acclimatamento per
stimolare sogni e visioni. Per accendersi, sincronizzare la mente e armonizzarsi con il ritmo del
mondo; uno stato di grazia che è chiamato kamnu e che si manifesta con sussulti, tremori e stati di
catalessi.
Lo sciamano è “medicine-man”, guaritore e specialista dell’anima umana che riesce a comunicare coi
morti, coi demoni e con gli spiriti della natura. Con il volo magico, stimolato dal rombo del
tamburo, con la danza ma anche con droghe come la psilocibina contenuta nel fungo allucinogeno
Ammanita Muscaria, può allontanarsi dal corpo e unirsi alle divinità. Nella possessione divina gli
dei scendono dal cielo e lo “cavalcano”.
Il Jhakri è un “medico ferito” che è riuscito a curarsi da una dolorosa malattia iniziatica simile a
una morte rituale. All’inizio ci si sentirà smembrati e fatti a pezzi tra atroci sofferenze: “si
resta senza respirare, come un morto abbandonato in un luogo solitario” per poi ricomporsi grazie a
una forza calda e misteriosa. Si è allora ” coperti dalle divinità “. Lo sciamano diventa così un
maestro dell’anima che potrà curare le malattie provocate dai boksi – streghe e maghi neri – o dall’
intrusione di “ombre” e altre negatività, o ancora dalla perdita dell’anima -le malattie più gravi
non hanno mai una pura e semplice origine microbiologica.
Il Nepal è terra di magia e di sciamanesimo: si è calcolato che in tutto ci sono ottocentomila
sciamani Jhakri – uno ogni 20 abitanti – ma solo cinquecento medici – uno ogni trentamila.
L’assistenza fornita dagli sciamani è preferita di gran lunga a quella invece fornita dalle
strutture sanitarie del governo ed è a più a buon prezzo.
Riconoscendone il carisma il ministero della sanità nepalese ha deciso di trasformare alcuni
sciamani in veri e propri operatori sanitari insegnandoli a fare soluzioni reidratanti antidiarrea e
a propagandare i sistemi contraccettivi. “Jhakri” vuol dire spettinato, ribelle e ancora chi ha uno
sguardo limpido, intenso che curiosa nei misteri della vita. Il Jhakri è uno psichiatra contadino,
un prete e un un artista rispettato e benvoluto per quella abiltà di mediare tra individui e
comunità e tra il mondo umano e quello divino.
Nelle loro attente diagnosi bioenergetiche – come fanno i nostri migliori naturopati – leggono
l’aura, l’alone magnetico e colorato che irradia il corpo umano – e le disarmonie energetiche che
curano col suono del tamburo. Sono dei grandi viaggiatori: econauti – scienziati che s’avventurano
nelle foreste e nei deserti d’alta montagna alla ricerca di erbe medicinali e di esperienze “off
limits” – e entronauti – esploratori dei misteri dell’anima, della morte e del mondo ultraterreno.
Nimba Bo San è un “lawa” – così sono chiamati gli sciamani dell’ etnia sherpa. Lo incontro nell’alta
valle di Khumbu ai piedi dell’Everest. Mi racconta che da bimbo è stato rapito da un “Bo Jhakri” una
specie di yeti della foresta nepalese, piccolo e verde, che è il gran maestro degli sciamani. Nimba
è trascinato nella selva dove impara la ” lingua degli uccelli ” e il “darma”- la legge universale
che governa il mondo. Si nutre per un anno di funghi, erbe e selvaggina e dopo questo lungo training
nella foresta ritorna al suo villaggio dove è accolto come un vero e proprio sciamano.
Mi invita a casa sua e davanti a un bel piatto caldo di “dhalbat”, riso e ceci e di formaggio
affumicato, il “churpee”, mi racconta che tra i ghiacci dell’ Everest, detto Chomlungma, del Gauri
Shanker e dell’Ama Dablam si nascondono i Lu, spiriti guardiani cacciati dalle foreste. Oggi i
boschi spariscono anche in Himalaya per i tagli selvaggi, gli incendi e le frane e spariscono le “
foreste tempio” che erano farmacie viventi e dispense dei mille cibi di quelle montagne.
Nimba ci dice angosciato: ” Spariranno allora i Bo-jakri che si nutrono degli elisir della foresta e
altri magici protettori: i Chuti e gli Yeti. E la montagna nuda morirà: anche noi sciamani
spariremo”.
A Godawari, dove un bel giardino botanico confina con una famigerata distilleria di wiskhy, incontro
Kanche Kami che è fabbro e sciamano. Nella società indù i Kami sono discriminati come i dami – i
sarti – e i sudra impoveriti e emarginati che vivono in fetide baraccopoli sulle rive del Bagmati,
il fiume sacro di Katmandù. Kanche Kami è magro e spiritato. Ha 65 anni, una moglie che l’assiste e
due figli che non hanno la vocazione di diventar sciamani. Mi mostra con orgoglio la sua fornace e
mi invita a star con lui qualche giorno per assistere alla forgiatura del “kukuri” il pugnale curvo
usato dai Gurka, i famosi soldati mercenari del Nepal.
Ci vuole un giorno intera di duro lavoro per trasformare un pezzo di rotaia d’acciaio della ferrovie
delle Indie in un’arma affilata e brillante con il manico in corno di bufalo e il fodero in legno di
rododendro. Kanche Kami mi vende il pugnale a 6 dollari e poi mi mostra il suo Jangro, il tamburo
sciamanico a cornice cilindrica e a doppia membrana. Mi spiega che è fatto di un legno “vivo”,
scelto a caso e con l’aiuto divino dallo sciamano che entrerà nella foresta purificato e a occhi
chiusi. Altri legni adatti sono quelli carichi di prana e di magnetismi degli alberi colpiti dalle
folgori o di quei pini che “tremano” quando il Jhakri li benedice con aksata – riso santo integrale.
Il legno è poi sotterrato, seccato al sole e piegato col fuoco e le due “faccie” del tamburo sono
ricoperte con pelle di goral – uno stambecco himalayano. Sulla parte maschile è dipinto con argilla
rossa il tridente di Shiva e su quella femminile una luna piena scintillante. Dopo questa
“gestazione” il tamburo potrà finalmente “nascere”. Allora con una “puja” lo si anima e lo si nutre
innaffiandolo d’alcool di riso e di latte mischiato a polveri colorate.
Il suono del tamburo diventa così la voce del tuono e degli spiriti e il jangro un’arma per una
magia del rumore antidemoni. Uno strumento sofisticato con il quale lo sciamano potrà controllare il
battito cardiaco e le emozioni pilotando così il viaggio mistico e le sue estasi. Il manico del
jangro è un pugnale di legno tricipite che ha inciso dei serpenti intrecciati, simbolo del risveglio
della coscienza e di “kundalini” – l’energia sacra della vita.
Kanche Kami è anche un “baidia” un erborista. Tra i suoi rimedi il decotto di ciraito (Sivertia
Chirata) un’erba che cresce sopra i 2000 metri e che stimola l’appetito, gli impacchi di titepati
(Artemisia Vulgaris) e banmara (Eupatorium Odoratum) per cicatrizzare ferite e bloccare le emorragie
e il te’ di datura (Datura Stramonium) antidolore ed efficace per curare la dissenteria.
Indra Badur ha solo 25 anni; è figlio di uno sciamano tamang che in punto di morte gli ha passato
quel “brutto” mestiere. Indra è fuggito dal lontano “far west” del Nepal per cercar fortuna a
Katmandù e oggi fa il minatore in una cava di marmi pregiati. Mi invita a seguirlo in un villaggio
per assister ad una terapia. Mi spiega che la malattia, preceduta sempre da malesseri, sfortune e
disarmonie, è causata da forze invisibili:da bhut -spiriti maligni- da bir – incubi – e da bayu
-venti e umori maligni che penetrano nel corpo indebolito. Per curare lega il suo paziente con un
filo di lana colorata ad una palma. Poi canta dei mantra e con grida e minaccie costringe i demoni
ad abbandonare il corpo malato e a rifugiarsi, seguendo il filo, nella palma “trappola” che è
tagliata con una sciabolata di kukuri. Al rito pertecipa una folla di bimbi, di mamme che allattano
e di sfaccendati: in Nepal la malattia non è mai un fatto privato e chi si ammala è preso in cura
dalla comunità.
Per raggiungere la Jhakrini Budhi Lama mi perdo con Carlos, la mia guida tamang, nel labirinto di
casupole, fabbriche di tappeti tibetani, e ristorantini che circondano la stupa di Bodhnath. Budhi
Lama è una sciamana di 50 anni grossa e sorridente che mi accoglie con simpatia. Starò con lei tre
giorni incollato al suo scanno a riprendere con la mia “Sony” la fila di malate, depresse e
possedute che le si avvicinano per farsi curare. E’ uno squarcio nell’invisibile mondo della
sofferenza delle donne del Nepal sfiancate da una miseria atavica e dalle discriminazioni sancite
dal “Mulaki Ain” – il codice indù.
La sciamana canta il suo mantra, sfiora con la lama del coltello sacro e palpa delicatamente schiene
dolenti, seni colpiti dal malocchio e che non danno più latte, ferite infette, occhi spenti dal
dolore. E a suon di ceffoni e strattoni espelle dai corpi martoriati delle indemoniate quelle
“ombre” che le streghe le hanno gettato dentro.
Bhudi Lama ha avuto un gran coraggio. Mi racconta che a vent’anni il suo guru le lancia la sfida di
trascorrere tre notti vicino alle pire funerarie dove si radunano gli infidi sijo, ovvero le ombre
vendicative di chi muore male e in disgrazia, e i massans, le anime che appartengono invece ai fuori
casta suicidi e che possono provocare diarree e infarti mortali. E’ una lotta drammatica contro
paure antiche quanto l’uomo e contro l’angoscia della morte. Ma Bhudi Lama è protetta dal suo guru e
da muscolosi angeli custodi. Si siede allora a gambe incrociate e in posizione del loto sfida i sijo
alla lotta ed è subito avvolta da nebbie e ombre.
Il suo corpo suda e trema e la mente vacilla nella vertigine del caos e della follia. Ma con uno
sforzo enorme, con preghiere e offerte di cibi raffinati pacifica gli spiriti, vince la sua sfida e
diventa sciamana.
L’iniziazione sciamanica è un incontro coraggioso con la morte: gli sciamani yakuti si distendono e
si lasciano morire per tre giorni di fila nella loro yurta senza mangiare ne’ bere. Gli sciamani
tungusi e buriati si ammalano e in punto di morte sognano d’esser fatti a pezzi mentre attorno le
donne cantano:” il nostro sciamano risusciterà e ci aiuterà “.
Ma si può diventar sciamani anche vincendo la follia come ha fatto Sakyapa Dolkar, una schizofrenica
tibetana che il Dalai Lama ha affidato alle cure di potenti monaci stregoni.Tsetrul Rinpoche, un
famoso lama esorcista, la visita ma scorge in quel malessere anche la presenza di Dorje Yudonma, una
manifestazione della forza cosmica. Com’è diverso il destino dei uno schizofrenico in Italia e in
Nepal! Il lama non solo la guarisce ma le insegna a sfruttare quel dono divino che ha in lei
iniziandola alle arti dell’esorcismo e alle cure magiche tibetane e tantriche.
Sakyapa Dolkar è diventata così una la più famosa guaritrice del Nepal con un seguito anche di
malati occidentali che giurano d’esser stati miracolati. Mi invita ad una puja di guarigione: la
Jhakrini tibetana si nasconde il viso con una seta rossa, si cinge il capo con una specie di corona
e grida e si contorce per entrare in trance. Poi si assopisce, prega e alla fine con le mani
scaldate dalla fiamma viva di un braciere massaggia e picchia con violenza i petti e i ventri tesi e
malati dei suoi pazienti.
Ma perché si va ancora a cercare lo sciamano? Qualcuno è spinto dall’ inquietante curiosità
dell’uomo della “New Age” che vuol vivere in modo più armonico e naturale, altri dalla speranza di
poter guarire anche quando la scienza medica si è arresa, altri ancora per fuggire dai deserti
emozionali delle metropoli e alla ricerca disperata di nuovi valori.
Mi chiedevo tutto questo mentre filmavo quella antica magia del fuoco riproposta da Sakyapa Dolkar a
un gruppo nutrito di “kuire” – di ” bianchi” – provenienti da ogni parte del mondo e arrivati a
Katmandù non per visitare i templi o per fare del trekking ma per curarsi da una sciamana.
Mircea Eliade nel suo saggio “Lo Sciamanesimo” scrive: “Le prodezze magiche degli sciamani svelano
l’altro mondo – quello degli dei e dei maghi – in cui tutto sembra possibile. I morti tornano in
vita e i vivi muoiono per risuscitare. E dove si può sparire e riapparire e in cui le leggi di
natura sono abolite sconfitte da una libertà sovraumana. Lo sciamano difende la vita, la salute, la
fecondità e il mondo della luce contro la morte, la sterilità, e contro il mondo delle tenebre”.
Claudine Brelet nel suo saggio “Le arti mediche sacre” ci ricorda che lo sciamano è un uomo dal
“corpo aperto” in cui albergano spiriti e divinità e che si è addestrato con esercizi straodinari:
“L’apprendista sciamano si apparta nel folto di una foresta o nella solitudine delle montagne,
vivendo con gli animali. Si fortifica immergendosi nell’acqua ghiacciata dei torrenti e si abitua a
sconfiggere il dolore flagellandosi con ramoscelli, amputandosi una o più falangi o praticandosi
profonde scarificazioni; cammina a gran velocità,sale,scende, risale e si precipita nuovamente giù
dai pendii delle montagne desertiche.Giunge così al parossismo dello sfinimento fisico e nervoso,che
di colpo, lo farà cadere nello stato estatico, nel trance e nelle visioni tanto agognate”. Le sue
intuizioni e il suo “linguaggio segreto” sono le sorgenti d’ogni arte e d’ogni medicina.
L’ uomo moderno fugge dal suo mondo inquinato, da modi di vivere frigidi e meccanici per ritrovare
salute e libertà. Ma per stare bene dovrà recuperare istinti e animalità, dovrà inventare nuove e
gioiose preghiere fatte di danza, dovrà ritrovare il sentiero nella “foresta” per ritornare a scuola
dallo sciamano.
Lo sciamano è una biblioteca e un “tesoro vivente” che ha conservato un prezioso patrimonio di
conoscenze per la sopravvivenza della vita su questo pianeta sempre più inquinato. Ha studiato nei
boschi: è un esploratore e un maratoneta sempre in viaggio e anche uno scienziato che finalmente si
è deciso di proteggere.
L’ UTA – Urgent Tribal Assistance
LUTA è un progetto internazionale a tutela della “cultura sciamanica” nelle aree tribali a rischio
promosso da una fondazione americana per gli studi sciamanici. Si vogliono abbattere quelle barriere
culturali e finanziarie e quella “congiura di silenzio”che ci ha allontanati dallo sciamanesimo e
che ancor oggi rende difficile il contatto transculturale tra medici, antropologi, artisti e
sciamani. Si vorrebbe da una parte insegnare la “scienza” e la nostra tecnologia agli sciamani e
dall’altra le arti e le terapie olistiche più antiche del mondo ai nostri cervelloni e agli
psichiatri.
La fondazione sta pagando dei vitalizi a vecchi e famosi sciamani che sono stati eletti ” patriarchi
dell’umanità ” e organizza di “volo magico” e iniziazione al tamburo. Tra i beneficiari di questa
specie di pensione c’è un’ anziana “mamas” – sciamana della tribù Kogi (Colombia) – un’altra
sciamana della Siberia e il “lapa” Wangchuk – un esorcista tibetano che risiede nel campo profughi
di Tashi Palkhiel in Nepal.
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